Riportiamo da PANORAMA n°27 del 10/09/2010, a pag. 45, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " 'Miral', un Mulino Bianco palestinese ".
Fiamma Nirenstein
Il film di Julian Schnabel e di Rula Jebreal, Miral, è così scontato da non emettere alcun suono. Parecchie volte capita di notare quanto danno faccia l’ideologia estrema alla cultura e al gusto: è accaduto col nazismo, col fascismo, col comunismo e accade anche col palestinismo, notevole componente della confusione contemporanea. Anche importanti artisti come Schnabel possono venirne offuscati, è già accaduto.
Quando Yasser Arafat si recò in visita a Saigon dal generale Giap, gli chiese come i vietnamiti fossero riusciti a trasformare un conflitto remoto e locale in una grande questione internazionale. Giap gli suggerì di dedicarsi alla conquista delle élite, e Arafat riscrisse la vicenda dei palestinesi facendone i grandi oppressi dell’imperialismo, dei guerrafondai, le vittime degli americani, degli israeliani, della lobby ebraica. Il terzomondismo era in gran crescita in quegli anni. Quel castello di bugie ha giganteggiato fino a consentire ai palestinesi di rifiutare qualsiasi proposta di pace incolpandone gli israeliani. La dedica finale del film a chi non rinuncia alla pace è senza contenuto. Il film Miral rinfocola una cultura vittimista e corriva che non può che produrre guerra.
Dopo un ammiccamento alto borghese-terzomondista di Vanessa Redgrave, il film offre le immagini della proclamazione di Ben Gurion dello Stato ebraico, cui subito seguono scene di guerra di cui sono vittime i bambini palestinesi: ma la guerra fu scelta dagli arabi che rifiutarono la partizione, cinque eserciti assalirono Israele che aveva accettato. Nel film non c’è traccia di questa e di altre verità storiche. Il “Mulino Bianco” arabo che ci viene offerto, scuola, pace, olive, humus e pita, era semmai un vulcano di odio. Ne fu il padre ideologico soprattutto un rampollo della famiglia degli Husseini, Haj Amin, lo sceicco amico di Adolf Hitler, senza nulla togliere alla maestra di Rula. Ma quella fu l’epoca in cui il rifiuto arabo divenne un dogma mai più infranto.
Gli ebrei disegnati dal film sono pazzi assetati di sangue che cercano ogni occasione per tormentare i palestinesi in una specie di idoelogia suprematista così lontana da Israele come sa chiunque lo conosce. L’orrida poliziotta cicciona che fustiga a sangue con moto spontaneo la prigioniera (Miral) sarebbe finita sui giornali in prima pagina insieme al giudice omertoso. La libera informazione e la giustizia israeliana li avrebbero spediti in galera. La lacrimosa descrizione della terrorista Fatima con incredibile cinismo parla di un attentato fallito in un cinema, e non delle migliaia di attentati riusciti, che hanno ucciso giorno dopo giorno donne, bambini, vecchi israeliani.
Del terrorismo, dell’odio che ha caratterizzato in tutti questi anni l’atteggiamento dei palestinesi (di cui è una serra proprio la scuola, da cui è bandita la carta geografica dello Stato Ebraico) verso Israele non c’è traccia. I soldati israeliani sembrano psicopatici che usino a casaccio bulldozer, carri armati, mitra contro elfi danzanti che lanciano pietre. Piccole pietre.
Colpisce quanto siano furbastri i riferimenti storici, con la scritta che gli accordi di Oslo non furono mai realizzati, come se non fosse stata l’Intifada dei terroristi suicidi decisa da Arafat a impedirlo; con l’allusione alla generosa accettazione del 22 per cento della patria ambita che, bontà loro, i palestinesi avrebbero accettato. Ma chi conosce il soggetto sa che esso è il 22 per cento di una “Palestina storica” usata all’occorrenza, mentre in realtà comprende tutta la Cisgiordania e Gaza. Cioè tutto, fuorché Israele.
Ma Israele è per il film un becero occupante, un ebreo errante che non c’entra niente, non certo un popolo tornato sulla sua terra. Colpisce anche l’occupazione estetica di Gerusalemme trasformata in città tutta araba, l’esaltazione dell’occupazione Giordana dal 48 al 67 in cui i luoghi santi dei cristiani e degli ebrei non erano accessibili liberamente. Lo spettatore insomma impara molta dottrina e poca verità, mentre le immagini si arrampicano sugli specchi di una conclusione strampalata.
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