Invitiamo i nostri lettori a scrivere al sindaco di Roma al seguente indirizzo e-mail: g.alemanno@comune.roma.it
Roma, quartiere San Lorenzo. Gli studenti dell’Istituto Superiore N. Machiavelli rientrando dalle vacanze estive avranno ancora trovato sulla parete esterna della scuola una targa commemorativa dedicata a Yasser Arafat. Perché dedicare il liceo classico di via dei Sabelli 86, che porta oltretutto il nome di uno degli esponenti più alti del pensiero e della storia d’Italia, alla memoria di uno dei protagonisti del terrorismo internazionale contemporaneo? Non siamo a Ramallah dove le scuole (e i campi di calcio, i nomi delle squadre di calcio, i tornei, le sale computer e i monumenti vengono regolarmente dedicati ad assassini conclamati). Siamo a Roma, non potrebbe dunque intervenire il primo cittadino?
Negli ultimi mesi, il Sindaco Alemanno saetta dichiarazioni politicamente scorrette che fanno storcere il naso ai benpensanti: dai campi rom abusivi (“da troppi anni esistono nella nostra città”) a Tor Bella Monaca (“raderla al suolo”) passando per il Grande Raccordo Anulare ("se mettono il casello lo sfondo con la macchina" ). Coraggio, appunto. Ma anche tanta magnanimità: è già stato molto “buono” con la causa palestinese lasciando in comodato d’uso la sede che ne ospita la rappresentanza ufficiale in Italia. Ed allora, visto che si sta dimostrando un Sindaco profitterol - dolce e buono sì, ma con le palle! -, perché non approfittarne per chiedere la rimozione di quel simbolo di morte, travestito da malintesa resistenza e lotta di liberazione nazionale?
Ci vuole coraggio, è vero. Quando si parla di Yasser Arafat si nomina il palestinese più amato dagli italiani, e lo sappiamo. Ma parlare di Arafat significa anche parlare di uno che al mondo ha prosciugato pozzi di vita. Per qualcuno è stato un combattente contro l’oppressione del piccolo e del grande Satana, al pari di Khomeini e come oggi lo può essere Bin Laden. Ma a ben vedere, dismesse le lenti deformanti dell’ideologia, Arafat non è stato altro che un mefistofelico assassino e distruttore di ogni possbilità di pace e stabilità in Medio Oriente. Basterebbe spostarsi nel quartiere ebraico romano per leggere la targa dedicata a Gay Tachè, l’innocente bambino ucciso a Roma dalla genia di Arafat, per rendersene conto. O basta ricordare quando Arafat si accordò con Khomeini per addestrare gli uomini che più avanti divennero la struttura portante dei Guardiani della Rivoluzione islamica e degli Hezbollah in Libano. Per non dimenticare l’intervista che il rais rilasciò ad Oriana Fallaci, in cui dichiarava di lavorare e vivere per la distruzione d’Israele: “È lo scopo della nostra lotta, ed essa non ammette né compromessi né mediazioni. No! Non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra, la vittoria. La pace per noi significa distruzione di Israele e nient’altro. Ciò che voi chiamate pace, è pace per Israele e gli imperialisti. Per noi è ingiustizia e vergogna”.
Ma, se per qualcuno la Fallaci nello scrivere manteneva troppo la destra (l’intervista, comunque, fu controllata parola per parola dalla segreteria dell’OLP), allora sarà bene introdursi nella strada a senso unico descritta da Ion Mihai Pacepa, capo generale della Securitate e consigliere dell’allora presidente della Romania, il genocida Nicolae Ceauşescu. Tra le quattrocento pagine del libro Red Horizons (ed. Regnery, 1987) il generale Pacepa dedica ampi spazi ad Arafat e mette in luce chi fosse veramente: “Un terrorista addestrato, armato e ingrassato per decenni dall' Unione Sovietica e dai suoi satelliti. Un borghese egiziano, trasformato in devoto marxista dall'intelligence estera del KGB che lo aveva addestrato nella sua scuola per allievi più promettenti a Balaqshikha, est di Mosca”. Pacepa conosceva molto bene l’OLP, perché l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina era stato un prodotto confezionato dal KGB con l’aiuto di Bucarest, dove si producevano propaganda e uniformi per i liberatori della Palestina: “Il generale Aleksandr Sakhrovsky, capo dell’intelligence estera del KGB, ci ordinò di fornire copertura per le operazioni terroristiche di Arafat e parallelamente di edificare la sua immagine internazionale. Nella guerra dei Sei Giorni Israele aveva umiliato due dei più importanti alleati dell'Unione Sovietica nel mondo arabo di quel tempo: l'Egitto e la Siria. Arafat, secondo il Cremlino, poteva rimediare al prestigio perso dall’URSS. Così, nel 1972, il Cremlino mise Arafat e le sue reti terroristiche in cima a tutte le liste di priorità dei servizi d'intelligence del blocco sovietico per renderlo gradito presso la Casa Bianca. Noi eravamo gli esperti in questo genere di cose nel blocco. Avevamo già conseguito grandi successi nel far credere a Washington - così come pure alla maggior parte degli accademici di sinistra, di moda allora - che Ceausescu fosse, come Josip Broz Tito, un comunista indipendente di tendenza moderata”. Ma di moderato e pacifico, oltre al nome (Yasser significa “tranquillo, senza problemi”) Arafat non aveva granché. È sempre Pacepa a raccontare come Arafat nel 1985, a Heliopolis in Egitto, rese omaggio al nazi-Muftì di Gerusalemme al-Husaynī (tra l’altro suo parente) dichiarandosi "infinitamente orgoglioso" di ricalcarne le orme. Oppure, a rivelare di come lo stesso Arafat si vantasse di aver inventato i dirottamenti degli aerei passeggeri.
Per il KGB, insomma, l’uomo con la kūfiyya era una cassa di risonanza da cui far uscire anti-semitismo unito ad anti-imperialismo e anti-americanismo. Pacepa ricorda in questo modo cosa effettivamente fosse Arafat per lo stesso conducător Ceauşescu: “Un brillante manager del palcoscenico, e noi dobbiamo farne buon uso". Mai immagine è stata più azzeccata per descrivere l’illusionista che ha fatto credere al mondo, durante lo spettacolo di Stoccolma, di infilare un kalashnikov nella kūfiyya e farne uscire una colomba. Infatti, due anni dopo il Nobel per la pace e la firma degli Accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era cresciuto del 73%, senza calcolare il terrore sparso per il mondo dai suoi avatar, come la Banda Bader-Meinhof o le Brigate Rosse.
Se quella targa attaccata alla parete di una scuola ricorda tutto questo anche al caro Sindaco Alemanno, allora, perché non rimuoverla ?
g.alemanno@comune.roma.it