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La Stampa Rassegna Stampa
26.09.2010 Da Gaza un articolo di pura propaganda contro Israele
Lo stile spazzatura di Paola Caridi

Testata: La Stampa
Data: 26 settembre 2010
Pagina: 17
Autore: Paola Caridi
Titolo: «Le trivelle di Hamas per la pesca in spiaggia»

LA STAMPA di oggi, 26/09/2010, a pag.17, pubblica un articolo di Paola Caridi dal titolo " Le trivelle di Hamas per la pesca in spiaggia ".
E' credibile che l'inviata a Gaza sia così ignorante da non conoscere nulla di quanto avviene nella Striscia ? E' soltanto una Angela Lano o una Luisa Morgantini, con soltanto un po' più di mestiere alle spalle ? No, non è credibile, Paola Caridi sa benissimo come stanno le cose, ma il suo intento è fare della propaganda, per cui se l'acqua sulla riva è inquinata, cosa più che prevedibile mancando a Gaza un sistema di fognature funzionante, non si chiede se la colpa sia di Hamas che investe in armi i miliardi che riceve invece di provvedere ai bisogni della popolazione, no, la colpa è di israele, che impedisce ai pescatori di andare a pescare il pesce in alto mare. Israele dovrebbe abolire l'embargo navale e lasciare via libera ai rifornimenti via mare degli armamenti, naturalmente nel nome della libera pesca.
Se il raccolto delle sardine è andato a male, perchè quelle mangiabili sono lontane dalla riva, la responabilità è quindi di Israele.
Gaza è poverissima, scrive la Caridi, contraddicendo quanto hanno scritto altri inviati, di recente Scuto su REPUBBLICA, a Gaza non c'è nessuna crisi alimentare, i supermercati traboccano di merce, lo stesso Hamas aveva irriso Obama dicendogli di astenersi dall'inviare merci, era semmai Gaza a potergliene spedire quante ne voleva.
Perchè allora un giornale come la STAMPA deve pubblicare simile spazzatura ? Possibile che non verifichino quanto stampano ?
Si, è possibile, perchè è quella Gaza lì che si vende bene, poco importa che sia pura propaganda contro Israele. Anzi, proprio per questo.

Chiediamo ai nostri lettori di scrivere al direttore della Stampa, Mario Calabresi, per chiedergli se ha letto il pezzo della Caridi e che cosa ne pensa.
direttore@lastampa.it


Paola Caridi

Un pescatore lancia le reti a mano, immerso in mare sino alla cintola. Mare scuro, torbido, sicuramente inquinato già alla vista. L’odore acre e malsano arriva sin sulla spiaggia e sullo spiazzo rialzato dove i proprietari di un caffè popolare hanno collocato quattro tavolacci e qualche sedia di plastica azzurra. A Shati, il campo profughi alla periferia nord di Gaza City, i liquami arrivano direttamente a riva, mentre a una manciata di chilometri si vede Israele. E le ciminiere della città di Ashkelon che sbuffano fumi bianchi. Il sole comincia ad abbassarsi sulla spiaggia proprio davanti alla casa di Ismail Haniyeh, il premier di Hamas che continua a vivere a Shati, dov’è nato da una famiglia di rifugiati e pescatori, pur tra misure di sicurezza più alte. Nell’acqua, mossa e torbida, c'è qualche vecchia barchetta di pescatori. Cercano di portare a casa qualcosa lanciando le reti proprio di fronte al lungomare, a circa duecento metri dalla riva, là dove l'acqua cambia finalmente colore e diventa di nuovo azzurra, chiara. Il colore del mare. Di pesce ce n’è pochissimo, ma inoltrarsi più in là vuol dire sfidare il blocco navale israeliano che, dalla fine dell’Operazione Piombo Fuso, consente la pesca solo fino a tre miglia dalla costa. Per evitare il contrabbando di armi, spiega Israele.
Spari sulle barche al largo
Mahmoud Baker, 20 anni, è solo l’ultimo pescatore di Gaza morto per essersi avventurato troppo in là, venerdì scorso. «Abbiamo sparato dei colpi di avvertimento, e quando non hanno risposto, abbiamo mirato sulla barca», ha detto la portavoce delle forze armate israeliane. «Stiamo indagando sulla notizia di vittime». La vittima era di Beit Lahya, uno dei campi profughi a ridosso del muro di cemento che divide Gaza da Israele. Non è l’unico morto di quest’anno. Le imbarcazioni intercettate dalle motovedette israeliane sono state decine. Centinaia, dice un rapporto dell’Ocha, l’ufficio di coordinamento degli aiuti umanitari dell’Onu, le barche o le attrezzature confiscate, reti comprese.
Spigole e sardine nei vasconi
Se in mare non si può pescare, occorre comunque tamponare i contraccolpi sociali nella Striscia, dove Hamas riesce sempre di più a gestire non solo il potere ma anche tutta la complessa macchina dei servizi e dell’amministrazione pubblica. L’obiettivo è anche quello di non dipendere del tutto dalle importazioni di pesce congelato da Israele o dai tunnel con l’Egitto.
L’ultima trovata dell’economia sotto embargo in cui Gaza vive da oltre mille giorni si chiama acquacoltura. Allevamenti ittici, sparsi tra il sud e il nord della Striscia, a cui si dedicano sì gli imprenditori, ma anche qualche ong islamista che - si dice – reinveste in questo modo la sua liquidità dopo lo stop subito negli scorsi anni alla linea di finanziamenti che arrivavano dall’estero attraverso le banche, per continuare a sostenere i progetti sociali, specie dentro i campi profughi.
Si scava in cerca dell’acqua
Così, si trivella la sabbia sino a trovare l’acqua salata, e si riempiono i vasconi con i pesci tipici della dieta palestinese, dalle spigole alle varianti locali. «Costano meno di quelli pescati in mare e sono saporiti», dice uno degli addetti. «E poi l’acqua è di certo migliore di quella del mare», dice di fronte ai vasconi del Bustan, un parco per famiglie a nord di Gaza City, proprio di fronte alla struttura del Moevenpick, hotel di lusso costruito e mai aperto. Il Bustan, il «giardino» in arabo, si dice appartenga dalla Jama’a Islamiyya, una delle associazioni di beneficenza legate a Hamas, e presieduta dal vice speaker del parlamento di Gaza, Ahmad Baher.
Piscine e acquacoltura
Con 20 shekel una famiglia può passare la giornata nel parco di fronte al mare, accanto ai vasconi dell’allevamento ittico e alla piscina dove i ragazzi nuotano in maglietta e pantaloncini. Un po’ più di quattro euro, scesi a tre ora che l’estate sta finendo, per portarsi il cibo da casa e far giocare i bambini. Gli allevamenti non cambiano certo il destino dei pescatori e dei loro figli. Non solo perché pescare, a Gaza, è una tradizione. Soprattutto perché è una necessità. Si pesca, si mangia. Ora, però, si riesce a prendere la metà di quello che si pescava anche soltanto un anno fa. Disastroso, poi, il «raccolto» delle sardine, che si trovano più al largo. Se ne pesca un quarto rispetto ai livelli di prima dell’Operazione Piombo Fuso, quando il blocco arrivava sino a 9 miglia, meno comunque della metà rispetto a quanto previsto dagli accordi di Oslo. Risultato: per la Croce Rossa Internazionale, il 90 per cento dei pescatori di Gaza è considerato povero o molto povero. Guadagna meno di 190 dollari al mese.
Il bazar si svuota subito
Non è difficile immaginarlo, quando si guarda il mercato del pesce di Gaza City, all’alba, a ridosso del porticciolo sempre più malridotto. Affrettando il passo, qualche centinaio di persone si concentra attorno alle bancarelle, compra quel po’ che offre la giornata, tutto pesce piccolo, e il mercato si esaurisce in due ore. Velocemente, il lungomare si svuota e ritorna il silenzio. Che ha il sapore triste e amaro della povertà.

Per scrivere al direttore della Stampa, cliccare sulla e-mail sottostante.


direttore@lastampa.it

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