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Il Foglio Rassegna Stampa
12.10.2010 La strategia fallimentare di Obama per l'Afghanistan
Analisi di redazione del Foglio, Daniele Raineri, Luigi De Biase

Testata: Il Foglio
Data: 12 ottobre 2010
Pagina: 1
Autore: La redazione del Foglio - Luigi De Biase - Daniele Raineri
Titolo: «Da soldato riluttante a burocrate zelante, così Obama perde la guerra - Come ci si perde in una guerra»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/10/2010, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Da soldato riluttante a burocrate zelante, così Obama perde la guerra ", a pag. I, l'articolo di Luigi De Biase e Daniele Raineri dal titolo " Come ci si perde in una guerra ".
Ecco i due articoli:

"  Da soldato riluttante a burocrate zelante, così Obama perde la guerra"


Barack Obama

Washington. L’epica un po’ pelosa dell’Obama “soldato riluttante” si dirige verso la sua tragica conclusione. All’inizio della presidenza i cantori liberal hanno dipinto l’atteggiamento dell’eroe democratico sulle guerre in Afghanistan e in Iraq come quello di un eroe di Eschilo, costretto suo malgrado a sopportare e affrontare la catena di sangue che il fato ha ineluttabilmente disposto. Secondo la narrativa preferita dagli opinion maker della sinistra mondiale, Obama sarebbe stato costretto dalle sue responsabilità di commander in chief a portare avanti due guerre sporche e cattive che gli arrivavano in dote dalla peggiore delle Amministrazioni. Venti mesi alla Casa Bianca hanno piegato il paravento di giustificazioni disposto da chi sapeva che, per quanto potesse ripugnare moralmente, la guerra doveva continuare, magari con qualche ragionevole ambizione di vittoria. Obama è passato dalla riluttanza guerriera allo zelo burocratico, e la guerra in Afghanistan – totalmente privata dello spirito originario di avamposto della guerra globale al terrorismo – s’accompagna a uno scontro aperto nei palazzi di Washington: civili contro militari, tecnocrati contro generali, professori contro strateghi.
L’ultimo libro di Bob Woodward, “Obama’s Wars”, raccoglie un’enorme quantità di dichiarazioni sconvenienti fra il mondo militare e quello civile all’interno dell’Amministrazione. Uno di questi attacchi ha accelerato le dimissioni del consigliere per la Sicurezza nazionale, James Jones, che ha ridicolizzato il “politburo” di Obama e venerdì è stato sostituito dal suo secondo, Tom Donilon. Ma l’aspetto più inquietante dell’eccezionale racconto di Woodward è il clima politico di totale indecisione e assenza di strategia. Le guerre interne alla Casa Bianca e le tensioni con il Pentagono non sono certo un’esclusiva obamiana, e rientrano nella natura stessa della gestione del potere, ma quello che il “soldato riluttante” sta incoraggiando è l’avanzata di un vuoto ideale e strategico nella concezione della guerra; una non-alternativa che si oppone ai segnali che arrivano dalla gerarchia militare, sempre più estromessa dal processo di decision making.
Il generale James Jones è l’ultimo caduto di una faida interna: il suo sostituto, Tom Donilon, è la quintessenza dell’uomo di palazzo, abile organizzatore di campagne elettorali, ex lobbista e polveroso consigliere presidenziale da Jimmy Carter a Obama. In più è un protégé del vicepresidente, Joe Biden, e sua moglie è il capo dello staff della second lady, Jill Biden. Donilon non è soltanto un esponente del mondo civile ma un “politico”, termine usato spesso in senso dispregiativo nel vocabolario di Washington. Lui teneva i rapporti con Rahm Emanuel, scavalcando spesso l’autorità del diretto superiore. La sua nomina è la naturale conseguenza della guerra che Obama e i suoi luogotenenti riluttanti hanno ingaggiato contro il Pentagono, dipartimento che stanno tentando in tutti i modi di ridurre ad appendice istituzionale della Casa Bianca. La vittoria di Biden Il segretario della Difesa, Bob Gates, non sopporta Donilon. A Woodward ha detto che la sua nomina sarebbe stata un “disastro” e ormai Gates è uno degli ultimi resistenti dell’Amministrazione ad avere rapporti di fiducia con i generali sul campo. Il capo delle forze armate in Afghanistan, David Petraeus, è il suo alleato più stretto, ma le sue richieste di una strategia di counterinsurgency – più uomini sul campo per riuscire a sconfiggere i talebani, anche se ci vorrà tempo – sbatte contro il muro di gomma dei consiglieri del presidente. Nel tempo, le scelte di Obama si sono radicalizzate nella direzione della riluttanza: il surge chiesto dall’ex generale Stanley McChrystal è stato accordato con il minimo degli uomini, mentre Biden premeva per la dottrina “counterterrorism plus”: meno uomini e più attacchi mirati della Cia. Petraeus ha poche sponde politiche; Gates è circondato da azzimati funzionari in stile Chicago, e l’anno prossimo lascerà il Pentagono. I droni della Cia martellano come non mai, ma i vertici (civili) dell’agenzia non vogliono che sembri una guerra, soltanto una catena di operazioni mirate. La linea di Biden e della Cia ha vinto, delegando le residue possibilità di vittoria alle trattative con i talebani.

Luigi De Biase - Daniele Raineri : "  Come ci si perde in una guerra"


Afghanistan

La guerra in Afghanistan ha per ora un chiaro vincitore: l’acqua nelle bottiglie di plastica. Per evitare contaminazioni i 120 mila soldati occidentali hanno l’ordine di bere e usare acqua minerale in bottiglia anche per lavarsi i denti. Il risultato è che soltanto la base a e r e a militare di Kandahar, uno degli scali principali della Coalizione in Afghanistan, consuma 22 milioni di bottiglie d’acqua all’anno. Le bottiglie d’acqua sono importate dall’Uzbekistan, dal Tagikistan e dagli Emirati arabi uniti. E dopo che sono arrivate in Afghanistan, bisogna distribuirle ai soldati sparsi in tutto il paese. Il ghiaccio è invece importato dall’Arabia Saudita (si può vincere una guerra in Afghanistan importando ghiaccio dall’Arabia Saudita?). La reazione degli afghani è stata l’apertura di diversi stabilimenti per l’imbottigliamento d’acqua, di cui il paese è ricchissimo, e la richiesta ufficiale di essere ammessi a partecipare al business milionario dei rifornimenti militari. I talebani? Bevono dai pozzi.

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Secondo la Bbc, i convogli dei rifornimenti Nato non sono minacciati soltanto dagli attacchi dei talebani, ma anche dagli stessi trasportatori assoldati per portare il carico vitale dal porto di Karachi alle basi dei soldati. La truffa è a prova di bomba. Il guidatore di un’autocisterna con cinquantamila litri di carburante per gli aerei parte, vende quasi tutto il suo contenuto a un ricettatore lungo la strada e poi, prima di varcare il confine, brucia il veicolo con dentro soltanto duemila litri, per inscenare un rogo plausibile. Il veicolo se lo ricompra con l’assicurazione pagata dalla Nato contro gli attacchi talebani. In Afghanistan, gli occidentali pagano ai contractor locali fino a 2.500 dollari di assicurazione a veicolo per poche ore di viaggio. Il viceministro degli Esteri pachistano, Tasneem Asad, smentisce. Il capo della polizia di Nowshera, sul confine, conferma. “Abbiamo anche sorpreso un guidatore con una bomba già pronta sul camion. Molti di loro li abbiamo arrestati”.

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L’esplosivo iraniano. Per le guardie di frontiera che controllano la provincia di Nimruz, nel sud dell’Afghanistan, vedere convogli e container in arrivo dall’Iran è una cosa naturale. Il confine è una grande risorsa per i commercianti della regione, che vivono grazie agli scambi – sia legali sia clandestini – fra i due paesi. La scorsa settimana, i poliziotti hanno fermato un carico speciale: quaranta tonnellate di tritolo chiuse in 337 casse con i sigilli di un’autorità cinese. Sono arrivate al confine dopo un viaggio cominciato a Teheran, la destinazione è rimasta segreta, ma le autorità afghane dicono che l’esplosivo era per i ribelli talebani. La quantità intercettata era sufficiente a confezionare un migliaio di autobomba e di trappole esplosive. Il sequestro sarebbe avvenuto grazie alla soffiata di una “fonte iraniana”, come ha scritto il sito internet della Cnn. Il governo di Teheran ha negato di essere coinvolto nella vicenda: negli anni Novanta, quando i talebani erano al potere, Iran e Afghanistan hanno rischiato di farsi la guerra. La presenza scomoda dei marine oltre il confine ha cambiato i calcoli nei palazzi dell’ayatollah.

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Alla fine di settembre, quando i droni della Cia hanno ucciso due poliziotti pachistani in un villaggio al confine con l’Afghanistan, il governo di Islamabad non si è accontentato di una lettera di scuse: ha chiuso il valico di Torkham, una pista tortuosa che attraversa le montagne del Waziristan e serve a rifornire le truppe internazionali di stanza a Kabul. Da quel giorno i convogli che servono la Nato hanno dovuto fare una strada ancora più tortuosa, attraverso il valico di Chaman. Da quello stesso giorno, “come se” talebani e governo pachistano fossero perfettamente sincronizzati – ma molti analisti non hanno dubbi: sono proprio sincronizzati – sono ricominciati gli attacchi della guerriglia contro le linee di rifornimento. Decine di autocisterne date alle fiamme. Nonostante i tentativi per essere meno indipendenti, la lotta contro i talebani dipende in gran parte dalla collaborazione di Islamabad, che non è stabile né affidabile. Secondo Teresa Shaffer del Center for strategic and international studies di Washington, “da un paio d’anni gli Stati Uniti cercano di ridurre la loro dipendenza dal Pakistan, ma l’80 per cento dei rifornimenti passa ancora per il suo territorio”. Il sentiero di Torkham ha riaperto domenica, dopo giorni di trattative che hanno impegnato tutti gli apparati dell’Amministrazione Obama, dallo stato maggiore dell’esercito ai rappresentanti del dipartimento di stato. Fino al prossimo attacco di droni.

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Un reporter del quotidiano canadese Globe and Mail, Graeme Smith, ha scritto che c’è un nuovo business sulle montagne che separano il Pakistan dall’Afghanistan: quello dei sedativi e degli antidepressivi. I pashtun li prendono per sopportare l’ansia dei bombardamenti a sorpresa della Cia, che attacca il territorio con una frequenza senza precedenti. Da quando Obama siede alla Casa Bianca, i droni attraversano impunemente il confine e colpiscono i soldati di al Qaida che hanno trovato un nascondiglio nel Waziristan. La gente del posto ha trovato nomignoli per i droni. Li chiamano “bangana”, che significa “fulmini”, o “machays”, “vespe”, e mostrano segni di simpatia per la guerra contro i talebani: le incursioni della Cia stanno allentando il controllo dei ribelli sulla regione.

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 Bombardateci di più. Il governo pachistano condanna ufficialmente i bombardamenti con gli aerei robot americani sulle zone infestate da al Qaida e talebani. “Aggravano il problema, perché fomentano i sentimenti antiamericani nella popolazione e creano nuovi volontari per gli estremisti”. In realtà, il governo ha autorizzato la Cia a gestire una pista di decollo segreta sul suolo pachistano. E anche gli abitanti non-talebani delle aree tribali, le uniche colpite, sono a favore. Secondo uno studio pubblicato sul quotidiano The News nel 2009, i pashtun delle aree tribali – dove i talebani hanno assassinato centinaia di anziani alla guida dei Consigli locali, bruciato i cinema, obbligato le donne al burqa, chiuso le scuole femminili e trucidato centinaia di oppositori con il pretesto che fossero “spie degli americani” – sono molto più tolleranti sui bombardamenti che gli altri pachistani”di città”. Secondo la Dichiarazione di Peshawar, firmata nel 2009 da una coalizione di partiti e organizzazioni civili locali, se c’è una strategia contro i terroristi di cui essere soddisfatti è quella della loro uccisione dall’alto con i droni.

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Quando hanno messo le mani su un computer portatile catturato in battaglia, più di un anno fa, i soldati americani hanno scoperto con orrore che i nemici in Iraq e in Afghanistan potevano intercettare il segnale video dei droni, e così vedere quello che il drone stava vedendo, in tempo reale. Il tutto grazie a un programma russo in libera vendita su Internet – Skygrabber – ideato per guardare senza pagare le trasmissioni tv trasmesse via satellite. Costo di un drone americano: quattro milioni e mezzo di dollari. Costo di Skygrabber: 26 dollari. Interrogati dal Wall Street Journal, gli americani hanno detto che in teoria conoscevano la falla nel sistema, ma non credevano che i nemici ci sarebbero arrivati. Ora il buco è stato chiuso, ma la squadra speciale che da anni dà la caccia ai grossi obiettivi della guerra al terrorismo non riesce a darsi pace e pensa a tutte le occasioni, almeno tre, in cui i missili dei droni hanno mancato il numero due di al Qaida al Zawahiri per un soffio. Se persino i ribelli erano in grado di intercettare i droni e di sapere che cosa stavano osservando gli americani, è il dubbio, che cosa dire degli ubiqui servizi segreti pachistani?

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La Turchia è l’unico paese che combatte in Afghanistan con due eserciti. Il primo ha la divisa e numeri ufficiali: 1.500 uomini inquadrati nelle Forze della Nato difendono Kabul dagli attacchi dei talebani. Il secondo è clandestino e sta sul fronte opposto. E’ formato da centinaia di fanatici che hanno lasciato l’Anatolia e molte città d’Europa per unirsi alla guerra santa. Il più famoso di questi combattenti è Cüneyt Ciftci, un turco di Baviera che si è fatto esplodere in Afghanistan nel 2008, uccidendo due marine. Il suo testamento video, pubblicato sui siti internet dei terroristi, è stato visto milioni di volte. Gli analisti dicono che il contingente turco è uno dei più numerosi nelle file di al Qaida. Già negli anni Ottanta, un migliaio di mujaheddin partiti dall’Anatolia combattevano al fianco degli afghani contro l’esercito sovietico. Turcofoni sono anche i terroristi del Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), un gruppo nato in Asia centrale che ha esteso la propria influenza sulle moschee tedesche. Non è un caso che quella turca sia la seconda, dopo l’arabo, fra le lingue più diffuse nei blog e nei forum internet di al Qaida.

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Secondo il Wall Street Journal, i servizi segreti pachistani stanno facendo pressioni sui talebani perché alzino il livello dello scontro in Afghanistan. Quello che hanno in mente è l’ultraviolento “modello Baghdad” adottato da al Qaida in Iraq dal 2005 al 2007. Uccisioni a sangue freddo e torture contro chiunque sia legato anche remotamente al governo centrale. Postini, spazzini, maestri di scuola. Ma i talebani starebbero facendo resistenza, diffidano: sul lungo termine il terrore e le esecuzioni indiscriminati potrebbero essere uno svantaggio. I servizi pachistani non vogliono che i talebani di medio livello aderiscano al programma di riconciliazione con il governo afghano sponsorizzato da Washington e “arrestano chi non obbedisce ai loro ordini”, dice un comandante talebano nella provincia di Kunar, una delle più violente. Fonti americane hanno detto di avere ascoltato versioni molto simili dai guerriglieri catturati e da quelli che trattano per deporre le armi. Secondo Central Asia Online, anche al Qaida sta disarmando i comandanti talebani favorevoli al processo di pace. Lo avrebbero fatto con due leader nel nord del paese, nella provincia di Kunduz, e altri nove per timore di perdere il potere e fare la stessa fine sarebbero fuggiti in Pakistan. Un parlamentare afghano conferma: “I gruppi che aiutano i talebani dall’esterno non vogliono la stabilità, la considerano un problema per i loro interessi. Così chiunque si dichiari favorevole al piano di pace è disarmato o arrestato”.

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