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Il Foglio Rassegna Stampa
14.10.2010 Il Vaticano contro Israele
Il Foglio riporta le dichiarazioni dei vescovi, senza commentare. E' già qualcosa, tutti gli altri tacciono

Testata: Il Foglio
Data: 14 ottobre 2010
Pagina: 1
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Vescovi contro Israele - Parla il francescano che sa le cose - Noi, vittime dell’islam radicale»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/10/2010, in prima pagina, gli articoli titolati " Vescovi contro Israele ", " Parla il francescano che sa le cose " e " Noi, vittime dell’islam radicale ".

Il FOGLIO riporta le dichiarazioni dei cristiani al Sinodo per il Medio Oriente senza nemmeno un commento. Così, il fatto che, secondo i cristiani, in Israele ci sarebbe l'apartheid, che venga proposto un boicottaggio dello Stato ebraico, passa sotto silenzio. Nessun commento nemmeno alle dichiarazioni di padre David Maria Jaeger, fortemente ostile a Israele.
Gli articoli che seguono sono utili a far comprendere fino a che punto possa arrivare il Vaticano contro Israele, ma ci saremmo aspettati qualche cosa di più dal FOGLIO, quotidiano che si è attivamente impegnato per promuovere la maratona oratoria 'Per la verità, per Israele'.
A parziale giustificazione, il titolo centrale " Vescovi contro Israele", dà chiara indicazione di come si stia muovendo la politica della Santa Sede, una titolazione che potrebbe anche leggersi a mo' di commento.
Aggiungiamo pure che nessun vaticanista, su nessun organo di stampa oggi, ha informato quanto questi tre brevi articoli usciti sul FOGLIO
Il secondo articolo, quello con le dichiarazioni di David Maria Jaeger è pieno di scorrettezze, eppure viene titolato 'Parla il francescano che sa le cose', non è ben chiaro il motivo. Il Foglio condivide le dichiarazioni di Jaeger?
Ecco i pezzi:

" Vescovi contro Israele "


 Pierbattista Pizzaballa

Roma. Si richiama esplicitamente alla lotta dell’apartheid sudafricana il manifesto “Kairos Palestina” che i leader delle chiese presenti a Gerusalemme proporranno a Roma il 19 ottobre, nell’ambito del Sinodo sul medio oriente e in collaborazione con Pax Christi International. Il testo porta le firme del custode di Terra Santa Pierbattista Pizzaballa, del patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal e del predecessore Michel Sabbah, del greco- ortodosso Teofilo III, dell’armeno Torkom Manoogian, del copto Anba Abraham, del luterano Munib Younan e dell’anglicano Suheil Dawani. Sono presenti tutti i leader della cristianità in Israele e nei Territori palestinesi. Il documento, redatto nel dicembre 2009 e già presentato in altre sedi, parla a nome di “noi cristiani palestinesi”.
Si legge che “l’occupazione militare è un peccato contro Dio e l’umanità”. Un’autentica scomunica teologica delle politiche dello stato ebraico. Mai prima di oggi un manifesto ecumenico aveva usato la parola “peccato” contro Israele. Il documento nega legittimità teologica al “sionismo cristiano” forte negli Stati Uniti: “Qualsiasi uso della Bibbia per legittimare o supportare scelte e posizioni politiche che sono basate sull’ingiustizia trasforma la religione in ideologia umana e spoglia la Parola di Dio della sua santità, universalità e verità”. Si chiede la “fine dell’occupazione israeliana della terra palestinese”, senza distinguere fra i confini del 1948 e del 1967, e l’abbattimento della barriera di sicurezza che ha fermato gli attacchi kamikaze (“il muro di separazione ha trasformato le nostre città e villaggi in prigioni”) e attacca gli “insediamenti israeliani che devastano la nostra terra in nome di Dio”.
No al carattere “ebraico” d’Israele, perché “cercare di fare dello stato uno stato religioso, ebreo o islamico, lo trasforma in uno stato che pratica discriminazione ed esclusione”. Esplicita la richiesta di rilascio dei detenuti per terrorismo nelle carceri israeliane: “Le migliaia di prigionieri che languono nelle carceri israeliane fanno parte della nostra realtà”. I vescovi accusano Israele di attuare una “punizione collettiva”. Poi l’affondo sulla “resistenza”, termine usato da tutti i gruppi armati palestinesi: “Se non ci fosse occupazione non ci sarebbe alcuna resistenza”. La lotta è legittimata teologicamente: “La resistenza al male dell’occupazione è un diritto e un dovere per il cristiano”. Si dice anche che l’Olocausto è stato usato per creare Israele e colmare così il senso di colpa europeo: “L’ovest ha cercato di fare ammenda per quello che gli ebrei avevano sopportato nei paesi europei, ma hanno fatto ammenda a nostro discapito e sulla nostra terra”. Esplicito l’invito ad adottare “un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio da applicare contro Israele”.

" Parla il francescano che sa le cose "


David Maria Jaeger

Roma. Il padre francescano David Maria Jaeger, già delegato a Roma della Custodia di Terra Santa, è tra i maggiori esperti delle relazioni tra la Santa Sede e lo stato d’Israele. Gli abbiamo chiesto un giudizio sullo stato attuale delle relazioni tra chiesa e Israele, a partire dalla lenta attuazione dell’Accordo fondamentale del 1993. “L’accordo prevedeva una specie di ‘concordato a tappe’”, spiega, con due accordi integrativi e altri più particolareggiati. “I due accordi integrativi riguardano: il primo la conferma del pieno riconoscimento a tutti gli effetti civili delle persone giuridiche ecclesiastiche, il secondo le questioni riguardanti le proprietà della chiesa e la riconferma del suo statuto fiscale”.
L’accordo sulle persone giuridiche, firmato nel ’97, è in vigore dal ’99, anche se “si è sempre però in attesa che Israele lo recepisca nella propria legislazione. Del secondo si è cominciato a trattare nel 1999, e questi negoziati sono ancora in corso”. In lista d’attesa ci sono diversi altri argomenti. “Prioritaria è la questione dei visti di ingresso e permessi di soggiorno e residenza per il personale della chiesa, sacerdoti, religiose, religiosi”. Altra priorità è “la verifica congiunta del modo di presentare Cristo, il cristianesimo e la chiesa nel mondo scolastico israeliano”. A fronte di tutto ciò, i rapporti non sembrano facilissimi. Che giudizio ne dà? “La verità è che i rapporti sarebbero ottimi, se non ci fosse sempre chi si preoccupa di seminare zizzania, creando talvolta l’impressione di ‘rapporti non facilissimi’. Bisogna pur sempre distinguere tra i rapporti con lo stato di Israele e i rapporti chiesaebrei. Nel primo caso, una certa dialettica è inerente alle relazioni tra due soggetti sovrani e indipendenti presenti sullo stesso territorio”.
Al Sinodo sono rappresentate chiese i cui fedeli sono per la maggior parte arabi. Quanto conta questo nell’atteggiamento della chiesa nei confronti di Israele? “In Cristo, e per Cristo, non c’è né arabo né ebreo. La chiesa non è un soggetto politico, nel senso di prendere parte alle controversie meramente temporali, tantomeno ‘nazionali’. E’ inevitabile, certo, che i pastori della chiesa ricevano le notizie delle diverse situazioni, quindi in una certa prospettiva. Quando rappresentavo un’organizzazione di comunità cristiane in Israele nei rapporti con il governo, c’era tra i funzionari chi si lamentava che le autorità centrali della chiesa avrebbero avuto una ‘prospettiva araba’ e non ‘israeliana’. Rispondevo sempre che se avessimo, in Israele, un maggior numero di fedeli di espressione ebraica anche la prospettiva ‘israeliana’ sarebbe stata più presente”. Ma in Israele “la maggioranza dei cristiani sono, in relazione allo stato, innanzitutto ‘arabi’ (palestinesi cittadini di Israele), con tutto quanto ciò comporta”.

" Noi, vittime dell’islam radicale "

Roma. Non è facile per i rappresentanti delle chiese orientali riuniti in questi giorni in Sinodo entro le mura vaticane mantenersi prudenti come solitamente la diplomazia della Santa Sede suggerisce caldamente loro di fare. A volte la ricerca della giusta simmetria tra mondo musulmano ed ebraismo, in quel quadrante del mondo cruciale nei rapporti tra i tre monoteismi, può essere abbandonata da parole che, andando oltre il politically correct, raccontano le cose come stanno.
E’ successo ieri, durante la sessione dei lavori del Sinodo. I padri sinodali potevano parlare per non più di cinque minuti ciascuno. Ma sono bastati per un susseguirsi di interventi che, anche a parere del vaticanista americano John Allen, corrispondente del progressista National Catholic Reporter, hanno evidenziato la vera radiografia della situazione: la democrazia in medio oriente non esiste. I cristiani non fanno altro che cercare di sopravvivere a un islam radicale che vuole imporsi territorialmente. Gregorios III Laham, patriarca di Antiochia dei greco-melkiti e arcivescovo di Damasco ha detto che è arrivato il tempo per raccontare a tutti i musulmani “con franchezza” le paure che attanagliano i pensieri dei cristiani: la non separazione della religione e dello stato propria dei paesi islamici, la concezione dei diritti dell’uomo, le leggi “che propongono l’islam come unica o principale fonte delle legislazioni e che costituiscono un ostacolo all’uguaglianza di questi stessi concittadini davanti alla legge”.
E ancora: “Vi sono i partiti fondamentalisti, l’integralismo islamico, ai quali sono attribuiti atti di terrorismo, uccisioni, incendi di chiese, estorsioni in nome della religione e che, forti del fatto di essere maggioranza, umiliano i propri vicini”. Per Basile Georges Casmoussa, arcivescovo di Mosul dei Siri in Iraq, il problema principale sono “le ondate di terrorismo, ispirate da ideologie religiose islamiche o totalitarie, che negano il principio stesso della parità a vantaggio di un negazionismo fondamentale che schiaccia le minoranze delle quali i cristiani non sono altro che l’anello più debole”. C’è un’“ingiusta accusa” mossa contro i cristiani, quella “di essere delle truppe assoldate o guidate da e per l’occidente sedicente cristiano. Ecco dunque che il cristiano orientale in un paese islamico è condannato a scomparire o all’esilio”. Di “confessionalismo” nelle società islamiche parla invece François Eid, combattivo vescovo di Le Caire dei Maroniti nella Repubblica Araba d’Egitto. Questo “confessionalismo colpisce profondamente la condizione dei cristiani in medio oriente. Il loro spirito e il loro comportamento. Ne derivano ghettizzazione, chiusure verso gli altri e ostilità”.

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