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La Repubblica Rassegna Stampa
10.10.2010 Degania, il primo kibbutz, celebra i 100 anni
L'articolo di Alberto Stabile

Testata: La Repubblica
Data: 10 ottobre 2010
Pagina: 38
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Il sogno perduto del primo kibbutz»

Su REPUBBLICA di oggi, 10/10/2010, a pag.38, con il titolo "Il sogno perduto del primo kibbutz" (un titolo senza senso, e che rivela l'ostilità di chi l'ha scelto), Alberto Stabile visita Degania, il primo kibbutz d'Israele, che compie 100 anni.
Un pezzo corretto, con qualche svista.
Il kibbutz ha iniziato a cambiare non nel 2004, come scrive Stabile, ma alla fine degli '70, quando al governo dello Stato ebraico arriva il Likud di Begin. Quando, grazie alla politica statalista dei laburisti l'inflazione era a due zeri. Anche i kibbutzim dovettero adeguarsi alla nuova politica economica.
Chiusi i rubinetti degli aiuti governativi, dovettero re-inventarsi.
E fu la loro salvezza.
Questo Stabile non lo scrive, preferisce la nostalgia del bel tempo che fu.
Non così gli israeliani, che invece hanno apprezzato il cambiamento, ridando nuova vita e slancio ad una creazione che è stata alla base della costruzione di Israele. E che è entrata ufficialmente fra le voci positive del bilancio nazionale. Troppo, per un giornale statalista come REPUBBLICA.
Ecco il pezzo:

KIBBUTZ DEGANIA
Fra questi viali di eucalipti, su questi ciottoli arroventati dal caldo, quaranta gradi, aleggia lo spirito di Moshe Dayan, bambino. Fra i molti primati che il grande Dayan s´attribuì in vita c´era anche quello di essere stato «il primo bambino nato a Degania», da una coppia di giovani pionieri, Shmuel e Dvorah, approdati in Palestina dalla fredda Ucraina per realizzare il loro sogno sionista. In realtà, se è vero che Degania è il primo kibbutz della storia, e in questi giorni se ne celebra il centenario, Moshe fu soltanto il secondo neonato della comunità, essendo stato preceduto da Gideon Baratz, figlio di Yoseph e Miriam Baratz, venuto alla luce qualche mese prima all´Ospedale della Missione Scozzese, a Tiberiade.
Erano tempi di ferro, di fame, di malattie, d´insopportabili durezze e d´incredibili privazioni quelli in cui il kibbutz Degania venne fondato. La prima infanzia di Dayan fu un susseguirsi di malanni gravi: la malaria, la polmonite, il tracoma. Un continuo girovagare tra ospedali e residenze occasionali, presumibilmente più salubri, dove tentare guarigioni improbabili sempre con accanto la madre, una raffinata intellettuale russofila, grande ammiratrice di Tolstoj che, pur credendo profondamente nei suoi ideali, non si rassegnò mai alle asprezze della vita in quelle terre di conquista.
Nella "kvutza", letteralmente il "gruppo", l´antesignano del kibbutz, di Degania il lavoro era tutto, l´ideologia, la prassi e il programma politico, la ricchezza e l´onore, e tutto era pensato e fatto in funzione del lavoro. Il privato, il personale, non avevano spazio, nulla poteva e doveva sfuggire alle regole imposte dal gruppo che su ogni cosa, dal nome da imporre ai neonati al ricovero in ospedale di un membro della comune, aveva la parola definitiva. E questo, ovviamente, «per il bene della causa».
Nel piccolo museo di Degania, accanto alla casa di mattoni a due piani che ospitò il primo nucleo di undici pionieri, otto uomini e tre donne, ai quali un anno dopo si aggiunsero Shmuel e Dvorah Dayan, si respira una doppia, stridente sensazione: l´assoluta penuria di mezzi di cui disponevano i fondatori, mista ad un´illimitata fiducia in se stessi. Ritratti in una foto color seppia, i membri della kvutza, scesi dai paesi del grande freddo su una landa a duecento metri sotto il livello del mare, guardano stupefatti il mondo nuovo che gli si è appena spalancato davanti. Gli uomini vestono la classica rubacka dei contadini russi, con l´abbottonatura laterale e la cintura stretta in vita, le donne indossano gonne lunghe fino ai piedi e camicie chiuse fino al collo che ne esaltano la figura. Sono, definitivamente, dei giovani borghesi, le loro mani hanno lunghe dita delicate, ma nei loro occhi c´è la febbrile inquietudine dei rivoluzionari, dei visionari che hanno deciso di passare all´azione.
Cent´anni dopo quella foto scattata al loro arrivo ad Haifa, su una nave salpata da Odessa, si può dire che quei giovani venuti dalla Lituania, dall´Ucraina, dalla Russia per realizzare il sogno ebraico del riscatto capovolgendo, al tempo stesso, la piramide sociale, hanno vinto. Il loro esempio ha avuto molti seguaci. Nessuno, oggi, può mettere in dubbio il contributo dato dal movimento dei kibbutz al compimento dell´impresa sionista, avvenuto nel 1948 con la proclamazione dello Stato d´Israele.
Hanno vinto loro, si può dire di quei sionisti ante litteram in posa nel piccolo museo di Degania, ma il kibbutz, inteso come cellula sociale basata su un´ideologia egualitaria e una struttura economica collettivista, è morto per sempre. Travolto dai grandi movimenti della storia, come il crollo dell´ideologia comunista e l´irrompere dell´economia globale, ma anche da fattori specificatamente israeliani, come l´inesorabile scivolamento a destra della scena politica e la crescente influenza della componente religiosa.
Quando, nel 2004, il governo Sharon decise di privatizzare i kibbutz, secondo un disegno elaborato da Ehud Olmert, la crisi incubava da anni. In un paese che aveva decisamente imboccato la strada della new economy e degli start-up, sul modello della Silicon Valley americana, i vecchi kibbutz fondati sull´agricoltura e l´allevamento del bestiame non avrebbero avuto futuro, se non contando pesantemente, come è successo negli ultimi decenni, sugli aiuti dello Stato. Trasformarsi o sparire, questa è diventata la scelta obbligata. Eppure, per Shay Shoshany, il giovane presidente di Degania, una volta si sarebbe detto «segretario», il kibbutz in generale, e Degania in particolare, non hanno perso il loro fascino. Shay resta legato ad una certa cultura politica oggi fuori moda: «Sono orgoglioso di essere uno degli ultimi socialisti rimasti», dice sorridendo. Ricorda il ruolo rivoluzionario e «globale» avuto dal kibbutz nel propagare l´idea dell´uguaglianza, «ma non siamo tutti uguali», ammette.
Ci sono molte cose buone da conservare, assicura il segretario di Degania, nella filosofia del kibbutz. Innanzitutto, la solidarietà praticata in concreto dai membri della comune, il che oggi avviene attraverso una tassa interna che serve a limare le differenze fra i salari e a migliorare i servizi comuni (tra i quali, qui a Degania, c´è anche un parco macchine). Il rispetto reciproco. L´abitudine a frenare gli impulsi consumistici. La qualità della vita. E tuttavia certe imposizioni in nome del «bene comune» non hanno più senso. «Quello che non potevo sopportare era di dover andare a chiedere il permesso per qualsiasi cosa, fosse un viaggio o un vestito», racconta Nina Ben Moshe, settantadue anni, nata a Degania da genitori membri del kibbutz e sposata ad un kibbutzik a sua volta nato da una famiglia di kibbutzniki. Eppure, nessuno dei suoi quattro figli ha seguito l´esempio dei genitori. «Ho bei ricordi, ma direi che i ricordi sono sempre belli. Da ragazzi crescevamo in una libertà assoluta, mentre i genitori erano al lavoro. Da adulti, non sapevamo cosa erano i soldi, cos´era una carta di credito. Queste cose abbiamo dovuto impararle dopo il 2004. Fino ad allora non ne avevamo sentito il bisogno perché avevamo tutto quello che ci occorreva e, soprattutto, avevamo tutti le stesse cose». «Ma - aggiunge Nina - nessun essere umano può lavorare per un lungo periodo senza ricevere nessun compenso, a meno che non sia un idealista. Quindi per rispondere alla sua domanda se eravamo felici: sì eravamo felici, ma era una felicità, come dire?, assistita. Improvvisamente ho dovuto imparare che cos´era una banca, che occorreva risparmiare e che a me stessa dovevo pensarci io e non il kibbutz».
Ad attenuare l´amarezza di alcuni vecchi membri del kibbutz si starebbe producendo una realtà nuova, un ricambio di popolazione dovuto anche alle trasformazioni economiche imposte dalla crisi. «Oggi - assicura Shay - a Degania non vivono soltanto contadini ma anche liberi professionisti, un avvocato, un medico, che hanno deciso di tornare a vivere nel kibbutz pur lavorando fuori. Naturalmente contribuiscono in tutto alle spese comuni e questo cespite proveniente dalle attività esterne, o private, rappresenta il quarantacinque per cento delle nostre entrate, mentre il trentacinque è dato dall´agricoltura (banane e datteri) e il venti dalla fabbricazione di diamanti industriali».
Che i kibbutz si siano aperti al mondo esterno non c´è dubbio. Molti giovani, ad esempio, trovano nelle vecchie comuni agricole quelle condizioni di vita che le città, affogate nello smog e nel traffico, non possono offrire. Tuttavia non si può ancora parlare di un vero e proprio afflusso. In fin dei conti, la maggiore speranza dei dirigenti dei kibbutz di migliorare le finanze comuni è affidata al turismo.
Molti kibbutz della Galilea si sono trasformati in resort. E si vede che questa, nonostante il blasone, la ricca storia e il passato eroico, di cui è testimonianza il piccolo carro armato siriano esposto ai cancelli, residuato della guerra del ´48 e di una fortunata controffensiva dei kibbutziniki a colpi di bottiglie molotov, quella del turismo, dicevamo, è nonostante tutto anche la tentazione di Degania. Approfittando della privatizzazione del 2004 una famiglia del kibbutz ha aperto un piccolo ristorante proprio di fronte alla vecchia stalla dei pionieri, oggi trasformata in teatro e sala cinematografica. Pasta, insalate e cucina kasher, naturalmente, per compiacere il pubblico religioso. Questa è la culla del socialismo laico, ma non si sa mai.

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