Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 30/10/2010, a pag. 1-35, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " La fragile democrazia di Israele ".
Il titolo non è del tutto corretto. Scrivere di 'fragilità della democrazia israeliana' significa che essa è in pericolo, che rischia di non esistere più. Ma Yehoshua, nel suo articolo, non scrive nulla di simile, anzi : " Lungi dal voler suscitare timori eccessivi circa i pericoli in agguato per la democrazia israeliana".
Ecco l'articolo:
A. B. Yehoshua
È passato qualche tempo da che ho scritto il mio ultimo articolo per «La Stampa» e questo non solo perché negli ultimi mesi sono stato occupato a ultimare il mio nuovo romanzo che uscirà nelle librerie israeliane alla fine di dicembre ma anche per un senso di stanchezza e di distacco dalla politica israeliana. Forse perché il romanzo verte sul tema della creatività artistica (mediante una retrospettiva sui primi film di un vecchio regista) anziché sulla realtà israeliana e, benché questa sia presente, l’accento è più sulle tensioni e sulle lotte tra sceneggiatori, addetti alla fotografia e attori che non su quelle tra palestinesi e israeliani o intestine ebree. Lo sforzo di terminare il romanzo mi ha quindi distratto dai soliti problemi. Ma il nuovo libro non è il motivo principale del mio disinteresse dalla politica israeliana, soggetta, come altre realtà, a sviluppi interni anche quando appare statica e immutabile.
Il mio temporaneo disinteresse è dovuto alla sensazione, forse errata, che il mondo politico israeliano sia in attesa che il Presidente degli Stati Uniti imprima una vera spinta al processo di pace.
E siccome non ho la pretesa di capire o di analizzare cosa possa spronare l’amministrazione Obama a un’azione più energica, e non solo verbale, mi astengo da suggerire ipotesi prive di fondamento. Come è scritto nella Bibbia: «In tempi come questi, il saggio tace». Nel frattempo però, indipendentemente dal fatto che la pace con i palestinesi sia vicina o meno, prosegue un’irritante erosione del tessuto democratico israeliano. Lungi dal voler suscitare timori eccessivi circa i pericoli in agguato per la democrazia israeliana - come fanno certi giornalisti e intellettuali di sinistra miei colleghi -, mi limiterò a dire che occorre stare all’erta per frenare la recente accelerazione di questa erosione. È vero, viviamo in un’epoca di tendenze politiche conservatrici, sia negli Stati Uniti che in molti Stati europei. I timori per le identità nazionali (vuoi per l’arrivo di immigrati e di lavoratori stranieri, vuoi per il processo di globalizzazione), si fanno più forti e la ovvia reazione è una svolta verso principi conservatori e nazionalisti.
Per questo il cambiamento degli ultimi anni nel modo di celebrare l’anniversario dell’assassinio di Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre 1995, è benvenuto. Da giornata dedicata al ricordo della personalità dello scomparso e a una forte condanna dell’assassinio e del suo fautore (accompagnata dalla pretesa della sinistra a un esame di coscienza da parte della destra religiosa e nazionalista per la campagna denigratoria nei confronti di Rabin antecedente l’assassinio) si è trasformata in una giornata di studio mirata a rafforzare la coscienza democratica di tutto il Paese. E questo è uno sviluppo giusto e salutare. Ora che persino il leader del Likud, Benyamin Netanyahu, e il capo dell’opposizione Tzipi Livni - strenui oppositori di Rabin negli Anni 90 - proclamano alla Knesset di essere i prosecutori del pensiero politico dello statista che fece il primo passo verso il riconoscimento del popolo palestinese, non ha senso rinfocolare le passate divergenze ed è preferibile dedicare questo anniversario a consolidare la coscienza democratica in Israele, cosa di cui si ha davvero bisogno.
La scorsa settimana alcune unità dell’esercito israeliano hanno organizzato simposi dedicati al tema della democrazia. Io sono stato invitato a tenere una conferenza davanti ad alti ufficiali e al generale responsabile del comando settentrionale. Può forse apparire strano ai lettori italiani che ufficiali di alto grado dell’esercito, impegnati ad affrontare minacce quotidiane dalla Siria o dal Libano, invitino uno scrittore politicamente moderato e di sinistra a tenere una dissertazione sul significato della democrazia e sui pericoli che la minacciano.
Proprio perché in anni recenti il numero di alti esponenti dell’esercito osservanti è aumentato era importante per me comparire davanti a uomini che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a forgiare la coscienza di migliaia di soldati loro sottoposti. Sono infatti soprattutto i religiosi-nazionalisti, presenti in gran numero negli insediamenti in Cisgiordania e nelle file dell’esercito, e gli ultraortodossi conservatori (con le loro accademie talmudiche e le diverse comunità) a rappresentare una minaccia per la democrazia israeliana. A loro giudizio il governo dello Stato dovrebbe sottostare alle regole della Halachà (complesso delle norme della legge ebraica) e alle direttive dei rabbini piuttosto che alle decisioni del parlamento o della Corte Suprema.
Ovviamente non si possono muovere critiche indiscriminate. La maggior parte della popolazione religiosa di Israele, nazionalista e ultraortodossa, è fedele allo Stato e alle sue leggi. Tuttavia, in linea di principio, l’accettazione della democrazia come sistema decisionale è problematica per gli ebrei religiosi. Per duemila anni, nella diaspora, gli ebrei non sono stati soggetti al potere dei loro confratelli ma a quello dei gentili, né avevano un’autorità religiosa suprema, come per esempio il Papa per i cattolici.
Fatti un maestro e allontanati dal dubbio, è scritto nella Mishnah. Ovvero, gli ebrei sparsi in tutto il mondo erano soliti scegliere l’autorità religiosa alla quale prestare ascolto. Il sistema politico israeliano basato sulle regole della democrazia nato nel ventesimo secolo è quindi un’innovazione radicale per gli ebrei, e la possibilità che leggi parlamentari votate da una maggioranza (composta anche da arabi israeliani) possano imporsi su quelle della Torah o sulle direttive dei rabbini è ancora vista dagli osservanti come una cosa rivoluzionaria.
Mentre per molti popoli transitati da un regime di dittatura a uno di democrazia può risvegliarsi la tendenza a un ritorno al totalitarismo in momenti di crisi, per gli ebrei di Israele la minaccia alla democrazia è rappresentata da un ritorno all’anarchia. La trasformazione dell’anniversario della morte del primo ministro Rabin in una giornata dedicata allo studio e al rafforzamento della giovane democrazia israeliana è perciò un modo per aiutarla a prepararsi alle crisi e alle difficili prove che l’attendono.
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