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Ebrei di porto nella Trieste asburgica Lois C. Dubin
Tutto quel “furor di fabbrica, polvere, baccano di muratori e falegnami lo infastidivano visibilmente, eppure non la smetteva di aggirarsi per il cantiere. Ormai la costruzione era a buon punto, già ferveva il traffico di merci e navi, e le banchine formicolavano “di una popolazione utile, continuamente in moto e affaccendata”. A farla breve, brutte, anzi pessime notizie, perché ogni pietra che s’aggiungeva allo scalo marittimo di Trieste era un colpo per la prosperità di Venezia da tempo in declino. In uno studio, ormai classico, ora tradotto in italiano, Lois C. Dubin tratteggia il grande affresco dello sviluppo di Trieste nel Settecento e della contemporanea ascesa di un colto ceto mercantile ebraico, vero motore del porto asburgico. Siamo abituati a considerare l’impero asburgico come una grande struttura di mediazione tra occidente e oriente europeo, eppure il caso di Trieste dimostra come servisse anche da ponte tra nord e sud, con un flusso vitale di uomini, d’idee, di commerci. La trasformazione di una pigra cittadina di provincia in emporio multietnico fu rivoluzione voluta dall’alto, pianificata fin nei dettagli dalla corte viennese e realizzata facendo leva, in primo luogo, sull’imprenditorialità giudaica. Il modello fu quello di Livorno, in cui già tra Cinque e Seicento i Granduchi avevano garantito agli ebrei notevole libertà, ma ora il mercantilismo di Stato poteva contare sui più raffinati strumenti di un illuminato assolutismo. Alla minoranza vennero così progressivamente riconosciuti ampi diritti civili. In cambio, Maria Teresa e il figlio Giuseppe II pretesero che la comunità ebraica s’integrasse a pieno nella vita sociale.
Giulio usi |
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