Sul FOGLIO di oggi, 11/09/2010, a pag.1/4, con il titolo " I turchi di domani", Luigi De Biase analizza il prossimo referendum voluto da Erdogan per dare un'immagine di scelta democratica alla svolta islamista data dal suo governo alla Turchia.
Roma. Cinquanta milioni di turchi andranno alle urne questo fine settimana per un referendum decisivo: riguarda la riforma che può modificare la Costituzione e il futuro del paese. Se vincerà il partito del “sì”, quello del premier, Recep Tayyip Erdogan, i militari saranno giudicati dai tribunali civili, il Parlamento potrà nominare alcuni membri della Corte suprema e i dipendenti pubblici avranno il diritto di sciopero. Se il successo andrà ai sostenitori del “no”, Erdogan valuterà l’ipotesi di rimettere il proprio mandato e di chiedere nuove elezioni. I sondaggi dicono che la Turchia è divisa, nessuno è pronto a scommettere sul risultato perché la campagna elettorale è stata intensa e non ha coinvolto soltanto i partiti politici. Erdogan è il leader di Giustizia e sviluppo (Akp), un movimento d’ispirazione filoislamica molto popolare nelle province dell’Anatolia, dove il tasso di disoccupazione è più elevato e la fede è un fatto. “Chi si oppone al referendum vuole un colpo di stato”, ha detto il premier all’inizio della settimana. Il capo dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, guida il Partito repubblicano (Chp) da pochi mesi ma ha già l’occasione della vita: bloccare la riforma e sfidare Erdogan al voto del prossimo anno. Kilicdaroglu ha girato il paese in pullman con i suoi consiglieri per convincere i turchi a respingere le proposte del governo. “Ogni ‘no’ sarà una medaglia sul vostro petto”, ha gridato durante un comizio nella città di Antalya. Ma gli schieramenti che si scontrano a Istanbul sono più profondi e non amano la competizione democratica, come notano molti osservatori. Uno è quello dei magistrati e dell’esercito, i poteri forti che si sono eletti eredi e difensori dell’ordinamento kemalista. L’altro comprende l’Akp di Erdogan e del presidente della Repubblica, Abdullah Gül, al potere da otto anni e deciso a modificare lo stato delle cose in nome del progresso. Il premier dice che la riforma serve a portare il paese in Europa, un processo che potrebbe cominciare nel 2015. Oggi, la Costituzione assegna compiti speciali ai militari: possono fermare qualunque governo si allontani dalla dottrina di Mustafa Kemal, il padre della patria. E’ un privilegio che hanno esercitato quattro volte nel Dopoguerra, l’ultima nel 1997 Nel 2008, una corte di Ankara ha rinviato a giudizio Erdogan, Gül e decine di esponenti dell’Akp con l’accusa di avere organizzato attività sovversive, ma il processo è terminato senza conseguenze. L’Unione europea mostra senza remore di gradire la riforma. Un portavoce della commissione per l’Allargamento ha detto ieri che l’Ue “sostiene in tutto e per tutto” gli sforzi dell’Akp. Dopotutto, con Giustizia e sviluppo la Turchia è cresciuta a una media vicina al 10 per cento ogni anno: soltanto la Cina è riuscita a fare meglio. Erdogan si è fatto fotografare persino con Bono Vox, cantante degli U2 e paladino pop dei diritti umani, per convincere la Turchia e i vicini di casa di avere sentimenti sinceramente occidentali. Kilicdaroglu, i magistrati e molti generali pensano che la verità sia un’altra. Secondo l’opposizione, sia quella che siede fra i banchi del Parlamento, sia quella che vive fra tribunali e caserme, l’Akp ha un’agenda segreta per portare le regole dell’islam nel midollo delle istituzioni turche. Questa ipotesi trova molti consensi fra gli analisti occidentali. Negli ultimi anni, Erdogan ha cercato a più riprese di ridurre il potere delle istituzioni kemaliste: ha salutato con favore le inchieste della magistratura su Ergenekon e Boyzol, due complotti che hanno messo nei guai giornalisti, politici e generali delle forze armate; ha votato una proposta per riportare il velo islamico nelle università; ha dato al paese una nuova politica estera con poco riguardo per Israele e gli Stati Uniti. Alla fine di maggio, una flotta con aiuti umanitari e squadre di fanatici è partita alla volta di Gaza per infrangere l’embargo deciso dal governo di Gerusalemme. Negli scontri con l’esercito israeliano sono morte una decina di persone, tutte di nazionalità turca. L’episodio ha portato i due paesi, due storici partner del medio oriente sin dagli anni Cinquanta, sull’orlo della rottura. Il governo non ha scelto una data casuale per il voto. Le urne aprono domani, 12 settembre, a trent’anni esatti dall’ultimo, vero, colpo di mano militare. Allora, fra i politici arrestati o costretti a lasciare il paese c’era un mentore di Erdogan, Necmettin Erbakan. Per il premier, il referendum è anche una questione privata.
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