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La Stampa Rassegna Stampa
05.09.2010 Orrore dalla Repubblica dei mullah
Il commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 05 settembre 2010
Pagina: 1
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «»

Dalla STAMPA di oggi, 05/09/2010, a pag.1/21, con il titolo " sakineh, 99 frustate per una foto non sua", il commento di Elena Loewenthal.
Al quale ci sia concesso di aggiungere alcune parole. E' questo l'Iran che vuole cancellare dalla carta geografica Israele, l'Iran che non suscita nemmeno più un corteo di femministe nè di omosessuali, le prime massacrate, i secondi impiccati nel paese dei mullah. Che odia l'America e ne brucia le bandiere, mentre l'Occidente, cieco e ipocrita, tace.
Ecco l'articolo

Novantanove frustate devono essere un’enormità di dolore. Una sequenza interminabile di fischi che fendono l’aria e subito dopo una fitta dietro all’altra, dentro la carne. Per Sakineh, sono con tutta probabilità «solo» l’anticamera di una morte terribile.

La donna iraniana colpevole di adulterio e forse di concorso nell’omicidio del marito (il vero assassino è in libertà, grida al mondo uno dei figli) è stata condannata a una pena che qui in Occidente non riusciamo neanche a immaginare. Novantanove frustate le sono state imposte per aver diffuso «indecenza e corruzione» per una foto che non è neppure sua. La lapidazione l’aspetta, grida suo figlio, per un tempo che è ormai soltanto un terribile conto alla rovescia.
La vicenda di questa donna iraniana, madre di due figli adulti, ha mosso il mondo intero: appelli e iniziative si moltiplicano ovunque - meno che nel suo Paese. Il suo volto velato di nero ci è ormai familiare: se la incontrassimo per strada la riconosceremmo. Eppure Sakineh è lontana anni luce - anzi, anni buio - dal nostro mondo. O almeno così ci sembra, finché non incontriamo quegli occhi un poco spersi, incorniciati di scuro, sul giornale, nelle gigantografie di protesta. La prima cosa che quegli occhi ci dicono vale per tutti, ai quattro angoli del mondo: la pena di morte è un obbrobrio, ovunque si trovi. E si trova eccome, dagli Stati Uniti alla Cina. Per le colpe più ambigue, per quelle più efferate, e per quelle decise da un tribunale sommario. È un obbrobrio all’indomani del delitto, e lo è se sono passati decenni. La pena di morte è una rinuncia all’umanità. Ma se, come sta succedendo per Sakineh, questa condanna s’accompagna a un’esposizione mediatica globale, allora tutto diventa ancora più terribile. Nell’impossibile condivisione di quel dolore (come si fa a immaginare quello che lei prova in questi giorni?) e nel senso di ingiustizia e nella tragica frustrazione che viene al mondo intero incapace di fare alcunché. Anzi, peggio ancora.
Perché per Sakineh ogni appello, ogni protesta, ogni parola di esecrazione sembra valere una frustata in più, come se i suoi aguzzini fossero armati di un sadismo ghignante, oltre che del loro assurdo senso di giustizia. Eppure tutto questo non ci esime dall’indignazione e dal dovere morale di fare qualcosa, visto che sappiamo. È un vicolo cieco, un terribile dilemma morale, ma non c’è modo di uscirne se non continuando a levare la voce, pur sapendo che tutto ciò costa a lei dolore in più lungo la via verso una morte assurda

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