Obama a testa bassa: le possibili ripercussioni della disfatta democratica sul Medio Oriente
di David Braha
David Braha
Le previsioni dei sondaggi si sono dimostrate veritiere. Alle elezioni di midterm negli Stati Uniti crolla il monopolio democratico targato Obama, e i repubblicani registrano una vittoria che gli assicura un’ampia maggioranza alla Camera, una notevole avanzata in Senato (senza però assicurarsene il controllo), e ben dieci governatori sottratti ai liberals. Senza ombra di dubbio, la disfatta democratica appare come la punizione del popolo nei confronti di un’amministrazione che non ha saputo risollevare un’economia che ancora stenta a ripartire. Tuttavia non è di certo questo l’unico fattore che ha portato alla caduta dei democratici: molti infatti avevano considerato queste elezioni come un referendum pro o contro Obama, il presidente eletto sull’ondata dell’entusiasmo popolare e che adesso non va giù a oltre la metà degli americani. Di fatto, quindi, mentre i repubblicani festeggiano le loro più o meno schiaccianti vittorie, il Presidente ha tanto di cui riflettere per il futuro. Tali riflessioni però non riguardano soltanto l’impianto governativo americano: la brutta performance democratica infatti potrebbe influire non poco sulla politica estera statunitense, ed in particolar modo su quella legata al Medio Oriente. È per questo motivo che in Israele si guarda con forte interesse (e forse preoccupazione) ai possibili scenari che vanno defilandosi a seguito della ormai evidente disfatta democratica. Le ipotesi sono fondamentalmente due, una diametralmente opposta all’altra.
La prima è quella secondo cui un Obama vacillante sul fronte interno indebolirebbe la posizione della Casa Bianca anche in politica estera. In questo momento infatti le questioni prioritarie sull’agenda politica statunitense riguardano il paese stesso: all’americano medio che non ha un’occupazione e che stenta ad arrivare a fine mese, poco importa di Israele, Iran, Iraq, o Afghanistan. Per questo motivo il doversi confrontare con un parlamento pressoché ostile richiederà da parte dell’esecutivo la profusione di un impegno nettamente maggiore: e, di conseguenza, un’America fortemente concentrata sulla soluzione dei numerosi problemi interni avrebbe una minore capacità di occuparsi dei problemi di oltreoceano. Tuttavia non tutti sono d’accordo con questa visione dei fatti, e propongono piuttosto un’altra ipotesi: quella secondo cui, trovandosi paralizzato dall’ostruzionismo repubblicano sulle riforme interne, un Obama debole in casa potrebbe rivolgere tutta la propria attenzione sullo scenario internazionale dove può ancora avere voce in capitolo. Questo scenario diventerebbe ancora più plausibile nel caso in cui la popolarità del Presidente crolli al punto tale da mettere in serio dubbio la possibilità di essere rieletto alle presidenziali del 2012. Spinto anche dalla non meritata assegnazione del Nobel per la Pace, Obama potrebbe quindi lanciarsi quindi in un estremo tentativo di mantenere almeno le promesse fatte sul fronte internazionale. È sulla base di queste considerazioni che saranno scelte le prossime mosse dell’Amministrazione USA.
Dal punto di vista della Casa Bianca, se le trattative di pace tra Israeliani e Palestinesi stentano a progredire, la colpa andrebbe addossata principalmente a Netanyahu ed al suo rifiuto di rinnovare la moratoria per la costruzione degli insediamenti nella West Bank. Dal canto suo invece, il Primo Ministro israeliano afferma che uno slittamento della scadenza della moratoria è stato reso impossibile dall’ostruzionismo dei partiti di estrema destra. Minacciando infatti di far cadere il governo in caso di rinnovamento, queste fazioni avrebbero così messo Netanyahu letteralmente con le spalle al muro. Come noto, l’Amministrazione statunitense non ha affatto gradito la mossa da parte degli israeliani: ma al di la di qualche blanda parola di condanna, una risposta decisa da parte di Obama e del suo entourage ancora tarda ad arrivare. È per questo che la speranza di Israele in questo momento è che la posizione dello stesso Obama risulti indebolita anche in campo internazionale dall’esito negativo delle elezioni di midterm. In questo caso infatti la Casa Bianca avrebbe una minore capacità di fare pressione sugli Israeliani, lasciando così a Netanyahu la possibilità di muoversi con maggiore libertà. Non solo, ma con un Presidente debole aumenterebbe anche l’influenza da parte dei molti amici di Israele, tanto democratici quanto repubblicani, all’interno del Congresso Americano. Al contrario però, se la sconfitta interna dovesse portare ad una maggiore concentrazione sulla politica estera, per Israele arriverebbero tempi molto duri. La sensazione latente all’interno dello Stato Ebraico è che, in uno scenario del genere, l’Amministrazione potrebbe assumere un approccio ancora più ostile nei suoi confronti: innanzitutto Israele si ritroverebbe a dover pagare le conseguenze del mancato rinnovamento della moratoria; ma, soprattutto, si troverebbe costretto a concedere sempre di più nel quadro di un’eventuale continuazione delle trattative di pace con i Palestinesi.
Tuttavia esiste anche un altro aspetto della faccenda. Se da una parte infatti la debolezza di Obama avvantaggerebbe la posizione di Netanyahu, dall’altro lato lascerebbe un vuoto di potere dal quale anche i nemici di Israele potrebbero trarre giovamento. Non che fino ad oggi il Presidente sia stato particolarmente incisivo nei loro confronti, ma la domanda a questo punto sorge spontanea: conviene veramente ad Israele che un Obama già titubante verso un Iran che si avvicina sempre più alla bomba atomica, venga ulteriormente indebolito sul piano internazionale? Come è evidente quindi, l’eco del crollo democratico nelle elezioni di midterm avrà profonde ripercussioni non solo sulla politica interna statunitense, ma anche su luoghi assai lontani dai salotti di Washington. Senza dubbio quindi, nel mandato quadriennale dell’Amministrazione Obama il 3 Novembre 2010 ha rappresentato l’alba di una nuova era; sarà molto interessante scoprire se, ma soprattutto in che modo, la vittoria repubblicana sarà in grado di modificare lo scenario geopolitico internazionale dei due anni a venire.