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Il Foglio Rassegna Stampa
22.10.2010 Armare l'Arabia Saudita è da stupidi
Meglio disarmare l'Iran. Commento di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 22 ottobre 2010
Pagina: 6
Autore: Carlo Panella
Titolo: «E se le armi americane finiscono al perfido Najef?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/10/2010, a pag. IV, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " E se le armi americane finiscono al perfido Najef? ".


Carlo Panella

L’acquisto di armamenti per 123 miliardi di dollari da parte dei paesi arabi del Golfo, svelato per primo dal Financial Times, dà perfettamente il segno dell’acutizzazione della crisi innescata dal programma atomico iraniano. E’ infatti noto che i Pasdaran – che sono il vero nerbo delle Forze armate di Teheran – affiancano alla costruzione dell’atomica un frenetico programma di armamento missilistico, di terra (carri armati e autoblindo) e di mare, inclusi decine di motoscafi veloci della classe Zolfaghar, capaci di una velocità di 70 nodi, armati di missili e siluri per sviluppare una insidiosa “guerra di corsa” contro le petroliere, quando e se il regime degli ayatollah deciderà di strozzare la giugulare petrolifera del golfo, lo Stretto di Hormuz, il cui canale navigabile è largo soltanto quattro miglia. Coscienti che Teheran si sta avviando verso una dinamica di deterrenza atomica e che solo Israele è in grado di fare da polo antagonista, gli Emirati del golfo e l’Arabia Saudita sono di fronte a una scelta obbligata: incrementare al massimo le loro Forze armate tradizionali. Questo, anche perché è evidente che già oggi – grazie all’effetto annuncio della propria disponibilità nucleare – Teheran usa della dinamica della deterrenza in modo assolutamente innovativo: sponsorizza rivolte e guerriglie armate tre le grandi comunità sciite del golfo, costrette dai vari regimi a una posizione di paria. Nel nord Yemen la guerriglia sciita guidata da Abdel Malik al Houthi controlla già la provincia di Saada, mentre in Kuwait il 20 settembre il governo ha vietato ogni corteo, per segare le gambe al rinascente movimento di protesta sciita (che nel 1979, dopo la rivoluzione iraniana esplose in tutto il paese). I successi ottenuti a Gaza e in Libano da questa nuova dottrina iraniana della “deterrenza in funzione dell’esportazione della rivoluzione sciita”, con piena sconfitta delle forze appoggiate dall’Arabia Saudita, dimostrano quanto sia pericoloso il progetto di rafforzamento di un nuovo “Hezbollah del golfo” a cui apertamente Teheran lavora. Le stesse autorevoli indiscrezioni circa accordi sottobanco tra Riad e Israele in caso di azione armata contro i siti nucleari iraniani sono la conferma di questo quadro regionale incandescente. E’ interessante notare come questi straordinari investimenti militari dei paesi arabi del golfo siano essenzialmente mirati al rafforzamento dell’aviazione. Riad acquisterà infatti per 67 miliardi 85 nuovi caccia F-15 e ne ha ordinati altri 70 alla Boeing. Una flotta aerea di tutto rispetto, a cui si aggiungono sistemi missilistici e un totale rinnovamento della flotta finalizzato al contrasto della strategia “da corsa” dei pasdaran. Il Financial Times così sintetizza la ratio di questa maxicommessa: “I sauditi inviano in questo modo un messaggio chiaro agli iraniani: abbiamo una superiorità aerea schiacciante nei vostri confronti”. Peraltro, l’ammontare impressionante della commessa non deve stupire, l’Arabia Saudita infatti già nel 2009 ha speso ben 40,5 miliardi di dollari per l’acquisto di armi, a fronte della più contenuta cifra di 13 miliardi da parte di Israele. Il vero problema però è in due grandi incognite che riguardano l’intero “sistema” saudita. Innanzitutto, la effettiva capacità di combattimento dei sauditi. Mai impegnati seriamente in nessuna guerra contro Israele, esercito e marina sauditi sono appesantiti da uno straordinario numero di mercenari (i sauditi considerano il lavoro un disvalore e preferiscono affidare a stranieri i lavori sgradevoli) e hanno dato mediocre, se non pessima, prova di sé nelle uniche due guerre a cui hanno partecipato: quella dello Yemen dei primi anni ’60 contro l’Egitto di Nasser e quella per la liberazione del Kuwait del 1991. Leggermente migliore la performance dell’aviazione di Riad, ma i recenti raid aerei contro i ribelli sciiti dello Yemen hanno confermato la indisponibilità saudita al combattimento a rischio. In realtà, l’unico comparto militare saudita di discreta efficienza è la Guardia nazionale (comandata dal re Abdullah da un trentennio), forte di 57.000 uomini, fondata negli anni ’20 per sconfiggere e sterminare gli Ikhwan, i “Fratelli” del re Abdul Aziz ibn Saud che si ribellarono subito dopo la fondazione di un regno nato, peraltro, soltanto grazie al loro impegno. Un corpo d’élite, unicamente impiegato sul piano interno a protezione degli impianti petroliferi e nel contrasto ai militanti di al Qaida che degli Ikhwan sono gli eredi (spesso anche di sangue). Ma la vera incognita saudita è la imminente successione al re Abdullah bin Abdul Aziz che ha ormai 86 anni. In teoria gli Stati Uniti non hanno da temere nel consegnare a questo sovrano, come all’erede al trono designato – il suo fratellastro Sultan bin Abdulaziz – questa imponente e modernissima flotta aerea e gli altri consistenti armamenti. Re Abdullah ha dimostrato (anche durante la sua lunga reggenza del malato re Fahd) di essere un alleato più che affidabile e il suo successore designato, Sultan, capo delle Forze armate e ministro della Difesa, è da decenni assolutamente interno (e compartecipe in termini azionari) dello stesso complesso militare degli Stati Uniti. Ma Sultan, che ha 82 anni, ha un cancro al colon (diagnosticato nel 2005) dall’evidente e grave decorso, tanto che ha passato l’ultimo anno tra gli ospedali di New York e quelli di Agadir, in Marocco. E’ quindi ben probabile che non sarà comunque in grado – anche se sarà ancora in vita – di reggere la successione. Il trono dovrebbe dunque passare al fratello Najef bin Abdulaziz (77 anni), che secondo alcune fonti è già stato indicato al secondo posto nella linea di successione dallo stesso re Abdullah e dal consiglio dinastico “Bay’ah” che raduna i 18 figli di Abdulaziz ibn Saud ancora in vita, i loro figli e nipoti, più i massimi ulema wahabiti. Un regno nella piena disponibilità di Najef (il sovrano a Riad detiene un potere monocratico, fatti salvi i rapporti con i ministri, tutti suoi fratelli o nipoti), segnerebbe però una svolta epocale in senso involutivo per tutto il medio oriente e un problema ben scabroso e di difficile gestione per gli stessi Stati Uniti. Ministro degli Interni dal 1975, Najef rappresenta infatti il polo più fondamentalista della casa regnante, con assonanze sconcertanti nei confronti delle stesse correnti religiose vicine ad al Qaida. Fieramente antiriformista e antidemocratico (“La nostra legge dinastica garantisce sempre che il trono sia assegnato al migliore. Se si procedesse attraverso elezioni, non sarebbe certo scelto il più competente”; “Non vedo la necessità di emancipare le donne”), Najef non solo ha sempre e pubblicamente negato la responsabilità dei sauditi nell’attentato dell’11 settembre, ma ha anche seccamente rifiutato all’America l’estradizione dei terroristi autori della strage di 19 aviatori americani del giugno 1996 alle torri di Khobar affermando: “Nessuna altra autorità ha il diritto di investigare su qualsiasi crimine commesso in Arabia Saudita”. Ma, soprattutto, Najef ha creato e presieduto il “Comitato al Quds”, è stato cioè l’organizzatore e il gestore di un enorme fondo saudita che per anni ha incentivato e finanziato il terrorismo suicida in Israele, garantendo a orfani e vedove larghe sovvenzioni. E’ stato dunque il fedele e entusiasta sponsor saudita di Hamas (che solo negli ultimi anni è passato dall’orbita saudita a quella iraniana) e dell’ala terrorista di al Fatah ed anche il più aperto al compromesso con l’Iran, in aperto contrasto con la politica di rottura perseguita da re Abdullah. Un’Arabia Saudita, armata sino ai denti, sotto la leadership di Najef segnerebbe così, con ogni probabilità, la paralisi, se non la rottura, di quel “contrafforte sunnita (Egitto, Arabia Saudita, Giordania ed Emirati), che Condoleezza Rice teorizzò e che negli ultimi mesi pareva essersi rafforzato (con positivi riflessi anche sulla maggiore malleabilità sulla questione palestinese). Un forte rischio, a quanto pare, non sufficientemente ponderato a Washington.

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