Sul CORRIERE della SERA di oggi, 19/09/2010, a pag. 1/14, con il titolo " Ecco perchè stiamo perdendo l'Afghanistan ", Sergio Romano si riconferma molto poco storico, a differenza di come ama presentarsi, e molto più cinico cronista quale effettivamente è. Non spiega per niente "perchè" stiamo perdendo l'Afghanistan, si limita a descrivere una realtà che l'Occidente non ha più la capacità di affrontare. L'unica soluzione in vista gli sembra quella di invitare il nemico talebano, nella prospettiva di un suo coinvolgimento. La politica di Obama riceve da Romano solo elogi, mentre risulta patetico il richiamo iniziale all'Afghanistan 'di una volta', l'immagine di un paese che c'era ma che è scomparso travolto dal terrorismo. Uno storico dovrebbe avere il coraggio di dire che il nemico va sconfitto, e solo dopo la sconfitta può diventare in qualche modo partner della ricostruzione del paese. Non ci pare la politica di Obama. Era semmai quella di Bush in Iraq, che ha eliminato il dittatore come primo atto della successiva liberazione dal terrorismo. Bin Laden è libero, o, almeno, non è ancora stato preso. Nella sua cattura sta la salvezza dell'Afghanistan. E in un cambio di presidenza alla Casa Bianca.
Ecco il pezzo:
Sergio Romano Bin Laden
Nell’ultimo numero di Foreign Policy, una rivista americana di politica estera, Mohammad Qayoumi, uno studioso afghano emigrato negli Stati Uniti più di cinquant’anni fa, ha pubblicato le fotografie tratte da un vecchio album che descrive i progressi compiuti dall’Afghanistan verso la metà del secolo scorso. Tutti indossano abiti occidentali. Le gonne delle ragazze scendono sino alle ginocchia. Alcune hanno il capo appena velato, altre la testa scoperta.
Un piccolo gruppo di persone fa la coda di fronte alla biglietteria di un cinema dove si proiettano film occidentali. Le classi scolastiche, i laboratori medici, le corsie degli ospedali, le fabbriche, i capannelli di studenti di fronte all’università, i camici delle infermiere, le divise degli studenti, una libreria di Kabul, una diga appena costruita e i negozi del centro della città sono le immagini di un Paese tranquillo, industrioso, animato da una gran voglia di prendere al volo il treno della modernità e del progresso.
È un album «promozionale», fatto probabilmente per essere diffuso all’estero e nelle ambasciate straniere, ma proietta l’immagine di un Paese che non è più «medioevale» (l’aggettivo più frequentemente utilizzato per definire l’Afghanistan) ed è fiero dei propri progressi.
Qayoumi non dice che molte, troppe cose sono accadute da allora: la cacciata del re e la svolta repubblicana nella prima metà degli anni Settanta, la lotta fratricida tra i comunisti di obbedienza sovietica e quelli di obbedienza cinese nella seconda metà del decennio, l’invasione dell’Armata Rossa nel dicembre 1979, la rivolta dei mujaheddin agli inizi dell’anno seguente, la nascita del movimento talebano nelle madrasse pachistane e l’arrivo nella regione, durante la guerra, di un giovane sceicco saudita chiamato Osama Bin Laden. Qayoumi non dice che il mondo, nel frattempo, è cambiato.
Se quasi tutte le modernizzazioni dei Paesi musulmani sono fallite, non è difficile comprendere perché quella afghana, molto più fragile, abbia avuto una stessa sorte. Se gli americani, dopo avere sconfitto i sovietici, voltano le spalle al Paese per più di dieci anni, non è difficile comprendere perché quel vuoto sia stato riempito da altre forze.
Se nel grande Medio Oriente il fattore più rivoluzionario dell’ultimo trentennio è stato il risveglio dell’islamismo integrale, non è sorprendente che il fenomeno abbia particolarmente contagiato i Paesi più fragili e arretrati. L’Afghanistan oggi non è un problema isolato. Il Paese è in questo momento al centro di una vasta area di turbolenza politica e sociale che include il Pakistan, le regioni caucasiche della Russia, alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e le grandi aree tribali sparse sull’intera regione, per non parlare di ciò che sta accadendo un po’ più lontano in Iraq, nello Yemen, in Somalia.
Eppure l’album di Qayoumi dimostra che l’esistenza di un Afghanistan migliore è almeno teoricamente possibile. Gli americani e i loro alleati sembrano esserne convinti. Il presidente degli Stati Uniti ha certamente una strategia. Ha capito che il Paese non può essere governato dall’esterno come un qualsiasi protettorato e sa che i talebani rappresentano una forza reale, composta da persone che credono di morire per una causa giusta e possono contare in alcune regioni su un forte sostegno tribale. Bisogna quindi, prima o dopo, coinvolgerli in un negoziato di pace che ristabilisca l’unità nazionale e consenta all’America, nel momento in cui le sue truppe potranno abbandonare il Paese ( nel 2011?), di non lasciare dietro di sé il caos. Ma occorre, prima di avviare il negoziato, vincere qualche battaglia, pacificare qualche provincia, dimostrare al nemico che la pace può essere più conveniente della guerra. E occorre altresì creare le istituzioni di un Paese che possa governarsi da solo. Sedersi al tavolo del negoziato in condizioni di debolezza sarebbe, oltre che inutile, pericoloso.
Per raggiungere questo risultato Obama ha cercato di ripulire il governo afghano dai suoi maggiori vizi, fra cui la corruzione e la droga, ha mandato gli afghani alle urne, ha rafforzato il contingente, ha esercitato pressioni sugli alleati perché facciano altrettanto, ha esortato il Pakistan a spegnere le insurrezioni talebane nei suoi territori occidentali, ha inviato in Afghanistan i suoi migliori generali e ha autorizzato offensive di grande impegno nelle zone meridionali più agguerrite e pericolose.
Il bilancio non è confortante. Le truppe dell’Isaf (International Security Assistance Force) hanno vinto la battaglia di Marja, ma l’operazione ha dimostrato che la concentrazione delle forze al sud sguarnisce il nord e consente ai talebani di tornare in terre che erano stati costretti ad abbandonare. Il Pakistan si è maggiormente impegnato nella lotta contro i talebani, ma ha scatenato una nuova ondata di attacchi terroristici ed è per di più afflitto da una delle peggiori catastrofi naturali della storia asiatica. Alcuni alleati si sono piegati alle pressioni di Obama, ma di malavoglia, e non sanno come spiegare ai loro cittadini perché gli obblighi dell’amicizia e della solidarietà costringano a fare una guerra che non sembra avere ragionevoli sbocchi. Vi sono state le elezioni, ma si è votato soltanto nelle province dove è possibile andare al seggio senza rischiare la vita. Karzai fa del suo meglio, ma la corruzione di cui viene spesso accusato è probabilmente l’unico mezzo che gli consenta di tenere legati al suo carro gli esponenti di un vertice sociale composto da capi tribali, ras di fazioni politico-militari e, forse, signori della droga.
In teoria Obama potrebbe aggiustare la sua strategia cercando di coinvolgere nella guerra, come partner, due Paesi, la Cina e la Russia, certamente interessati ad evitare che l’Afghanistan sprofondi nel caos. Ma vi sono almeno due ragioni per cui tale prospettiva è difficilmente praticabile. In primo luogo l’America dovrebbe rinunciare alla sua leadership e soffrirebbe di uno scacco peggiore, politicamente, di quello vietnamita. In secondo luogo non è escluso che russi e cinesi preferiscano restare in platea per assistere, forse con qualche compiacimento, alla fine del dramma.
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