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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.09.2010 Romano guarda la realtà, ma il suo filoislamismo è troppo forte
non riesce a concedergli una valutazione corretta della situazione

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 settembre 2010
Pagina: 47
Autore: Sergio Romano
Titolo: «La quesione palestinese: due Stati o uno per tutti»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/09/2010, a pag. 47, la risposta di Sergio Romano a un lettore dal titolo " La quesione palestinese: due Stati o uno per tutti ".


Sergio Romano, Benny Morris

La risposta che Romano dà al lettore è sostanzialmente corretta, tranne la conclusione : " Gli ostacoli da superare sono molti, ma non vedo tra questi la natura degli arabi come popolo impervio a qualsiasi cambiamento culturale. Come storico e come ebreo Morris non può ignorare quanto sia ingiusto pensare che vi siano popoli immutabili, incapaci di apprendere dalle loro passate esperienze e dalla convivenza con altri popoli. ". Non è ben chiaro per quale motivo il fatto che Benny Morris sia ebreo dovrebbe aiutarlo a capire che gli arabi siano in grado di cambiare e apprendere dall'esperienza passata e dalla convivenza con altri popoli. Quale sarebbe il nesso logico ? Il popolo ebraico sa integrarsi e vivere con gli altri, quello arabo, a giudicare dalle dittature repressive dalle quali è dominato, no.
Per quanto riguarda l'accenno alla storia, proprio analizzandola si comprende quanto gli arabi non siano cambiati nel corso di un secolo. Si sono sempre opposti alla nascita di Israele e, ancora oggi, rifiutano di riconoscerlo. Arafat ha rifiutato dallo Stato ebraico un'offerta che avrebbe sancito la nascita dello Stato palestinese. Abu Mazen e l'Anp continuano a remare contro i negoziati, come i loro predecessori. Hamas a Gaza continua a lanciare razzi contro la popolazione israeliana. Dove sarebbe il cambiamento degli arabi?
Ecco lettera e risposta:

Bassam Saleh, che è stato presidente della Comunità palestinese di Roma, ha affermato, in convegni tenuti in questo periodo, che l’opzione più accettabile per risolvere il contenzioso tra gli israeliani e i palestinesi sarebbe un unico stato per due popoli sull’intero territorio. A me risulta invece che Abu Mazen tratti sulla base del ripristino della situazione risalente al 4 giugno 1967 prima della guerra dei Sei giorni. Ho letto quello che scrisse il sovietico Gromiko, a quel tempo ambasciatore presso l’Onu, il quale sostenne che l’unica soluzione che fu possibile adottare nel 1947 fu quella della risoluzione 181. È quindi realistica la proposta di Bassam Saleh?

Antonio Fadda
antoniofadda2@virgilio.it  

Caro Fadda,

nel suo romanzo utopico («Altneuland», la vecchia terr a nuova), pubblicat o nel 1902, Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, descrisse una Palestina in cui arabi ed ebrei convivevano pacificamente. La Storia ha preso un’altra strada, ma il tema dello Stato unico riemerge periodicamente ed è divenuto nuovamente attuale grazie a due articoli del 2003: il primo di Tony Judt apparso sulla New York Review of Books nell’ottobre di quell’anno, e il secondo di Virginia Tilley pubblicato dalla London Review of Books del mese successivo. Entrambi gli autori giungevano alla conclusione che l’unica soluzione politicamente possibile fosse ormai quella «binazionale»: un unico Stato sull’intero territorio della vecchia Palestina mandataria.

Contro la tesi di Judt e Tilley apparve qualche tempo dopo un libro dello storico israeliano Benny Morris, pubblicato da Rizzoli nel 2008 con il titolo «Due popoli, una terra». Morris è convinto che alla prospettiva dello Stato unico si oppongano i vecchi contrasti, l’odio accumulato nel tempo, le diverse mentalità culturali e civili, il diverso tasso di accrescimento demografico degli ebrei e degli arabi. Ma anche la divisione della Palestina in due Stati, secondo Morris, è ormai altrettanto impossibile. Gli insediamenti ebraici nei territori occupati, la geografia economica e, sempre secondo l’autore, l’assoluta indisponibilità della grande maggioranza degli arabi ad accettare l’esistenza di uno Stato ebraico nella loro regione, rendono tale prospettiva estremamente improbabile. Il libro ricostruisce bene la evoluzione della politica israeliana e riconosce implicitamente che gli insediamenti sono ormai, per il governo di Gerusalemme, una palla al piede. Siamo passati dalla fase in cui dovevano servire a creare le condizioni di un Grande Israele a quella in cui il governo non può smantellarli senza perdere la sua fragile e rissosa maggioranza. Non rimane altra soluzione, secondo Morris, fuorché quella di una confederazione giordano-palestinese a cavallo del Giordano, dal confine con l’Arabia Saudita al Mediterraneo. È una proposta interessante, ma non tiene conto del fatto che nei territori palestinesi occupati esiste ormai una società nazionale con le sue nomenklature, la sua classe dirigente, i suoi intellettuali, tutti poco inclini a diluirsi in uno Stato governato dai beduini della Transgiordania. Ed è improbabile d’altro canto che il regno di Giordania sia disposto a rimettere in discussione i propri equilibri interni cercando di assorbire almeno 4 milioni di palestinesi. L’unica soluzione possibile, quindi, rimane quella dei due Stati. Gli ostacoli da superare sono molti, ma non vedo tra questi la natura degli arabi come popolo impervio a qualsiasi cambiamento culturale. Come storico e come ebreo Morris non può ignorare quanto sia ingiusto pensare che vi siano popoli immutabili, incapaci di apprendere dalle loro passate esperienze e dalla convivenza con altri popoli.

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