La banalità dell’amore Savyon Liebrecht
Traduzione Alessandra Shromroni
e/o Euro 14
L’amore tra Hannah Arendt e Martin Heidegger, tra la pensatrice ebrea costretta nel ’33 a lasciare la Germania e il filosofo che invece, nello stesso anno, abbracciava il nazionalsocialismo e diveniva rettore dell’Università da cui cacciò i professori ebrei, e chiamò gli studenti a farsi direzione spirituale del nazismo, è una passione che Hannah Arendt non rinnegò mai. Anche dopo la Shoah.
Fin dal ’50 ricercò il maestro con cui, diciottenne, nel 1925, aveva iniziato una lunga relazione, continuò ad andarlo a trovare, pronunciò perfino un intervento assolutorio nei suoi confronti in occasione dell’ottantesimo compleanno. Un sentimento che lascia sbigottiti, con addosso mille domande e una sensazione appiccicosa, malata. Un mistero. Ecco, l’intrigo è stato messo in scena da Savyon Liebrecht, un’israeliana che finora ha scritto soprattutto bei romanzi intimi (premiati ben tre volte in Italia), spesso incentrati sulle vite di ogni giorno dei sopravvissuti o dei loro figli, sui loro tic, gli sbandamenti, la nostalgia dell’Europa, la forza di andare avanti. Ora il titolo della pièce teatrale, “La banalità dell’amore” che riprende il famoso “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” scritto dalla Arendt come inviata dal New Yorker al processo contro il gerarca nazista rapito a Buenos Aires dal Mossad e messo dietro la sbarra da Israele nel ’61-’62 e poi giustiziato, ci svela l’altro tema sensibile del dramma: perché quel reportage, pieno di accenti critici e sprezzanti verso la leadership ebraica durante e dopo la Shoah, fu messo al bando dal paese degli ebrei. Persino un amico e un pensatore liberale come Gershom Scholem rimproverò ad Hannah la mancanza di amore per il suo popolo.
Come mai signora Liebrecht questa volta ha scelto un soggetto così pubblico e controverso?
“Alcuni anni fa ho letto La banalità del male. Non capivo perché se ne fosse proibita la pubblicazione in Israele: lo trovai aderente ai fatti, anche se c’erano un po’ troppe annotazioni sulla sporcizia del tribunale, o sulle facce da arabi dei poliziotti. Diceva prima di tutto che era un processo spettacolo, e lo era”.
Fu uno strumento per rompere il silenzio e il senso di sconfitta creati dalla Shoah.
“Sì, ma Hannah aveva ragione a dire che era più un processo simbolo che un processo all’uomo. E aveva ragione anche a sollevare il problema degli Judenrat, i consigli ebraici dei ghetti, sottolineando come avessero facilitato i compiti ai nazisti, ad esempio consegnando loro le liste dei nomi. Comunque era troppo presto per porre quei temi, come gli scrisse Scholem. Israele era un paese giovane e fragile. E senz’altro il tono della Arendt fu arrogante, insopportabile. Ma le sue erano affermazioni giuste, e la cosa mi colpì. E poi c’era il suo amore per Heidegger a dispetto del nazismo.
Lessi il loro epistolario. Lei gli era totalmente devota e il cuore, come spesso accade nelle donne, poteva molto di più della sua raffinata intelligenza. Vidi queste linee parallele che si incrociavano: ne poteva nascere un buon dramma teatrale”.
Oltre ai due protagonisti, c’è in scena Michael, un giovane israeliano che pone alla Arendt molte domande scomode. Gli dice ad esempio che la persistenza del suo amore per Heidegger dipendeva da quella soggezione che gli ebrei tedeschi hanno sempre mantenuto per la cultura germanica.
“Sì, conosco bene gli ebrei che provenivano da Bonn o da Berlino, il mio cognome è tedesco e sono figlia di sopravvissuti. Queste persone per decenni hanno continuato a parlare male l’ebraico, a riunirsi per dedicarsi all’unica cultura che ritenevano perfetta, a dire che Hitler era austriaco e che la vera Germania erano loro”.
Una specie di sindrome di Stoccolma.
“In un certo senso. Quando ho letto il discorso che Heidegger tenne all’università di Friburgo nel ’33, il suo nazismo volgare, non riuscivo a capacitarmi che Hannah avesse potuto continuare a cercarlo, in un rapporto davvero asimmetrico tra l’altro, perché lui la considerò sempre una relazione tra le altre”.
Lei si identifica con Hannah o con il giovane israeliano?
“Sotto qualche aspetto sono lui, sotto altri lei, sono ambigua, una posizione che giova sempre alla letteratura. Accetto le posizioni della Arendt su Israele e Eichmann, ma mi fa orrore il suo amore per Heidegger”.
Non crede che le due cose siano collegate, che, guardando Eichmann, la Arendt abbia parlato di “banalità del male” anche perché, vedendolo solo come un ingranaggio della macchina nazista e non un “volenteroso carnefice”, assolveva in parte il popolo tedesco e il primato della sua cultura”
“No, non lo credo, nelle mie pagine Hannah sa difendersi da quelle accuse. E non penso che Israele non le stesse a cuore. Lo criticava. Anche se è vero, non era il momento: il processo fu una terapia importante per la società israeliana”
Che accoglienza ha avuto la pièce?
“E’ andata in scena prima in Germania che in Israele. E’ venuto anche il figlio di Heidegger a vederla. Ormai è anziano, ma da giovane, sotto il Terzo Reich, ha fatto il militare. Ci hanno presentati”.
E lei come si è sentita?
“Strana. Ho pensato, è la prima volta che stringo la mano a uno che ha combattuto dalla parte dei nazisti”.
Susanna Nirenstein
R2 Cult – La Repubblica