Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/09/2010, a pag. 22, l'articolo di Alessandra Farkas dal titolo " L’Iran contro il 'governo mondiale' ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "Se Prodi scandisce a Teheran ". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Ma Sakineh vista dagli iraniani non è un'eroina ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 10, l'articolo di Alberto Negri dal titolo " Il Golfo si arma contro Teheran ".
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " L’Iran contro il 'governo mondiale' "
Alessandra Farkas
NEW YORK — Dal podio del Palazzo di Vetro ha giurato che il capitalismo «si sta avviando verso la sconfitta» e ha auspicato «un nuovo ordine mondiale», invitando le Nazioni Unite a battezzare questo come «il decennio della governance globale». Più tardi, incontrando un gruppo di reporter americani, ha evocato lo spettro di «una guerra senza limiti» con gli Usa se la repubblica islamica, ormai prossima all'atomica, verrà attaccata da Washington o Israele.
Nel secondo g i or no del summit contro la povertà, parte della 65esima assemblea generale Onu, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha preso la parola di fronte all'aula semideserta dell'Onu, senza peraltro mai menzionare gli obiettivi del Millenio — l'impegno sottoscritto dai leader mondiali nel 2000 per sconfiggere la povertà globale entro il 2015 — al centro del summit di tre giorni voluto dal Segretario Generale Onu Ban Ki-moon.
«L'attuale governance composta di organismi ingiusti e antidemocratici che prendono decisioni in ambito economico e politico è la causa della maggior parte delle piaghe che affliggono l'umanità», ha affermato il presidente iraniano senza fare riferimenti più precisi, mentre nei corridoi dell'Onu si diffondeva la voce che stesse pronunciando un discorso diverso rispetto al testo distribuito in inglese.
Più tardi un portavoce Onu ha spiegato che i servizi di traduzione delle Nazioni Unite lavorano soltanto nelle 6 lingue ufficiali (inglese, francese, spagnolo, russo, cinese e arabo). Se un leader di una lingua non ufficiale vuole parlare nella sua lingua materna, deve quindi portarsi dietro l'interprete personale. Ma quella che da sempre accompagna Ahmadinejad, che come di consueto ha parlato in farsi, ieri era misteriosamente assente.
La tesi del doppio testo — uno per la platea internazionale e uno per quella di casa sua — troverebbe una spiegazione di fronte alle minacce dei paesi dell'Unione Europea che ieri si erano detti «pronti a lasciare l'aula», se Ahmadinejad fosse tornato ad attaccare Israele, auspicandone la distruzione o negando l'Olocausto.
Ma in un probabile assaggio del suo discorso ufficiale di fronte all'assemblea generale, domani pomeriggio, il presidente iraniano non ha resistito alla tentazione di minacciare l'odiata superpotenza. Quando un giornalista gli ha chiesto come reagirebbe se Washington permettesse ad aerei di combattimento israeliani di sorvolare l'Iraq per bombardare le istallazioni nucleari iraniane, ha risposto che gli Usa si ritroverebbero «impelagati in una guerra che, al confronto, farebbe impallidire tutti i precedenti conflitti americani, dal Vietnam alla seconda guerra mondiale».
«Una guerra non è limitata a un singolo bombardamento — ha messo in guardia Ahmadinejad —. Quando comincia, non ha più confini». E ha intimato Washington a «non immischiarsi negli affari interni dell'Iran». Poche ore prima Ahmadinejad aveva denunciato «il silenzio dei media» sul caso di Teresa Lewis, un ' americanacon disabilità mentali che domani sarà giustiziata in Virginia per omicidio. «Una donna sarà giustiziata negli Usa e nessuno protesta», ha affermato, lamentando la diversità di trattamento mediatico riservata al caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio per la quale si è mobilitata l'intera comunità internazionale.
Il FOGLIO - " Se Prodi scandisce a Teheran "
Romano Prodi
L’Italia non persegue le politiche degli Stati Uniti, non è vero che stiamo seguendo gli Usa come un bambino di scuola che cammina dietro il suo maestro”. Le dure parole di appeasement di Romano Prodi erano miele per le orecchie di Alaeddin Boroujerdi, capo della commissione Sicurezza del Parlamento degli ayatollah, che assieme all’ex premier ha preso parte a Teheran a un incontro organizzato dal centro studi iraniano Ipis. Boroujerdi ha annunciato che “la Repubblica islamica è pronta a espandere gli accordi bilaterali con l’Italia”. Prodi ha difeso il diritto al nucleare di Teheran e il ruolo dell’Iran nella “stabilità” della regione, dimenticando che Teheran è il principale esportare al mondo di terrorismo. Il professore bolognese durante i suoi mandati a Palazzo Chigi si contraddistinse per la solerzia nel facilitare il business fra Roma e Teheran. “Iran e Italia erano rivali nei tempi antichi, ma nel mondo contemporaneo sono grandi partner”, proclama orgoglioso il sito web della Camera di commercio Italia-Iran, creata secondo un accordo di cooperazione italo-iraniano firmato sotto Prodi. Oggi la Camera di commercio Italia-Iran è il più grande istituto bilaterale di questo tipo in Italia. L’intervento di Prodi a Teheran cade mentre sull’Italia sono puntati gli occhi di Gerusalemme. E’ notizia dei giorni scorsi che il volume di scambi tra Italia e Iran è aumentato esponenzialmente. A rivelarlo è stato un dossier del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Nella prima metà del 2010, le importazioni dell’Italia dalla Repubblica islamica sono lievitate a due miliardi di euro. Il doppio rispetto allo stesso periodo del 2009. Anche le esportazioni verso l’Iran sono cresciute: da 892 milioni di euro nella prima metà del 2009, sono aumentate a oltre un miliardo di euro nel 2010. Le parole di Prodi sono una rassicurazione nei confronti di una dittatura totalitaria che persegue un’agenda egemonica armata. Ma il punto è capire se la politica estera dell’Italia su Teheran è quella dettata dai condizionamenti e dagli interessi della vecchia diplomazia, a cui Prodi si richiama e appartiene, o dalla linea atlantista di Berlusconi. Quanto a Prodi, qualcuno poteva fargli presente che mentre lui intrattiene i mullah di Teheran, nelle prigioni di regime centinaia di persone sono in attesa di essere impiccate.
La STAMPA - Claudio Gallo : " Ma Sakineh vista dagli iraniani non è un'eroina"
Sakineh
La campagna contro la lapidazione di Sakineh, la bomba atomica che da 10 anni è sempre a un anno dalla sua realizzazione, la retorica infuocata contro Israele, i dissidenti in prigione. Così, spesso in modo riflesso, i nostri occhi sono abituati a vedere il paese degli ayatollah. L'Iran, però, non si lascia rinchiudere facilmente in un pugno di definizioni. La sua mancanza di democrazia e trasparenza, insieme con lo sguardo talvolta ideologico dell’Occidente ne fanno un oggetto opaco, imperscrutabile. Com’è l'Iran attraverso gli occhi degli iraniani? Il quesito è cruciale ma difficile, perché parlare di politica con un iraniano è diventato quasi impossibile: i vecchi interlocutori a Teheran mettono giù il telefono appena capiscono che la chiamata arriva dall’estero, e chi accetta di parlare chiede di non essere citato. Dal voto presidenziale contestato di oltre un anno fa, la repressione è diventata soffocante.
Ironizza un professore universitario che non vuol essere nominato: «Da noi c’è libertà di espressione ma chi la esprime perde la libertà». Un’altra domanda fondamentale è quanto consenso abbia il regime e, specularmente, se il movimento verde sia ancora vivo oppure sia stato stritolato dalla repressione. Negli ultimi giorni, la discussione che anima di più gli esperti è su quanto sia profondo o apparente il dissidio del presidente Ahmadinejad con la Guida Suprema Khamenei. Con l’intrepida superficialità del reporter tentiamo qualche risposta.
L’altro giorno all’Onu, il presidente Ahmadinejad ha detto che Sakineh Asthiani, la donna che rischia la lapidazione, non è mai stata condannata, che la sentenza è ancora da stabilire. È falso, ma non è questo il punto. Ahmadinejad in formato esportazione usa un argomento caro all’Occidente che sta conducendo una campagna mediatica per salvare la donna, in modo da dimostrare a costo zero la sua volontà di apertura. Ahmadinejad in formato nazionale invece è ben contento della campagna mediatica in favore di Sakineh, che in Iran è generalmente vista come una criminale qualsiasi: gli serve per dimostrare al suo pubblico quanto sia squilibrato e fazioso il giudizio degli occidentali che trasformano un’adultera e complice di un omicidio in un’eroina della libertà. Di più, gli serve per accomunare i condannati per motivi politici ai criminali.
«Di fatto - dice un esponente del fronte riformatore che chiede di restare anonimo - in Iran la vicenda di Sakineh ha contribuito a far dimenticare decine di condannati politici imprigionati senza accusa così come i molti condannati a morte». Alcuni prigionieri politici si sono chiesti in una lettera pubblica: «Noi innocenti ogni giorno veniamo “lapidati”, perché non viene intrapresa per noi questo tipo di campagna mondiale?».
Dice un giornalista della capitale, niente nomi prego: «Qui, a causa della forte sensibilità religiosa che arriva facilmente al fanatismo, si è molto sensibili al tema dei rapporti illeciti di una donna sposata. E Sakineh è una persona che ha avuto questo tipo di rapporti. Inoltre è stata complice del suo amante nell’omicidio del marito. Immagino che molti disapprovino la lapidazione, ma certo il giudizio sul caso non è favorevole». Secondo Golnaz Esfandiari, corrispondente di radio Free Europe/Radio Liberty, una delle giornaliste più informate sull’Iran: «È difficile parlare con intellettuali e attivisti critici del regime. Loro sono ovviamente contro quella sentenza barbarica, ma è probabile che nelle piccole città la gente non abbia mai sentito parlare della vicenda. A Teheran, anche tra chi è lontano dal regime, c'è la percezione che qualcuno abbia usato il caso di Sakineh per promuovere se stesso più che la giustizia».
Spiega uno scrittore, anche lui in anonimo: «I demagoghi che governano in Iran ne approfittano per dire alla gente: vedete, per i difensori della democrazia e coloro che sono contrari alla pena di morte, il significato dei diritti umani è che una donna sposata può avere rapporti illeciti e anche partecipare all'omicidio del marito e diventare un’eroina». Ma allora bisogna assistere alla lapidazione senza battere ciglio? «No, sarebbe sufficiente che i difensori dei diritti umani distinguessero tra crimine e inaccettabilità della pena di morte. Il nostro problema non è la difesa del crimine di una persona ma la difesa dei suoi diritti. Sakineh ha violato i diritti umani (ha partecipato all'omicidio di una persona), nonostante ciò si deve difendere il suo diritto alla vita».
Parlando di Iran, la madre di tutti gli interrogativi, sia per il lettore curioso che per l'analista del Dipartimento di Stato è: che fine ha fatto il movimento verde? Stephenz Kinzer, autore del recente «All the Shah’s men» sul colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq, ha scritto qualche settimana fa sull’Huffington Post: «Le proteste antigovernative dello scorso anno sono finite, almeno per il momento». La repressione ha funzionato: «Molta gente è infelice (è impossibile stabilire numeri esatti) ma nessuna delle persone che ho incontrato in Iran prevedeva nuove proteste nel breve periodo». Flynt e Hillary Leverett sono gli analisti che più di ogni altro hanno scritto l’epitaffio del movimento verde dalle colonne del loro sito «RaceforIran.com». La loro tesi è che dopo le elezioni contestate, il presidente Ahmadinejad ha subito sì un contraccolpo politico, ma limitato a quel segmento delle società che i media identificano con l’élite di Teheran Nord. Il governo insomma non avrebbe mai perso il consenso delle masse. Nella mancanza di dati attendibili, la visione dei Leverett ha il pregio della semplicità: la débâcle dei verdi è davanti agli occhi di tutti.
«E’ vero che le dimostrazioni sono state stroncate, che si percepisce un sentimento di rassegnazione - dice Esfandiari - ma resta tra la gente un forte senso di insoddisfazione nei confronti del governo. Credo che il regime lo sappia che si tratta di una vittoria a breve termine: lo si vede dal fatto che continua a tenere alta la pressione contro i leader riformisti come Karroubi». L’esponente riformista che vuole restare anonimo spiega: «La società vive nella paura, ma sotto le ceneri il fuoco brucia ancora. C’è ormai un grande fossato tra una grossa parte del popolo iraniano e il governo».
Il nemico principale in questo momento è la crisi economica. Ancora Esfandiari: «Quando parli con un iraniano, la prima cosa che cita è la crisi. Inflazione e disoccupazione sono la disperazione dei giovani, l’obiettivo di molti è lasciare il paese». A giorni dovrebbe passare in parlamento una legge che abolirà parte dei 100 miliardi di sussidi statali all’economia: soldi che verranno a mancare alle tasche della gente. È questo oggi il fronte più caldo per il governo, dove l’incendio potrebbe scoppiare da un momento all’altro e unire sotto un’unica bandiera tutti i segmenti insoddisfatti della società.
Il SOLE 24 ORE - Alberto Negri : " Il Golfo si arma contro Teheran "
Non bastano le portaerei della quinta flotta in Bahrein, il comando del terzo corpo d'armata in Qatar, le oltre trenta basi navali e aeree disseminate tra mare e deserto in Kuwait, Arabia Saudita e Oman, e neppure l'Aegis, il nuovo scudo di incrociatori antimissile voluto dal generale David Petraeus quando era ancora comandante del Centcom di Doha: le petromonarchie del Golfo vogliono rafforzare i loro apparati difensivi anti-iraniani e hanno ordinato all'industria bellica americana oltre 120 miliardi di dollari di forniture che verranno consegnate in quattro anni. La parte del leone è dell'Arabia Saudita con 67 miliardi, seguita dagli Emirati (35-40), dall'Oman (12) e dal Kuwait (7). Sono passati 65 anni da quando il presidente Roosevelt e il sovrano wahabita Ibn Saud si incontrarono nel canale di Suez a bordo dell'incrociatore Quincy, ma il patto di ferro tra Stati Uniti e Arabia Saudita da allora viene continuamente rinnovato: sicurezza contro petrolio.
Questa è la terza corsa agli armamenti nel Golfo, la seconda innescata dalla minaccia iraniana. La prima fu ingaggiata con il sostegno economico alla guerra scatenata nel 1980 da Saddam Hussein contro Khomeini: le monarchie sunnite del Golfo, dove si trovano due terzi delle riserve accertate di petrolio, temendo un'espansione dell'Islam sciita rivoluzionario che poteva mettere in pericolo gli equilibri interni, finanziarono per otto anni l'arsenale del rais iracheno con 50miliardi di dollari. La seconda corsa al riarmo avvenne dopo l'invasione del Kuwait nell'agosto 1990: minacciati direttamente da Saddam, i sovrani dell'oro nero furono costretti a ricorrere agli americani per liberare nel '91 l'emirato e si dotarono di armamenti sofisticati come missili Patriot e cacciabombardieri.
Adesso è ancora l'Iran, con le aspirazioni nucleari di Ahmadinejad e un'invadente politica estera mediorientale, dal Libano, alla Palestina all'Iraq, a far riaprire gli arsenali: con questa escalation di acquisti, sauditi ed emirati, riuniti nel Consiglio di Cooperazione, rappresentano ormai il 60% di tutte le spese militari del Medio Oriente Le monarchie del Golfo temono ritorsioni di Teheran in caso di attacco israeliano o americano e intendono comunque attuare una politica di deterrenza. Finora Riad ha dichiarato che non appoggerà operazioni militari contro l'Iran, anche se le cose potrebbero cambiare se Teheran decidesse un eventuale esperimento nucleare. In realtà i paesi del Golfo intrattengono con l'Iran rapporti ambigui: gli emirati come Dubai mantengono un forte interscambio commerciale e finanziario e vi sono periodicamente reciproche visite di alto livello, con commenti rassicuranti sulle pacifiche intenzioni del programma nucleare iraniano.
Gli Stati Uniti colgono intanto un duplice obiettivo: in tempi di crisi economica fanno lavorare la loro industria bellica e allo stesso tempo delineano una struttura di sicurezza nel dopoguerra iracheno che serve a contenere la repubblica islamica e a garantire la sicurezza dei flussi di petrolio. La maggior parte delle commesse riguarda nuove versioni dei caccia F-15 della Boeing, sistemi radar e anti-missile come i Patriot della Raytheon: la posta strategica in gioco è la supremazia area nel Golfo, con le petromonarchie chiamate a gestire direttamente una parte dello scudo difensivo. Qualche briciola delle commesse viene lasciata pure ai francesi che venderanno agli Emirati i Rafale della Dassault.
Gli ordini più interessanti, non solo per quantità, sono quelli dell'Arabia Saudita che vuole dotarsi di elicotteri e armamenti anti-guerriglia. Riad, insieme agli Stati Uniti, è il maggior fornitore di armi dello Yemen, il paese più traballante del Golfo, dove il radicalismo islamico di al-Qaeda mette a rischio il regime del presidente Saleh. L'Arabia Saudita poi è stata direttamente impegnata nei combattimenti contro gli Houti, movimento islamico in rivolta contro Sana'a ma attivo anche nella propaganda tra gli sciiti del regno wahabita. L'anno scorso, per la prima volta nella sua storia recente, l'esercito saudita, appoggiato dall'aviazione, ha attraversato i confini del regno per muovere guerra agli Houti. I risultati di questa campagna militare, durata alcuni mesi, non sono stati esaltanti: i sauditi hanno messo a nudo preoccupanti limiti di organizzazione. L'immobilismo economico e sociale che caratterizza la monarchia, oggi colpita da una disoccupazione all'inedito tasso del 10%, si è riflesso anche sulla macchina militare: con i petrodollari si comprano armi sofisticate ma non la capacità di combattimento.
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