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La Stampa Rassegna Stampa
19.09.2010 Egitto: molto colore e poca sostanza
nel reportage di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 19 settembre 2010
Pagina: 1
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Egitto, il futuro è nelle mani di una sfinge»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/09/2010, a pag. 1/10 il reportage di Francesca Paci, dal titolo " Egitto, il futuro è nelle mani di una sfinge ". Un pezzo però, nel quale al lettore non viene spiegata la situazione politica del paese, le forze in campo sono citate, ma tutte a livello superficiale. Dei Fratelli Musulmani non si dice quale pericolo rappresentino, perchè è nelle loro mani il futuro di un Egitto totalmente islamizzato. Anche i legami con El Baradei, che fu l'alleato neanche tanto nascosto dell'Iran atomico, non si dice quasi nulla. Mentre la prospettiva di Gamal Mubarak alla successione del padre viene presentata chiamando l'attuale presidente
" Faraone ". Molto colore e poca sostanza. Azzzeccato il titolo, che bene illustra il carattere narrativo dell'articolo.
Ecco il pezzo:


Francesca Paci              Mubarak

Alle 21 non c’è più una sedia libera al terzo piano del numero 2 di Amin Sami street, nel cuore del Cairo, dove le finestre senza vetri e le pareti intonacate a metà rivelano la precarietà del partito nasserista el Karama, capofila delle forze d’opposizione non riconosciute nel parlamento di Mubarak. Dietro il tavolo degli oratori c’è Alaa Al Aswany.
Non è venuto a parlare di Palazzo Yacoubian, il libro che l’ha reso famoso. Preferisce ascoltare.

Dal 1996 ogni giovedì sera incontro tutti quelli che hanno voglia di confrontarsi sulle idee. Quando quattro anni fa il regime, spaventato dalla partecipazione massiccia degli universitari, minacciò di chiudere il caffè che ci ospitava ci trasferimmo qui».
Davanti a lui quaranta uomini e donne dai venti ai sessant’anni raccontano a turno la paura di avere un nome cristiano che suoni nemico ai custodi armati del Corano, la voglia di andare a votare perché vinca il migliore e non l’erede naturale o politico del Faraone, la guerra quotidiana per i pomodori balzati in quattro mesi da 2 a 6 lire al chilo, quasi un euro, una fortuna per un impiegato egiziano che ne guadagna a malapena 200 al mese.
«Siamo a una svolta epocale, la vita che finora era dura è diventata impossibile», ragiona il dottor Al Aswany. Nello studio odontoiatrico del quartiere Gardencity, in cui continua a cavar denti nonostante il successo letterario, ha appeso un disegno del vignettista di Al Ahram Nagui Kamel che lo ritrae curvo sulla macchina da scrivere nello spazio tra un paziente e l’altro. Se l’Egitto primonovecentesco descritto nel suo romanzo aveva bisogno di dentisti come lui, quello attuale lo preferisce nel ruolo improvvisato di psicanalista: «Siamo un popolo portato al compromesso ma il compromesso non funziona più. Da una parte c'è l’emergenza economica d’un paese che ha perduto la classe media. Dall’altra la duplice spinta culturale verso la democrazia e verso il ritorno alla civiltà egiziana originaria com’era prima che soccombesse al wahabismo e all’interpretazione radicale dell’Islam».
In agitazione ma senza troppa fiducia nelle elezioni parlamentari di novembre e in quelle presidenziali del 2011, gli egiziani trasformano l’energia repressa in foga comunicativa. C’è chi non perde un seminario di Amin Sami street, chi solo nel 2007 ha portato in piazza mille volte milioni di persone per niente avvezze a scioperare, chi traduce l’esperienza comunitaria della umma, la grande famiglia del Profeta Maometto, nel collettivismo globale di Internet.
«Aprire un blog per rivendicare i diritti delle donne, la democrazia, la libertà religiosa, mi ha permesso di far sentire la mia voce a più persone e di scoprire che eravamo tanti, un network, una potenza», spiega Dalia Ziad, 28 anni, il velo a quadri stretto intorno al bel viso ambrato che non toglierà mai perché l’ha promesso alla mamma vedova, conservatrice, plasmata dalla mentalità patriarcale al punto d’aver tollerato la sua infibulazione e quella delle sorelle. Quando nel 2008 la polizia le ritirò i permessi già concessi per il locale in cui aveva organizzato il Cairo Human Rights Film Festival, questa ragazza minuta che affonda il naso nel cappuccino all’italiana del caffè Groppi, meta dell’intellighenzia under 35, noleggiò un barcone e trasferì le proiezioni sul Nilo: «Sono fortunata perché lavoro per la Ong statunitense American Islamic Congress e il governo, terrorizzato dal giudizio internazionale, non mi tocca, ma le minacce fioccano».
Il movimento dei blogger nato nel 2004 insieme al sogno d’una politica alternativa acceso da Ayman Nur, primo candidato riformista a sfidare frontalmente Mubarak fino a piazzarsi secondo alle elezioni del 2005, è cresciuto anno dopo anno, officina di opinioni differenti in attesa del pluralismo reale. Così mentre Dalia dal capo coperto disapprova l’apertura del presidente Obama alla moschea vicino a Ground Zero, Wael Abbas, trentaseienne pioniere dei blogger egiziani dalla cui causa ha ricavato percosse, denunce, il bando da qualsiasi lavoro dipendente, ascolta Jimi Hendrix e divora le puntate di Friends ma rimpiange Anwar Sadat: «Sono un po’ disilluso, in questi anni ho visto il vero volto del regime e ho capito quanto l’Occidente protegga Mubarak considerandolo l’unica garanzia di ordine nella regione. Sadat era un realista, provò a fare delle riforme, combattè contro Israele ma seppe fare la pace e negoziò con successo i confini egiziani». Le elezioni prossime venture? Se il paese parteciperà come al solito con un’affluenza minore del 20 per cento, la sua avanguardia telematica vorrebbe ma non può: Dalia è delusa dall’Aventino proclamato da Ayman Nur, Wael si rifugia nella lettura di The Waste Land di Eliot pensando alla propria desolata terra, altri sostengono il premio Nobel per la Pace el Baradei che però oltre a non aver rispedito al mittente l’appoggio dei Fratelli Musulmani sembra orientato a boicottare il voto a cui comunque, a meno d’una modifica della legge, non potrebbe partecipare.
La barzelletta più popolare per le strade della capitale egiziana, dove manifesti sovrapposti come in un’opera di Mimmo Rotella illustrano la scontro di facciata tra il figlio del raiss Gamal e l’avversario el Baradei, è quella in cui alla morte di Mubarak i leader mediorientali discutono dove costruire la tomba e concordano solo nello scartare Israele perché «duemila anni fa seppellì uno che risorse dopo tre giorni». Sebbene i giornali ufficiali non facciano che smentire i rumors sulla pessima salute del presidente il suo eventuale trapasso non è più un tabù.
E se dopo di lui fosse in agguato il diluvio? Secondo Hisham Kassem, fondatore del giornale indipendente Al Masri Al Youm, l'immediato futuro del paese delle piramidi è ancora in divisa militare: «Mubarak resterà fino alla morte. Se ne andrebbe solo se sapesse dai medici che diventerà un vegetale, come accadde al tunisino Bourguiba, e in quel caso designerebbe Omar Suleiman, il capo dell’Intelligence, l’uomo che ha in mano il dossier israelo-palestinese e gode della fiducia americana, l’unico che ogni tanto osa contraddire il presidente ed è benvisto dall’esercito».
Sul tavolo antico l’intellettuale amico e sodale di Nur tiene la copia di al Ahram con la foto ritoccata di Mubarak alla testa dei leader mondiali riuniti a Washington: «Una follia immaginabile solo in Corea del Nord, la prova che siamo ben oltre l’inizio della fine ma che ci vorranno ancora dieci o quindici anni di transizione prima di avere un Egitto governato dai civili». Appena avrà una sera libera, giura, si consolerà guardando il dvd Goodbye Lenin.
L’enigma egiziano è materia da Sfinge: tutti vogliono la fine dell’era Mubarak ma nel timore che la successione sfoci in un caos tale da far rimpiangere la versione precedente nessuno si sbilancia davvero. Un tempo bastava nominare i Fratelli Musulmani perché lo status quo apparisse digeribile a molti. Ma oggi anche i nipotini dell’irriducibile Sayyid Qutb hanno ridimensionato la virulenza verbale e nonostante abbiano appena affidato il comando al duro Mohammed Badia la colomba Mohammed Habib continua a predicare la via politica. «Ovviamente non siamo pronti a sfidare Mubarak alle elezioni ma incoraggiamo i passi costruttivi di el Baradei per porre fine al regime militare e ottenere pluralismo e democrazia», argomenta Habib. Chi teme il lupo nascosto dietro l’ulivo non ha che da ascoltarlo parlare del bando del niqab in quel di Parigi: «Proibire il velo è una scelta che spetta al governo francese, se la sua libertà dipende dal vietarlo lo faccia». Lontano dagli occhi, pare, lontano dal cuore.
Il punto è che dopo trent’anni il paese è Mubarak, opposizioni e Fratelli Musulmani compresi. Sostiene Amr Shobky, analista dell’Al Ahram Center for Political and Strategic Studies, che a questo punto il governo e i suoi oppositori si necessitano a vicenda: «I Fratelli musulmani non sono pronti a pagare il prezzo di trasformarsi in attori politici, anche perché la loro forza si manifesta al meglio nell’imporre l’apparenza islamica, il velo, la morale: governare è un altra cosa».
A mezzanotte la sede di al Karama si svuota. Il dottor Alaa Al Aswany controlla l’agenda degli appuntamenti, le pulizie dei denti prenotate, il nuovo libro, il seminario del prossimo giovedì: «Sono fiducioso per l’Egitto: la libertà è come l’amore, puoi rinchiudere tua figlia in casa per anni ma non puoi impedirle di innamorarsi».

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