Anno nuovo, vecchio Medio Oriente
di Mordechai Kedar
(traduzione e adattamento di Antonella Donzelli e Avi Kretzo)
Mordechai Kedar
In questo articolo passeremo in rassegna i principali avvenimenti dell’anno che sta terminando nel mondo ebraico, arabo e islamico e cercheremo di delineare i possibili sviluppi del prossimo anno in vari scenari.
Scenario 1): arabi con cittadinanza israeliana.
Lo scorso anno è stato segnato dall’inasprimento dell’attrito tra Ebrei e Arabi all’interno d’Israele, anche se non si è arrivati a una rottura. Il fatto che a capo d’Israele sia un governo di destra con un importante ministro fautore del transfert dei Palestinesi non contribuisce a distendere i rapporti tra lo Stato e la minoranza araba.
Lo sceicco Raed Salah, capo dell’ala radicale del Movimento Islamico e una delle persone più potenti nella minoranza araba, è stato condannato a cinque mesi di carcere per aver aggredito un poliziotto e la sua incarcerazione è avvenuta senza problemi. Lo sceicco ha anche fatto parte della flotilla turca, dimostrando ancora una volta il suo legame ideologico con Hamas. Anche la partecipazione di Haneen Zoubi del partito parlamentare arabo “Balad” ha suscitato forti critiche nell’opinione pubblica. Il fondatore di questo partito, Azmi Bishara, si trova all’estero da lungo tempo e non è mai più ritornato, nonostante sia ricercato perché sospettato di avere aiutato Hezbollah durante la seconda guerra del Libano.
Parlamentari e leader arabi sono volati in Libia per abbracciare il dittatore Gheddafi, suscitando aspre critiche nei loro confronti sia da parte della maggioranza ebraica, sia da parte dei loro oppositori nel settore arabo. Essi vengono infatti accusati, soprattutto dagli Arabi, di essere più interessati a ciò che accade in Libia che alla situazione degli Arabi in Israele, cioè di chi li ha inviati alla Knesset.
A Nazareth è stata scoperta una cellula terroristica diretta in Somalia attraverso il Kenya per unirsi alla jihad di gruppi radicali contro le forze governative. Per fortuna questi terroristi non sono riusciti a raggiungere la Somalia e oggi sono ospiti dell’ente penitenziario israeliano.
La Knesset continua a promuovere leggi che vengono interpretate dagli Arabi come leggi razziali destinate a emarginarli e nel Negev continua a svilupparsi uno stato beduino nell’area tra Be’er Sheva, Dimona e Yeruham. Due terzi dei beduini vivono nei villaggi abusivi e non riconosciuti e solo un terzo abita nei centri che lo Stato ebraico ha loro assegnato. La situazione sta precipitando, soprattutto quando lo Stato - con sentenze del tribunale - cerca di abbattere le nuove costruzioni illegali, in particolare nei pressi di Rahat (cittadina beduina vicino a Be’er Sheva, costruita dallo Stato ebraico, n.d.t.).
Si stanno moltiplicando gli appelli arabi rivolti a organismi internazionali – i mass media, l’Onu, il Consiglio dei diritti umani, l’Unione Europea, gli ambasciatori stranieri in Israele - contro lo Stato ebraico, incolpato di discriminazione ed è in atto una crescente intromissione di questi organismi negli affari interni dello Stato d’Israele.
Nonostante questi attriti nelle relazioni tra Ebrei ed Arabi, sono molto più numerosi gli elementi che ci uniscono rispetto a quelli che ci dividono. Le due parti preferiscono mantenere un rapporto corretto ma freddo, piuttosto che una lotta aperta e violenta, nella quale entrambi perderebbero.
Scenario 2): i Palestinesi
. Nel corso dell’anno il governo israeliano ha cercato di avviare negoziati con la leadership dell’OLP per procedere secondo la visione del primo ministro Netanyahu, presentata un anno fa durante il famoso discorso tenuto all’Università Bar-Ilan di Tel-Aviv. Il punto centrale del discorso verteva sulla creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato, che riconoscerà Israele come Stato del popolo ebraico, con il quale vivrà in pace e sicurezza reciproche. Per dimostrare la serietà delle sue intenzioni il Governo ha congelato la costruzione degli insediamenti per dieci mesi, periodo che terminerà durante la festa di Sukkot, verso la fine di questo settembre.
Solo di recente Abu Mazen, capo dell’Autorità Palestinese, ha accettato di avviare trattative dirette con il governo Netanyahu. Ciò soltanto dopo aver subito notevoli pressioni da parte della Casa Bianca, che ha un disperato bisogno di registrare qualche successo in Medio Oriente, dopo una serie di fallimenti che descriverò di seguito. Le previsioni riguardo il successo delle due parti sul raggiungimento di accordi su questioni fondamentali - come Gerusalemme, i profughi, gli insediamenti e i confini - sono piuttosto pessimiste, ma non si può mai dire, perché dietro le quinte potrebbero essere in corso certi accordi che potrebbero lasciare il Governo al suo posto, passando la patata bollente ai governi successivi.
Il divorzio tra Gaza e Ramallah, tra Hamas e l’Autorità palestinese sembra definitivo, soprattutto perché Hamas ha nella Striscia di Gaza uno Stato autonomo, con confini riconosciuti, con esercito e polizia, con un apparato legislativo, giudiziario ed esecutivo, con un sistema fiscale, poste, infrastrutture e strutture igienico-sanitarie, e soprattutto con una rete autostradale di gallerie sotterranee attraverso le quali si può contrabbandare quasi qualsiasi cosa verso e dalla Striscia di Gaza. A causa dell’integralismo di questo regime islamico molti abitanti cercano in ogni modo di sfuggire dalla Striscia di Gaza verso una qualsiasi destinazione.
Gilad Shalit è ancora nelle mani di Hamas e le posizioni di Hamas e d’Israele sono ancora troppo lontane per trovare un accordo sullo scambio di prigionieri. Ognuna delle due parti è trincerata nelle sue idee e la protesta della famiglia Shalit, che montava nei mesi di maggio e giugno, verso la fine dell’estate si affievolisce nella tenda dove vivono i suoi genitori, di fronte alla casa del Primo Ministro.
La ripresa dei negoziati con la leadership dell’OLP ha provocato alcuni attacchi omicidi contro i cittadini israeliani che vivono in Giudea e Samaria. È probabile che quanto più il processo politico procederà, tanto più aumenterà l’impegno palestinese per farlo fallire attraverso attacchi terroristici contro Israele.
In contemporanea con la ripresa dei colloqui a Washington, tredici organizzazioni di "resistenza" hanno tenuto a Gaza e a Damasco conferenze nelle quali hanno condannato senza mezzi termini Abu Mazen, definendolo "traditore" per aver accettato di riprendere i negoziati con Israele, così che alla fine rinuncerà a parti della Palestina. Se io fossi Abu Mazen starei molto attento agli sconosciuti che mi si avvicinano e in strada non camminerei accanto ad automobili non identificate (Rafiq Hariri docet, n.d.t.).
Ora, però, dobbiamo sottolineare la crescente polemica tra la leadership di Hamas in Cisgiordania: i capi di zona, relativamente giovani, portano la bandiera dell’opposizione a ogni tipo di accordo e sono stati quelli che hanno eseguito gli attacchi nei quali, dieci giorni fa, hanno trovato la morte i quatto coloni (vedere l’articolo “…si versa sangue su sangue”, n.d.t.). Al contrario, la leadership degli anziani è disposta a permettere ad Abu Mazen di andare avanti nei negoziati per costruire un altro stato palestinese in Cisgiordania e dopo che Israele si sarà ritirata, essi si impadroniranno di questo stato, passo dopo passo, o con mezzi politici come le elezioni, o con mezzi militari, come il terrorismo e le eliminazioni degli oppositori, come hanno fatto a Gaza, oppure con entrambi i mezzi.
Nel frattempo Abu Mazen si assicura una relativa calma in Giudea e Samaria attraverso un sistema d’intese con i leader locali di Hamas, mediante il quale egli non li ostacolerà né gli attirerà addosso l’esercito israeliano, mentre essi, in cambio, non gli impediranno di procedere nelle trattative con Netanyahu. Gli omicidi delle ultime settimane sono stati una trasgressione a quelle intese, che ha causato un arresto di circa 300 leader di Hamas, tutti conosciuti dall’Autorità Palestinese.
Peccato che questi arresti vengano effettuati con il noto sistema della “porta girevole” (da cui si entra e subito si esce con facilità, n.d.t.).
Nel frattempo, Salam Fayyad, Primo Ministro dell’OLP nell'Autorità Palestinese, costruisce lo stato palestinese dal basso verso l’alto, attraverso la creazione di meccanismi di potere, il miglioramento delle infrastrutture, un’economia in espansione, la creazione di contatti con il resto del mondo - Stati e organizzazioni - promuovendo il flusso di miliardi che migliorano la situazione dei privati e della società palestinese, alla quale pone un’alternativa al terrorismo.
Se Israele non starà attenta, Salam Fayyad potrebbe proclamare l’indipendenza dello stato palestinese, senza un accordo con Israele e con il riconoscimento internazionale. Egli potrebbe anche dichiarare Gerusalemme Est capitale della Palestina e il mondo si affretterebbe a imporre questa realtà a Israele. Il mio cuore mi dice che un personaggio molto importante alla Casa Bianca sta dietro questo piano e spinge la leadership dell'OLP a realizzarlo.
Abu Mazen è pronto - e forse anche desidera – a introdurre le forze internazionali in Cisgiordania, in modo che esse proteggano lo Stato palestinese da Israele, dando rifugio ai killer dell’Autorità Palestinese, che si nasconderanno dietro le forze internazionali. Egli è ben consapevole che questi eserciti non muoveranno un dito contro il terrorismo, esattamente come l’UNIFIL non agisce contro il contrabbando di missili dalla Siria e dall’Iran verso Hezbollah in Libano.
La mia previsione per l’anno prossimo è che Israele ufficialmente continuerà a ignorare la costruzione di uno Stato palestinese da parte di organizzazioni straniere e verso la fine del 2011 questo stato dichiarerà l’indipendenza entro i confini della Linea Verde ma non la fine del conflitto, in modo da poter continuare a pretendere ciò che non ha ancora ricevuto: il ritorno dei profughi in territorio israeliano, l’evacuazione degli insediamenti e Gerusalemme. Il sostegno del mondo ai Palestinesi costringerà Israele ad accettare a denti stretti questa situazione e non le resterà che cercare di minimizzare i danni.
Scenario 3): Libano
. Hezbollah ha continuato a rafforzare il suo controllo sul paese dei cedri e l’anno scorso è riuscito a imporre la sua autorità sulle forze armate libanesi. Hezbollah muove l’esercito secondo i propri interessi e l’attacco ai primi di agosto, nel quale è stato ucciso un ufficiale della riserva israeliana, il tenente colonnello Dov Harari, ha disilluso chi ancora nutriva la speranza che il Libano potesse tornare a essere un paese pluralista, pacifico e prospero, com’era fino alla metà degli Anni settanta. La fuga dei cristiani continua; molte forze politiche libanesi hanno realizzato che l’Occidente ha abbandonato la coalizione del 14 marzo, pro occidentale, a capo della quale stava Saad Hariri, e hanno tratto la conclusione che a questo punto è meglio allearsi con Hezbollah.
Secondo le informazioni trapelate dalla commissione d’inchiesta dell’Onu sull’assassinio di Rafiq Hariri nel febbraio 2005, la commissione è tenuta a puntare il dito contro alti esponenti di Hezbollah come complici dei sicari di Hariri. Dietro le quinte vengono tenuti contatti segreti ed esercitate pressioni da parte di Arabia Saudita e Siria, al fine di rimandare alle calende greche la pubblicazione dell’esito delle indagini.
L’Arabia Saudita teme che Hezbollah perderà la pazienza e toglierà al vecchio regime la maschera che copre la realtà politica in Libano e il governo siriano teme che i capi di Hezbollah, se saranno incolpati dell’omicidio di Hariri, per proteggere se stessi rinvieranno le accuse a Damasco. Da molto tempo non c’era una reale identità d’interessi tra Arabia Saudita e Siria, ma probabilmente l’avvicinamento tra questi due Paesi in qualche modo andrà a scapito dei rapporti attuali tra Siria e Iran.
La mia previsione per l’anno nuovo è che le relazioni tra Israele e il Libano non dipenderanno dai risultati della commissione, ma da che cosa succederà o non succederà nello scenario iraniano, di cui tratterò di seguito.
Scenario 3): Egitto. Il Paese del Nilo si trova oggi nel bel mezzo di una battaglia all’interno delle forze che cercano di incoronare Gamal Mubarak, il figlio di Hosni, l’attuale presidente, come suo successore, soprattutto per evitare scosse nell’élite del Paese. L’Egitto è un esempio e un simbolo dell’integrazione tra l’élite economica e il potere. Mentre i ricchi diventano sempre più ricchi, la situazione dei ceti sociali più bassi peggiora sempre più. Il Governo domina il popolo attraverso una polizia particolarmente brutale e chi cade nelle sue mani sa benissimo che le sue possibilità di uscire vivo dalle prigioni sono minime.
Chi si candida alla presidenza si scontra con una lotta efferata con il Governo, che non esita a lanciare false accuse e a operare ritorsioni nei confronti della famiglia del candidato, usando i mass media, sottomessi al regime. La lotta principale è, da un lato, tra la maggioranza della popolazione che sostiene l’organizzazione dei Fratelli Musulmani, che non sono un blocco monolitico ma un coacervo d’idee islamiche e, dall’altra, una minoranza che sostiene il governo, soprattutto perché ne trae un vantaggio economico.
La maggioranza islamica non è disposta ad accettare che il potere venga tramandato di padre in figlio, perché tale sistema perpetua il controllo dei corrotti ed elimina la possibilità che il governo cambi e si rinnovi. Forze straniere incoraggiano i Fratelli Musulmani e il denaro proveniente dall’estero alimenta molte controversie all’interno di essi. Le fonti dei finanziamenti sono l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Stati del Golfo e fondazioni europee; ogni finanziatore ha la sua agenda politica e i propri interessi.
Due settimana fa a Washington Hosni Mubarak è apparso debole, magro e invecchiato. Più la sua immagine si va indebolendo, più crescono le forze centrifughe che scuotono l’Egitto. Se il crepuscolo di Mubarak durerà a lungo, le forze d’opposizione a suo figlio si rafforzeranno e al tempo stesso anche quelle che lo sostengono. Con l’uscita di scena di Mubarak padre è possibile che la lotta che scoppierà tra le due fazioni sarà più forte della capacità del governo di controllarla e a quel punto la battaglia si consumerà in strada, con un bagno di sangue, mettendo in discussione la sopravvivenza dell’Egitto come paese unito. La pace con Israele potrebbe essere vittima di lotte intestine e lo Stato ebraico deve prepararsi per difendere il suo confine meridionale con il Sinai.
Scenario 4): l’Iraq
. Sei mesi dopo le elezioni parlamentari non vi è ancora un governo funzionante. Ciò indica quanto sia profonda la controversia interna tra i segmenti della popolazione e il fallimento della coscienza collettiva "irachena" volta a sostituire la tradizionale fedeltà alla tribù, al clan, all’etnia e al culto religioso. Le forze esterne, in particolare l’Arabia Saudita, l’Iran e la Siria, approfittando della divisione interna s’intromettono e seminano zizzania nel calderone bollente iracheno, per favorire i loro interessi, a scapito dell’unità del Paese e dell’armonia tra le varie componenti della popolazione.
I Curdi hanno tratto le loro conclusioni e s’incamminano sulla strada verso l’indipendenza, sviluppando il loro paese a spese del governo centrale. Essi controllano gran parte delle risorse petrolifere di Kirkuk e Mossul e gestiscono un sistema di accordi economici con molti paesi. Siria, Turchia e Iran sono contrari alla dichiarazione d’indipendenza curda per non incoraggiare i Curdi a fare altrettanto anche nei loro territori. Fino ad ora i Curdi in Iraq si sono mossi con saggezza e continuano sulla via per l’indipendenza senza clamore, per non svegliare il can che dorme.
Il futuro dell’Iraq come paese arabo è ancora nebbioso ed è probabile che le zone abitate da sciiti finiranno sotto l’influenza iraniana (e quindi non araba, n.d.t.), mentre quelle a popolazione sunnita saranno sotto l’influenza saudita. Questa situazione accelererà la dissoluzione dello stato iracheno e rafforzerà l’influenza dell’Iran sul settore petrolifero mondiale.
Quanto a Israele, fino a quando l’Iraq non sarà stabilizzato in modo che lo stato ebraico possa stare tranquillo, egli deve tenere sotto il suo controllo la Valle del Giordano per evitare che una mattina forze di spedizione militari irachene si presentino tra Ramallah e Nablus minacciando dall’alto la pianura costiera (Tel-Aviv e dintorni).
Scenario 5):
Iran
. Più le sanzioni internazionali contro di esso aumentano, più lo stato degli ayatollah si rafforza. E più la disunione internazionale sulla questione nucleare è profonda, più la determinazione iraniana a proseguire il programma atomico cresce. Da un lato gli Stati Uniti si stressano per non essere riusciti a ottenere il controllo internazionale sul governo iraniano, dall’altro la Russia attiva il reattore nucleare di Bushehr per generare elettricità. La Cina, che dipende dal petrolio e dal gas iraniani, si adopera in ogni modo per proteggere l’Iran presso i vari organismi internazionali e le imprese europee lavorano direttamente e indirettamente con il governo iraniano in contrasto con le sanzioni all’Iran.
Le dichiarazioni dei leader iraniani contro Israele diventano sempre più radicali e le minacce di distruzione dello Stato sionista stanno aumentando, in contrasto con il silenzio assordante della comunità internazionale. L’Occidente è paralizzato dalla paura e dall’idea che gli ayatollah chiuderanno lo Stretto di Hormuz; in conseguenza di ciò i prezzi del petrolio aumenterebbero in modo incontrollabile e l’economia occidentale, già traballante, rischierebbe di ricevere il colpo mortale.
Così, già oggi, i governanti dell’Iran dominano le decisioni internazionali e nessuno apre bocca perché tutti tremano di paura e aspettando la reazione del presidente Obama, l’unico che può cambiare il corso degli eventi. Se da parte sua non verrà un intervento decisivo, il regime iraniano raggiungerà lo status di potenza nucleare.
Gli Stati del Golfo dichiarano apertamente il loro timore nei confronti dell’Iran e in almeno un paese – il Kuwait – è già in atto un dibattito pubblico sul futuro del Paese come stato indipendente. Molti nella minoranza sciita in Kuwait (circa il 30 per cento della popolazione) parlano il farsi e vorrebbero vedere il loro Paese unito all’Iran, basandosi sulla teoria: "Se non riesci ad affrontarli, unisciti a loro". Nel Bahrain è in corso un dibattito analogo tra la maggioranza sciita e la minoranza sunnita dominante, e lo stesso avviene negli altri stati del Golfo, dove vivono centinaia di migliaia d’Iraniani.
Io credo che l’anno venturo l’Iran rafforzerà la sua presa sull’Iraq e sugli Stati del Golfo e costituirà una minaccia per la stabilità dell’Arabia Saudita, incoraggiando le attività separatiste tra la minoranza sciita, sotto i cui piedi giacciono i tesori del petrolio saudita. L’Iran continuerà a sostenere qualsiasi organizzazione islamica – sunnita o sciita – che agirà contro l’ordine internazionale. Allo stesso tempo, l’Iran proseguirà nello sviluppo del suo progetto nucleare militare, sfruttando la debolezza degli organismi internazionali e la mancanza di volontà e di fermezza americana nel frenare la corsa degli ayatollah verso la bomba.
Scenario 6): gli Stati Uniti.
Questo Paese attualmente offre il miglior esempio di come una potenza mondiale abbia deciso di rinunciare consapevolmente e deliberatamente alla posizione di leadership che aveva negli anni seguenti la Seconda guerra mondiale. Il Presidente Obama insegue il sogno utopico in cui “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello… “, valido soltanto se l’agnello saprà parlare educatamente con il lupo. Obama cerca di placare gli estremisti radicali nella Corea del Nord, in Sud America, nel mondo arabo e in quello musulmano, sacrificando gli interessi degli Stati Uniti, dell’Europa e d’Israele. Obama non ha mai menzionato nei suoi discorsi "i nostri amici e alleati", un’espressione comune sulla bocca del suo predecessore, George W. Bush, perché nella sua visione il mondo non si divide in “nostri amici contro i nostri nemici” oppure “i nostri alleati contro i nostri avversari”. Nel suo modo di sentire il mondo intero vuole la pace, la vita, la tranquillità, lo sviluppo e il rispetto dei diritti umani e soltanto se si troverà la ricetta per accontentare tutti, allora tutti si siederanno attorno al fuoco a cantare "Alleluya”.
Perciò egli è disposto a portare sul tavolo delle discussioni internazionali il dossier sul nucleare israeliano; per questo egli fa pressione su Israele affinché accetti uno stato palestinese; perciò rinuncia alla coalizione pro occidentale in Libano: egli è pronto ad accettare un Iran nucleare, egli accetterà la sepoltura del dossier sull’uccisione di Hariri nelle cantine delle Nazioni Unite. La sua arrendevolezza e il suo servilismo davanti ai forti caratterizzano la sua politica.
Secondo me Obama sta portando gli Stati Uniti verso una discesa scivolosa in cui perderà la sua leadership mondiale, e ciò influisce già sull’economia americana che a fatica resiste alla crisi economica che lo ha insediato sul trono presidenziale, quasi due anni fa. Se nelle elezioni del prossimo novembre i repubblicani otterranno la maggioranza al Congresso e al Senato c’è la possibilità che metteranno un freno all’inquilino della Casa Bianca, con la speranza che gli Stati Uniti non precipiteranno negli abissi. Se invece la maggioranza democratica resterà al potere, Obama si sentirà libero di continuare a castrare la potenza degli Stati Uniti di influenzare il mondo. Questo scenario accelererà la crisi mondiale, perché tutti gli avversari della cultura occidentale saranno incoraggiati da Obama e accresceranno le loro attività contro gli Stati Uniti, l’Europa, Israele e l’Occidente in generale.
Shanà Tovà! (Buon Anno!)
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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