A un passo dalla salvezza Silvana Calvo
La politica Svizzera di respingimento degli ebrei
durante le persecuzioni 1933-1945
Zamorani Euro 28,00
Le case bianche di un candore immacolato e i prati, tutto attorno, smaltati di verde brillante. Qualche gradino in pietra conduce alla porta di legno antico, anzi alle porte, una a destra, l’altra a sinistra, simmetriche e uguali. Forse una casetta bifamiliare ? Eppure no. La ragione di questa doppia entrata è ben più remota e magari un poco imbarazzante: da una parte entrano gli ebrei e dall’altra i cristiani.
In verità, non c’è poi tanto da stupirsi. Endingen, il villaggio dalle doppie porte, è un paesino dell’ordinatissima Svizzera, meticolosa anche nel distinguere tra fede e fede. Dal 1776, e fino al 1879, agli ebrei della Confederazione fu consentito di abitare soltanto in questo villaggio e in quello vicino di Lengnau. Qui potevano vivere sotto uno stesso tetto con i cristiani, ma dovevano restare per così dire, separati in casa. L’unico edifico di culto di Endingen era la sinagoga, tanto che i cristiani dovevano farsi qualche chilometro per raggiungere le loro chiese: i cattolici e Unterendigen e i riformati a a Tegerfelden. Insomma un mosaico di diversità e, nei confronti del giudaismo, tolleranza sì, ma piuttosto striminzita.
Questi antecedenti storici possono aiutare a comprendere la politica svizzera verso gli ebrei durante gli anni della persecuzione, tra il 1933 e il 1945. Si è infatti abituati a pensare alla Confederazione Elvetica come a un porto di rifugio, in cui i profughi ebrei trovarono scampo dai nazisti e dai repubblichini, ma la verità, ripercorsa ora da Silvana Calvo in un volume pieno di particolari inediti, è più complessa. Soprattutto dopo l’annessione dell’Austria al Reich nel 1938 e lo scoppio della guerra nell’anno successivo, il governo confederale mise in atto una politica di respingimento degli ebrei alle frontiere, nell’intento di non dispiacere agli arroganti vicini germanici e di non snaturare l’omogeneità della popolazione Svizzera con l’immissione di “stranieri”.
Anime di questa rigida chiusura furono il ministro per la Sicurezza Interna Eduard von Steiger e il responsabile del Dipartimento di Polizia per i profughi, Heinrich Rothmund. In alcuni casi, i solerti funzionari elvetici provocarono gravi conseguenze. Furono per esempio gli svizzeri a pretendere che sui passaporti degli ebrei provenienti dall’Austria fosse stampigliata in rosso la “J” di “Jude”, “Ebreo”, col risultato di aggravare ulteriormente la discriminazione.
Va detto però che, anche negli anni più bui del conflitto, la Svizzera rimase un paese democratico, con piena libertà di stampa, così che le notizie sull’annientamento degli ebrei nel resto d’Europa potevano venire a conoscenza dell’opinione pubblica. Nel 1942 vi fu una protesta dei cittadini, che costrinse il governo ad attenuare il proprio atteggiamento. Tra gli episodi di solidarietà, va ricordata una lettera inviata da ventidue studentesse quattordicenni al governo svizzero, ingenua nei toni ma tanto toccante nel contenuto che il potente von Steiger si affannò a scrivere personalmente una risposta (peraltro mai inviata) e sollecitò un’indagine disciplinare nella scuola, per scoprire chi stava dietro alla lettera: “Un maestro, un prete o una maestra? O chi altro?”. Dopo minuziosi interrogatori, le autorità scolastiche appurarono che a muovere le ragazzine era stata solo la loro coscienza: “Non ci saremmo mai immaginate – avevano scritto – che la Svizzera, l’Isola di pace che pretende di essere misericordiosa avrebbe ributtato come bestie questi miseri esseri infreddoliti e tremanti”. Almeno nel loro caso, la porta del cuore era una sola.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore