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Il Foglio Rassegna Stampa
23.10.2010 Il ruolo della religione in Medio Oriente
Amy Rosenthal intervista Bernard Lewis

Testata: Il Foglio
Data: 23 ottobre 2010
Pagina: 10
Autore: Amy Rosenthal
Titolo: «Le fedi e il potere. Il nostro Oriente così vicino»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/10/2010, a pag. VI, l'artcolo di Amy Rosenthal dal titolo " Le fedi e il potere. Il nostro Oriente così vicino ".

Nella rubrica Libri Raccomandati di IC è presente una scheda con i libri di Bernard Lewis. Per leggerla, cliccare sul link http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=30464

Ecco l'articolo di Amy Rosenthal:


Bernard Lewis,       Amy Rosenthal

Bernard Lewis, “Cleveland E. Dodge Professor” emerito di Studi sul vicino oriente all’Università di Princeton, è a livello mondiale una delle voci più autorevoli sull’islam e sul medio oriente. All’età di 94 anni, ha appena pubblicato per la Oxford University Press “Faith and Power: Religion and Politics in the Middle East” (Fede e potere: la religione e la politica nel medio oriente), un compendio di saggi che evidenziano la correlazione tra religione e governo nel mondo islamico. In questa intervista esclusiva per il Foglio, il celebre storico parla del suo ultimo libro e, citando un verso dalla “Tempesta” di Shakespeare, ci ricorda chiaramente che “il passato è il prologo”.
Cominciamo chiedendo a Lewis di spiegare il ruolo che la religione ha nel medio oriente e in che modo diverge dal ruolo che ha in occidente. “Non dimentichiamo che il mondo occidentale, così come lo intendiamo noi ora, si trova nel XXI secolo, mentre quello musulmano si trova nel suo XV secolo. Quindi, se si pensa al mondo occidentale o cristiano del XV o XVI secolo, diciamo che è possibile avere un’idea più chiara delle differenze”, premette Lewis prima di sviluppare il suo ragionamento. “Al mondo ci sono molte religioni, ma solo due, quella cristiana e quella islamica, sostengono di essere le fortunate depositarie del messaggio definitivo di Dio all’umanità, e che sia compito loro diffonderlo al resto del mondo, eliminando qualsiasi ostacolo possa intralciare il cammino”.
Enfatizzando questo nesso comune, Lewis cita san Giovanni da Capestrano, il frate francescano il cui nome adorna ancora la cartina della California: “San Giovanni da Capestrano era un fanatico, ostile tanto agli ebrei quanto ai musulmani, il quale dedicò gran parte della vita a dichiarare guerra a coloro che riteneva i due principali nemici della cristianità. Scrisse tutta una serie di sermoni in cui inneggiava ai pogrom per i primi e alle crociate contro i secondi. Ora la maggior parte delle sue accuse risultano essere false, ma una di queste è vera. Sosteneva infatti che gli ebrei avevano l’assurda convinzione che ogni individuo poteva essere salvato dalla propria religione, e in questo ha ragione. Il Talmud dice, in modo abbastanza esplicito, che la virtù di tutte le genti assicura un posto in paradiso.
Secondo il punto di vista ebraico, così come le persone hanno inventato delle lingue diverse per comunicare, allo stesso modo hanno creato religioni differenti per parlare con Dio, e Dio le comprende tutte. Suppongo che questa sia la stessa interpretazione data dagli induisti e dai buddisti, tra gli altri. Tuttavia, il cristianesimo e l’islam, queste due religioni trionfaliste, credono che solo i loro adepti possano accedere al paradiso, mentre al resto del mondo sarebbe riservato l’inferno. I due paradisi sono molto diversi, ma gli inferni sono invece molto simili”, come commenta Lewis con ironia. “Quando due religioni di questo calibro convivono fianco a fianco, sono guidate dallo stesso senso di missione e hanno la stessa autopercezione, lo scontro diventa inevitabile. Questo spiega la ragione del lungo e interminabile conflitto tra il mondo islamico e quello cristiano, che ha inizio con l’avvento dell’islam nel VII secolo dell’era cristiana ed è continuato, sebbene a fasi alterne, fino ai giorni nostri”. “I popoli musulmani, come chiunque al mondo, sono plasmati dalla propria storia, ma diversamente da altri ne sono profondamente consapevoli”, sottolinea Lewis prima di approfondire il discorso sulla tradizionale divisione islamica del mondo tra la “casa dell’islam” e la “casa della guerra” (vale a dire, i non credenti) ripresa da Osama bin Laden: “Nella sua ‘Dichiarazione del fronte islamico mondiale per la jihad contro ebrei e crociati’, pubblicata nel 1998, egli riconosce che il mondo islamico è stato governato da capitali diverse, guidato da vari popoli, dinastie e stati, e che lo stesso vale per l’occidente. Ma per lui e per i suoi seguaci l’islam continuerà a essere in una condizione di guerra perpetua contro i non credenti. In quest’ultima e definitiva fase sostiene che il mondo degli infedeli è diviso e conteso tra due superpotenze rivali: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Ma dopo la sconfitta sovietica nella guerra in Afghanistan (1979-89), bin Landen dichiarò che furono i musulmani a scacciare dal territorio i russi, i quali subirono una disfatta così travolgente da non poter evitare il collasso dell’Unione Sovietica. Secondo l’interpretazione di bin Laden, loro, cioè i musulmani simili a lui, erano riusciti a sgominare la più sanguinaria e pericolosa tra le superpotenze infedeli, e quindi affrontare gli americani, viziati ed effemminati, sarebbe stato un gioco da ragazzi. Sostiene inoltre che vi siano due fasi: prima bisogna cacciare gli infedeli dalle terre dei non credenti e questo, ovviamente, è stato completato, a parte alcune eccezioni isolate, nella fattispecie Israele e la Spagna; dopodiché, la cosa più importante da fare è diffondere l’islam nelle terre dei non credenti in tutto il mondo per la vittoria finale”.
Lewis esita un attimo, poi aggiunge: “Questa è la percezione di quelle persone che noi ora chiamiamo fondamentalisti islamici, ma non è l’unica credenza diffusa nel loro mondo, e nemmeno la dominante”, insiste lo storico. “Ciononostante, è un’idea di un certo peso che ha un seguito considerevole ed è ciò con cui l’occidente si deve confrontare in questo momento. E’ importante capire che il mondo islamico è ancora lo stesso e l’antica rivalità con il cristianesimo, che dura incessantemente da quattordici secoli, è per loro ancora sostanziale”. “E’ vero che nell’islam esiste una divisione tra sunniti e sciiti”, prosegue Lewis, “ma si tratta di uno scisma completamente diverso da quello tra protestanti e cattolici, o perfino tra cattolici e ortodossi, che si riallaccia a una questione più ampia sulla relazione tra religione e politica, da me leggermente riformulata in chiesa e stato”. Spiega Lewis: “La differenza tra protestanti e cattolici si fonda sull’autorità ecclesiastica: accettare o meno l’autorità del Papa. Tra cattolici e ortodossi, la disputa era su quale vescovo fosse il più importante: quello di Costantinopoli o quello di Roma. Tali questioni hanno dato origine alle grandi guerre di religione della cristianità. All’interno dell’islam sono nate delle differenze, che in alcuni casi hanno portato a conflitti, ma di portata minore rispetto alla ferocia delle guerre e delle persecuzioni del mondo cristiano”.
Perché è avvenuto? “La ragione è molto semplice. Gesù venne crocifisso e i suoi discepoli diventarono una setta perseguitata per secoli, finché non riuscirono a convertire l’imperatore romano Costantino, il quale fece del cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano, dando avvio a due processi paralleli: la cristianizzazione di Roma e la ‘romanizzazione’ di Cristo. All’opposto, l’islam ha trionfato durante tutta la vita del fondatore Maometto, il quale non fu né perseguitato, né condannato a morte. Divenne il sovrano a capo di uno stato che, ben presto, si trasformò in un impero e fece quello che fanno i sovrani: promulgò e applicò le leggi, amministrò la giustizia, riscosse le tasse, radunò eserciti, combatté guerre. E, ovviamente, fu anche un profeta. Quindi, mentre nella cristianità alla fine si hanno due istituzioni separate, la chiesa e lo stato, nella storia del mondo islamico questo non esiste. Si dice che la moschea equivalga alla chiesa, ed è vero, nel senso che è un edificio e un luogo di preghiera e di studio, ma non esiste alcuna corrispondenza dal punto di vista istituzionale”.
Si prende una lunga pausa, Bernard Lewis. Poi racconta un aneddoto letto molti anni fa in Inghilterra: “C’era un certo ecclesiastico cristiano interessato alle questioni ebraiche; scrisse un libro intitolato ‘The systematic theology of the synagogue’ [La teologia sistematica della sinagoga], che venne poi recensito da un rabbino, il quale iniziò la sua critica in questo modo: ‘Non esiste una sinagoga come la intende l’autore, e se esistesse non avrebbe mai una teologia, o se anche l’avesse non sarebbe sistematica’. Lo stesso si può affermare per l’islam. La moschea è un edificio, ma non la si può ritenere un’istituzione simile alla chiesa, perché tale istituzione non esiste. Non esiste un’autorità ecclesiastica separata e la legislazione è una e unica: la sharia, la legge sacra islamica.
Solo in tempi relativamente moderni si è potuto assistere nel mondo musulmano a una graduale imitazione dell’occidente e, più nello specifico, delle consuetudini cristiane”. Lewis presenta due esempi recenti relativi alle due fazioni dell’islam, la sunnita e la sciita. Comincia con la prima: “Inizialmente il Mufti era un semplice giurisperito. Era come un rabbino: forniva risposte a domande; uno studioso indipendente che interpretava la sharia e ne traeva una regola. Tuttavia, in tempi recenti, imitando le consuetudini europee, il mufti è diventato una sorta di vescovo. Questa è un’invenzione ottomana, assolutamente nuova e aliena per l’islam. E’ parte dell’occidentalizzazione che ha toccato il mondo intero nei tempi moderni; al principio infatti non c’era nulla di simile a un gran mufti, né alcun tipo di organizzazione religiosa con una gerarchia di mufti e altri soggetti, come succede ora in numerosi paesi musulmani”, afferma Lewis.
Ma anche gli sciiti hanno adottato consuetudini simili a quelle cristiane: “Vede, è molto evidente nell’Iran dei giorni nostri, dove hanno creato l’equivalente musulmano di un Papato, un collegio dei cardinali e, soprattutto, un’inquisizione”. Nel suo “Faith and Power”, Lewis solleva ripetutamente la questione se la democrazia liberale sia o meno compatibile con l’islam. Alla domanda sulla sua opinione, risponde così: “Direi che è difficile, ma non impossibile.
L’islam in sé non è contro la democrazia. Detto questo, dobbiamo stare attenti a cosa intendiamo: non deve necessariamente essere il nostro modello di democrazia. Esistono anche aspetti positivi all’interno dell’islam: per esempio, la tradizione islamica è fortemente contro la dittatura. Originariamente i musulmani davano grande rilievo a quello che chiamano ‘consultazione’. Nel Corano, lo stesso profeta Maometto dice che prima di passare all’azione è necessario discutere i fatti con la gente, consultare le persone e cercare di raggiungere una forma di accordo. E’ stato così per molti secoli nel mondo islamico, che era molto meno autoritario dell’occidente premoderno. Infatti, i sovrani dell’islam – sultani, califfi, ecc. – consultavano e interpellavano i gruppi di un certo rango: il clero, le corporazioni artigiane, i capi tribali, i proprietari terrieri e così via. Quindi, questa attività di consultazione non era solo propagandistica, ma rappresentava la realtà”. Sottolineando la propensione al dialogo dei primi sovrani musulmani, il grande storico racconta di una lettera scritta nel 1786 dal conte di Choiseul-Gouffier, l’ambasciatore francese a Istanbul: “A quel tempo il governo francese stava cercando di persuadere il sultano ottomano a fare qualcosa e l’ambasciatore non registrava grandi progressi, così il governo di Parigi gli scrisse chiedendogli di velocizzare le cose e di smuovere la situazione.
La risposta dell’ambasciatore fu: ‘Qui non è come in Francia, dove il re è l’unico padrone e fa quello che gli pare. Qui il sultano deve consultarsi’. Questo è assolutamente vero. Era una società basata sulla consultazione e, aspetto ancora più importante, i capi di questi gruppi erano eletti al loro interno e non venivano scelti dal governo. Quindi nel mondo islamico esisteva un limite effettivo all’autorità, che non trovava corrispondenza nell’occidente predemocratico.
Purtroppo ciò che andò storto fu il processo di modernizzazione, che ha implicato tutta una serie di eventi: innanzitutto ha messo nelle mani dei governi del medio oriente i mezzi di comunicazione e repressione come mai fino a quel momento. Ora essi possiedono dispositivi di ogni sorta per controllare e sopprimere chi si oppone, così la creazione di quello che è diventato il tipico modello di dittatura mediorientale sfortunatamente non è altro che frutto del processo di occidentalizzazione. Non intendo dire che questo risultato sia voluto, però senza dubbio ne è la conseguenza. Il vecchio ordine è scomparso lasciando il posto al nuovo”. Nel capitolo intitolato “Free at Last? The Arab World in the Twenty-first Century” (Finalmente liberi? Il mondo arabo nel XXI secolo), Lewis scrive, in merito al conflitto israeliano-palestinese: “Se il conflitto riguarda le dimensioni di Israele, allora negoziati lunghi e contorti potrebbero alla fine risolvere il problema. Ma se il conflitto ruota attorno all’esistenza di Israele, allora non vi è alcun negoziato serio possibile”. Considerando che i palestinesi continuano a non voler riconoscere Israele come stato ebraico e hanno annunciato l’intenzione di interrompere le trattative dirette in corso con gli israeliani se questi non protrarranno il blocco alla costruzione di case in Cisgiordania, chiediamo a Lewis se arriverebbe ad affermare che la riapertura dei negoziati diretti è destinata a fallire.
“Malauguratamente, se si considera quanto viene detto non solo all’interno della Palestina, ma più in generale nel mondo islamico, si ha l’impressione che qualsiasi forma di accordo con Israele sia provvisoria. E’ concesso prendere accordi temporanei con il nemico al fine di guadagnare tempo per la riorganizzazione e per nuovi raggruppamenti, prima di procedere alla nuova fase. L’impressione generale, credo, è che le cose stiano così. Nel complesso, c’è riluttanza a riconoscere la perdita di qualsiasi territorio che prima apparteneva al mondo islamico. Questo è il caso di Israele, ma non solo”. Per fare un esempio, Lewis racconta un fatto a cui ha assistito personalmente: “Rimasi molto colpito mentre mi trovavo in Spagna alcuni anni fa con un gruppo di amici turchi. Tra di noi parlavamo in turco e alcune persone si avvicinarono per invitarci a visitare il centro islamico locale. Invitarono anche me, pensando probabilmente che fossi anch’io turco e, di conseguenza, musulmano”, commenta Lewis ridendo. “Gli uomini che ci avevano invitato cominciarono a spiegare in modo piuttosto appassionato come la Spagna in realtà facesse parte del mondo islamico e avesse raggiunto il periodo di maggior prestigio sotto il dominio musulmano: tutte le persone attorno a noi erano discendenti di quei musulmani e furono costretti a convertirsi al cristianesimo. La loro grande missione era riportare l’islam in quella terra. Questo modo di pensare non è inusuale tra i musulmani”.
E continua: “Qualunque territorio che un tempo faceva parte dell’islam doveva rimanere tale per l’eternità ed essere riconquistato il prima possibile, e non parliamo solo di Israele: si tratta anche della Sicilia, della Spagna, del Portogallo, dei Balcani, e via dicendo.
La prima fase consiste nel cacciare i non credenti dai territori dell’islam. La seconda è riappropriarsi delle terre perse, e la terza è la conquista del mondo intero”. A proposito di diritti delle donne nel mondo islamico, argomento che Lewis tratta in un capitolo del suo nuovo libro, “Gender and the Clash of Civilizations” (“Il sesso e lo scontro tra civiltà”, ndt), lo storico scrive: “Nonostante la presenza di forze potenti impegnate nella repressione delle donne e dei loro diritti, rimango nel complesso cautamente ottimista”. E spiega così il suo ottimismo: “Penso che le donne siano la migliore – forse addirittura l’unica – speranza per il futuro islamico. Tuttavia, ora vivono una condizione molto difficile. La situazione non è la stessa ovunque: è migliore in alcuni paesi musulmani e peggiore in altri. In ogni caso, le donne rimangono la parte di popolazione che ha più da perdere dall’islamismo militante e più da guadagnare da una riforma. Detto questo, sono diversi i paesi musulmani che vivono situazioni davvero pesanti e generalmente non legate alla questione del regime stesso. Per esempio, perfino in Iraq – sotto la dittatura di Saddam Hussein – la posizione delle donne era migliore che in Egitto. Sebbene non siano stati concessi diritti nel senso occidentale del termine, l’Iraq si è comunque dimostrato meno repressivo di ogni altro paese.
Lo stato musulmano più progredito a tale riguardo è la Tunisia, la cui costituzione del 1959 garantisce al mondo femminile pari diritti, prevedendo l’istruzione obbligatoria universale per le donne, che possono così frequentare la scuola, ricevere un’istruzione adatta e accedere al mondo del lavoro, oltre che agli affari e alla politica. In Iran, all’epoca dello Scià si stavano gettando basi analoghe, sebbene ora le donne siano vittime di una triste repressione. Rimango comunque convinto che le donne rappresentino la speranza migliore per il mondo islamico, pur con una cautela che trova giustificazione nella grande potenza delle forze contrarie e nell’estrema limitatezza della capacità del mondo esterno – del nostro mondo – di capirle, men che meno di aiutarle”. Quando però gli chiediamo se si senta deluso dal modo in cui molte élite politiche occidentali, in particolare in Europa, trattano i musulmani sul territorio nazionale e all’estero, omettendo di salvaguardare principi fondamentali quali libertà, pari diritti, uguaglianza tra sessi, è facile avvertire in Lewis un senso di costernazione: “Sì, osservo tutto questo con crescente allarme. La grande maggioranza delle persone sembra totalmente incapace anche solo di percepire le realtà, figuriamoci di comprenderle. Eppure in occidente c’è chi si rende conto di ciò che succede, probabilmente più tra la gente normale che tra le élite politiche”, afferma Lewis.
E aggiunge: “Sfortunatamente, in occidente abbiamo questo concetto chiamato ‘correttezza politica’ che rende difficile, se non impossibile, discutere seriamente in merito a tali argomenti”. All’inizio del XXI secolo sono stati in molti a scusarsi con l’islam: per esempio, nel 2009 al Cairo, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama si è detto costernato per il bieco trattamento che l’America ha riservato al mondo musulmano, mentre nel 2004 Giovanni Paolo II aveva chiesto scusa agli islamisti per le Crociate.
Lewis ha una sua interpretazione al riguardo: “Si tratta di quello che il compianto esperto di medio oriente J.B. Kelly definiva ‘la diplomazia del servilismo preventivo’”. Spiega: “Durante la Guerra fredda il mondo intero si rese perfettamente conto di due cose: innanzitutto, ogni azione rivolta contro i sovietici – qualunque atto potesse arrecare loro disturbo – avrebbe attirato castighi immediati e terribili. In altri termini, la gente imparò in fretta la lezione. In secondo luogo, esprimere critiche contro gli americani non solo non avrebbe scatenato ritorsioni, ma avrebbe potuto essere fonte di ricompensa. Un corteo di diplomatici, politici, giornalisti e, devo aggiungere, professori ansiosi si presentava chiedendo: ‘In che modo vi abbiamo offeso? Come possiamo porvi rimedio?’. Naturalmente l’approccio è diverso ed è chiaro che si tratta di incapacità o mancanza di volontà di riconoscere le realtà”. L’eminente storico approfondisce il concetto: “Il nostro mondo – l’occidente – è secoli avanti rispetto a quello islamico. Non intendo in termini di progresso: siamo semplicemente a livelli di sviluppo diversi.
Detto questo, c’è una totale assenza di comprensione reciproca. Abbiamo due diverse società con evoluzioni differenti, che in vari momenti della loro storia si sono osservate senza capirsi assolutamente. Le questioni un tempo tanto importanti nel mondo cristiano – o post cristiano, secondo una definizione più corretta – relativamente alle differenze tra culti e nella leadership ormai non destano più grande interesse fra gli occidentali, mentre sono rimaste di grande rilevanza per i musulmani. Sono problemi che il mondo occidentale ha superato. Nel XVII secolo ci fu una lunga e aspra lotta tra protestanti e cattolici. L’Inghilterra è stata la terra della Riforma protestante. Ma si tratta di temi che ormai non interessano più a chi vive in una società come la nostra, che ha una profonda conoscenza della storia e trova difficoltà a capire che esiste una realtà diversa, a uno stadio di sviluppo differente”. Passando alla Turchia, il campo in cui Lewis è più competente, chiediamo allo storico perché la consideri un fulgido esempio di secolarismo e democrazia da quasi 50 anni, ossia dal 1961, anno di pubblicazione del suo influente “The Emergence of Modern Turkey” (“L’ascesa della moderna Turchia”, ndt). “Lo è stata”, sottolinea lo studioso con una certa solennità, prima di raccontare quale è stata la sua reazione al recente referendum costituzionale del paese, elogiato sia dall’Unione europea che dagli Stati Uniti come una vittoria per la vivace democrazia turca. “Invece non lo è”, dichiara senza mezzi termini Lewis. “Questi i fatti: il primo ministro Recep Tayyip Erdogan è stato davvero molto intelligente. Nei sette anni alla guida della Turchia non solo ha detenuto la necessaria maggioranza parlamentare nel governo, ma ha gradualmente assunto la direzione di tutto: dall’economia alla comunità d’affari, dall’amministrazione civile all’esercito. Ha esteso il controllo su ogni ramo governativo, eccetto la magistratura, che è rimasta un pilastro avanzato della difesa, ciò che resta della tradizione kemalista laica della repubblica turca”.
Lewis spiega che Erdogan gli ricorda un altro premier turco: “Molti anni fa in Turchia c’era un primo ministro che si chiamava Adnan Menderes (1950-1960), il quale – una volta eletto – decise che non se ne sarebbe andato allo stesso modo in cui era arrivato e tentò quindi di trasformare la premiership in una dittatura. Ricordo una visita ad Ankara verso la fine degli anni Cinquanta. Sedevo nella sala della facoltà di Scienze politiche, chiacchierando con alcuni professori. A un certo punto, uno di loro disse: ‘Chi è il padre della democrazia in Turchia? Il primo ministro Adnan Menderes!’ Gli altri lo guardarono perplessi e risposero: ‘Menderes, padre della democrazia?’, e lui esclamò: ‘Sì, si è fatto la madre della democrazia!’”. Lewis ridacchia e continua: “Ora capirà dove voglio arrivare. Menderes è riuscito ad assumere il controllo di tutto, tranne che della magistratura, che non è stato possibile destituire e che infine l’ha fermato. Ora Erdogan si è trovato ad affrontare lo stesso problema, dal momento che non ha potuto influenzare, corrompere o rimuovere giudici. Ha quindi deciso, molto abilmente e con l’aiuto degli elettori, di sfruttare il referendum costituzionale per soffocare il potere giudiziario”.
Secondo Lewis è evidente che “con Erdogan la Turchia si sta allontanando dal mondo occidentale, diventando più islamica”. Spiega: “Erdogan sta mantenendo buoni rapporti con l’Iran e chiaramente mira a coprire un ruolo di leadership all’interno del mondo islamico. A parere di alcuni starebbe addirittura ricostituendo l’impero ottomano, ma non so se intenda spingersi a tanto. Tuttavia, non è impossibile”. Davvero? Perché? “Ora ha veramente preso il controllo e l’ultima misura adottata per annientare la magistratura, con mio totale sconcerto – anzi, disgusto – ha trovato il plauso delle nazioni democratiche. E’ esattamente l’opposto: un passo contro la democrazia”, dichiara Lewis senza giri di parole. Lo storico esita, poi continua: “Un proverbio dice: ‘Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere’; ma preferisco una frase dello scrittore e filosofo tedesco Johann Christoph Friedrich von Schiller: ‘Contro la stupidità gli stessi dèi lottano invano’”.
Spostandoci a sud, chiediamo allo studioso del medio oriente se consideri il Libano – oggi controllato da Siria e Hezbollah e con uno stato e un esercito incapaci di determinare il proprio destino – una nazione fallita. “Lo è di certo, ma non per difficoltà intrinseche. In genere, la disfatta di uno stato viene attribuita a debolezze interne. Ma la situazione del Libano è diversa: il suo fallimento è imputabile ai vicini. I libanesi sono rimasti vittime della loro ospitalità e buona volontà. Hanno accolto persone, accettato rifugiati e il loro senso morale è stato contraccambiato con la devastazione. Sono convinto che i libanesi abbiano ancora la capacità di gestire una società decorosa, se sarà possibile ripristinarne la sovranità”. Perché? “Perché non credo che Hezbollah goda di un grande sostegno popolare in Libano o altrove nel mondo arabo. Per esempio, alcuni anni fa, quando gli israeliani combattevano contro Hezbollah, era piuttosto evidente che il mondo arabo attendeva con ansia che portassero a termine la loro missione, evitando qualsiasi protesta o le consuete manifestazioni”.
Secondo Lewis, ciò può essere dovuto al fatto che “i governi arabi e molti libanesi speravano in una vittoria degli israeliani, rimanendo molto delusi dall’insuccesso”. Hezbollah trova la sua ancora di salvezza nel regime iraniano, che con orgoglio gli fornisce abbondanza di armi, denaro e supporto leale, nonostante la crescente opposizione interna. Chiediamo a Lewis: col senno di poi, sedici mesi dopo le elezioni del 12 giugno 2009, che hanno scatenato una serie di proteste in Iran, quali risultati sono stati ottenuti e cosa possiamo eventualmente aspettarci in futuro dal Movimento verde? “In Iran esiste certamente una vivace opposizione. Anzi, due: quella interna al regime e quella nei confronti del regime, entrambe dirette contro il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Che l’attuale regime sia diventato estremamente impopolare è ampiamente testimoniato. Non solo siamo a conoscenza di tale situazione, ma abbiamo a disposizione mezzi prima impensabili per mantenere i contatti con il popolo iraniano. Inoltre, sono molti i sintomi di un crescente malcontento interno al regime, rivolto più in particolare contro il presidente. Detto questo, in occidente dobbiamo stare molto attenti a come gestire questa situazione”. Negli ultimi mesi sono però sempre più numerose le testimonianze della stampa secondo cui Israele potrebbe prepararsi a bombardare l’Iran, se non sospenderà la corsa alle armi nucleari. “Non credo che bombardare o invadere l’Iran sia la risposta giusta”, replica deciso Lewis. E spiega: “L’Iran, a differenza di gran parte dei paesi del medio oriente, è una vera nazione con un’identità molto forte e profondamente radicata risalente non a centinaia, ma a migliaia di anni fa. In Iran non esiste semplice nazionalismo, ma amor patrio: due concetti assolutamente diversi. Pertanto, nell’opporci dobbiamo stare attenti a non dare agli attuali governanti del paese qualcosa di cui al momento non godono, ossia la lealtà e il supporto del patriottismo iraniano”.
Chiediamo a Lewis una valutazione sul modo in cui Barack Obama e la sua amministrazione hanno gestito la questione Iran dal momento dell’entrata in carica. “Preferirei non parlarne”, risponde Lewis conciso: “Quando penserò a qualcosa di valido che è stato fatto, ve lo farò sapere”. Lewis ha dedicato la lunghissima carriera allo studio del medio oriente. Impossibile non domandargli, da ultimo, qual è l’aspetto che spera venga maggiormente colto dai lettori dei suoi libri a proposito della storia del medio oriente e anche dell’islam stesso. Risponde dopo un lungo silenzio: “Che il mondo islamico rappresenta un capitolo rilevante nella storia umana. E’ una civiltà importante nella storia dell’umanità e ha svolto un ruolo significativo nell’interazione tra mondo orientale e mondo occidentale. Di fatto, è grazie al mondo islamico se l’occidente ha potuto godere di molte scoperte avvenute in oriente. Sono molte le scoperte arrivate direttamente dal mondo islamico o, più spesso, esterne a esso, ma di cui i musulmani hanno riconosciuto l’importanza, decidendo di utilizzarle e trasmetterle. Si è trattato di nozioni fondamentali nell’evoluzione della civiltà occidentale. Penso che dovremmo riconoscere ai musulmani un simile ruolo, senza però farci illusioni su dove sono ora e cosa stanno facendo, e su come ci considerano”.

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