Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/09/2010, a pag. 1-37, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " Medio Oriente. Neanche Obama fa i miracoli ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 12, gli articoli di Paola Caridi e Serena Danna titolati " Noi senza più la kefiah e l'orologio della vita " e " Nel presente di Tel Aviv la politica non è trendy ". Dal MANIFESTO, a pag. 1-10, l'articolo di Zvi Schuldiner dal titolo " Il fascismo israeliano, le divisioni palestinesi ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti :
La STAMPA - Lucia Annunziata : " Medio Oriente. Neanche Obama fa i miracoli "
Lucia Annunziata
E' curioso che fra i critici più determinati a mettere in cattiva luce i colloqui di Washington ci siano i trombettieri del pacifismo occidentale più anti-israeliano. Non che ci si apettasse molto nemmeno noi, e IC l'ha scritto molto chiaramente, ma altra cosa è l'augurarsi quasi che non ne venga fuori nulla di serio. Come fa Lucia Annunziata sulla STAMPA di oggi, 04/09/2010, in una delle sue interminabili omelie spinelliane in prima pagina e seguito a pag.37, con il titolo " Medio Oriente: nanche Obama fa miracoli".
Annunziata, partita con il Manifesto, poi corrispondente di Repubblica da Gerusalemme, infine approdata alla Stampa, non ha mai nascosto la sua antipatia per lo Stato ebraico. Che la porta a raccontare i fatti che lo riguardano, con un taglio tipo Enciclopedia Sovietica. Un esempio illuminante è come racconta in questo pezzo di oggi le guerre che Israele è stato costretto a combattere. La guerra dei sei giorni viene riassunta con questa frase " invasione e occupazione dei territori della West Bank", così, senza una parola della cornice nella quale si svolsero i fatti. Israele invade e occupa. La guerra del 1973, l'attacco degli stati arabi nel giorno di Kippur, che stava per travolgere le difese israeliane, viene descritta così: " Johnson vede spezzata la sua speranza di pace con la guerra del 1973, che portò il Medioriente dritto sul tavolo di Kissinger e Nixon", anche qui, così, come se Israele non aspettasse altro che fare una guerra di tanto in tanto per tenere i muscoli in allenamento.
Una teoria, quella dell'Annunziata, che porta il nome di delegittimazione, il nome di un club che ha molti membri nei media di tutto il mondo. Non dire, spesso diffama più di una menzogna.
Ecco l'articolo:
Il processo di pace fra israeliani e palestinesi è per i Presidenti americani una sorta di pellegrinaggio a Medjugorie: la regolare, sia pur quasi sempre disperata, ricerca di un miracolo. Neppure Barack Obama ha fatto eccezione a questa regola. Il suo recente tentativo di ravvivare la speranza in Medioriente convocando a Washington i leader più direttamente coinvolti nel conflitto ha ottenuto risultati definiti «modesti» anche dai più benevoli osservatori. L’accordo fra le parti consiste infatti nell’essersi accordati ad incontrarsi ogni due settimane - il prossimo incontro è per il 14 e il 15 settembre - per la durata di un anno, nella promessa che in un anno «si raggiungerà la pace». Il primo ostacolo si profila già per il 26 settembre. In quella data scade la moratoria sulla costruzione degli insediamenti, e Israele non avrebbe intenzione di prolungarla.
Quello che rimane della due giorni di Washington è dunque solo una domanda: perché mai questi colloqui sono stati convocati? E forse la parte più interessante dell’appuntamento è proprio il tipo di risposta che comincia a circolare: forse il metodo (oltre che il merito) dei colloqui di pace in Medioriente ha fatto il suo tempo. In epoca di leadership deboli, quale è - a dispetto di tutti i suoi ammiratori - anche quella di Obama, forse gli Stati Uniti non sono più i migliori mediatori.
Prima di arrivare ad esplicitare questi dubbi, va ricordato che l’intervento americano in Medioriente ha, in politica estera, una forte valenza narrativa. Lo racconta molto bene William Quandt, membro del National Security Council, nella riedizione aggiornata di un suo libro, un classico per il settore: «Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict Since 1967». L’intervento Usa in Medioriente è, vi viene ricordato, relativamente nuovo, ma ha un alto impatto simbolico. Dal primo coinvolgimento diretto nella questione arabo-israeliana di Lyndon Johnson, che nel 1967 appoggiò l’invasione e occupazione dei Territori della West Bank, fino all’Obama di oggi, il ruolo americano è una lunga catena di speranze, successi, e delusioni.
Johnson vede spezzata la sua speranza di pace con la guerra del 1973, che portò poi il Medioriente dritto sul tavolo di Kissinger e Nixon, essi stessi ben altrimenti occupati dal conflitto in Vietnam. L’idea di un negoziato americano nasce, nota Quandt, tuttavia, proprio dal metodo che porta alla fine del Vietnam - l’idea appunto di un tavolo di trattative in cui gli americani siano la forza propulsiva. Il primo successo di questo approccio lo coglie Carter, con il Camp David del 1978, in cui Begin ed Anwar Sadat si stringono la mano. I due leader ricevono il Nobel per la Pace, ma nemmeno quel successo dura: la presidenza Carter è oscurata dalla crisi iraniana, e nell’era Reagan, l’assassinio di Sadat nel 1981, poi l’uccisione di 242 marines a Beirut nel primo suicidio bomba della storia, infine lo scandalo Iran-Contras, chiudono definitivamente l’era di Camp David. Vi riproverà il primo Bush, con la shuttle diplomacy inventata da James Baker, che porterà alla conferenza di pace di Madrid, e i cui frutti saranno colti da Bill Clinton con gli accordi di Oslo del 1993. Le guerre non si fermano. Nel 2000 prima di chiudere il suo secondo mandato Clinton rifarà un tentativo, che verrà ricordato solo per la cerimonia che scimmiotta il primo Camp David. C’è poi un secondo Bush, il cui lavoro finirà nel mare magno della doppia guerra nel Golfo (Iraq e Afghanistan). Infine Obama, il cui segretario di Stato e un altro Clinton, Hillary, che della pace con il mondo musulmano ha fatto la più rilevante promessa della sua campagna elettorale.
Sulla strada di questa pacificazione Obama si è molto impegnato. Va ricordato il suo discorso al Cairo, il primo fatto in territorio musulmano da un presidente Usa; il ritiro dall’Iraq, e quello, promesso, dall’Afghanistan; ma anche la decisione di dare via libera alla moschea vicino al sito dell’11 Settembre. Per questo lavoro Obama ha anche pagato dei costi: primo fra tutti una crescente tensione con Israele, che fin dall’inizio ha guardato alle sue attività mediorientali come a una presa di distanza, nei fatti, dalla tradizionale amicizia senza se e senza ma fin qui esistita fra Israele e Washington. Ma il dossier Palestina-Israele è cresciuto, comunque, nei mesi passati: gli Usa hanno ottenuto un isolamento parziale di Hamas, nella West Bank hanno rafforzato la leadership palestinese moderata che sta costruendo un primo abbozzo di Stato; dalla stessa Israele, nel bene o nel male, hanno ottenuto la moratoria sugli insediamenti.
Eppure, come si è visto in questi giorni chiaramente, il processo di pace rimane sempre più «un processo», e sempre meno «pace».
Si torna così alla domanda: perché allora convocare questi appuntamenti? La risposta tradizionale, cui si accennava sopra, non è più sufficiente. L’impegno in Medioriente è un «obbligo» per la politica estera americana, e i colloqui danno ai presidenti lustro, specie in periodi di difficoltà politiche. Ma l’altalena storica di successi e insuccessi è ormai probabilmente troppo lunga persino per i meglio intenzionati. Un’atmosfera di scetticismo accompagna ormai, infatti, questi incontri: gli stessi leader che vi intervengono non nascondono i loro (mal)umori.
Sfogliando il dibattito politico a più ampio raggio, si ha l’impressione che da questa impasse stia emergendo un ripensamento dell’intero approccio. Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia in Israele, ed ex negoziatore israeliano, due giorni fa ha scritto in merito una riflessione che punta dritto al cuore del problema. Ricordo - scrive - che siamo riusciti non poco tempo fa a stendere 500 pagine di accordi dettagliati in cui tutte le questioni venivano risolte, ma le 500 pagine sono rimaste lettera morta. Perché? La risposta è semplice e difficile insieme: la pace non è un negoziato, dice Beilin, la pace è un atto politico.
Gli fa eco un altro ex negoziatore, Aaron David Miller che è stato a lungo consigliere sul Medioriente per segretari di Stato sia repubblicani che democratici. Miller, che ha scritto «The Much Too Promised Land: America’s Elusive Search for Arab-Israeli Peace», è intervenuto sul numero di maggio-giugno di Foreign Policy denunciando la sua sfiducia in quella che secondo lui, negli anni, è diventata una convinzione quasi religiosa: «L’America ha usato il suo potere per fare guerre, può dunque usarlo anche per fare la pace. Ne ero un credente. Oggi non lo sono più».
Le ragioni di questa sua disillusione vanno probabilmente lette - da chi volesse saperle - direttamente su Foreign Policy. Quello che davvero rimane del suo intervento sono i dubbi che innesta nelle sicurezze fin qui coltivate: «Il vecchio modo di pensare su come costruire la pace vale ancora oggi in un nuovo contesto? Il conflitto arabo-israeliano è davvero al centro di tutto? E, dopo due decenni di grandi speranze seguite da violenza e terrore, possiamo davvero credere che le negoziazioni servono? Infine, davvero l'America ha il potere di fare la pace?».
In assenza di risposte, la grande politica mondiale rimane in stand by.
Il SOLE 24 ORE - Paola Caridi : " Noi senza più la kefiah e l'orologio della vita"
Paola Caridi
Paola Caridi descrive i negoziati visti dal punto di vista della popolazione palestinese e scrive : " a parlare con i ragazzi tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, il loro rapporto con il futuro ha spesso il sapore di una parola ebraica che risuona nelle conversazioni in arabo. "Machsom", ovvero check point, e tutto ciò che ne consegue. Barriera, fila, perquisizione, controllo documenti. ". Certo, la barriera di sicurezza, i check point, i controlli, creano disagio. Se Caridi fosse interessata a informare il lettore, però, specificherebbe per quale motivo sono necessari. La barriera è nata con lo scopo di difendere la popolazione israeliana dagli attacchi suicidi palestinesi. Quando e se non sarà più necessaria, verrà rimossa. Proprio come è successo poche settimane fa a Gilo.
Caridi continua : " L'attentato contro i coloni di Beit Haggai, martedì scorso nella zona di Hebron per mano del braccio armato di Hamas, ha alzato il livello della sicurezza nell'estate cisgiordana. Ma i controlli ci sono da anni, e negli ultimi tempi, dicono i palestinesi, sono diventati ancor più pesanti ". verificare le affermazioni delle proprie fonti aiuterebbe a evitare certi sfondoni. Il governo israeliano, poche settimane fa, oltre ad abbattere la barriera a Gilo, ha eliminato diversi checkpoint in Cisgiordania, come segnale di distensione con l'Anp. E' difficile, perciò, sostenere che i controlli fossero diventati più pesanti prima dell'attentato.
"C'è pudore nelraccontare queste cose. Non lo fanno i ragazzi. Semmai lo fanno le madri. Come Joharah Baker, 40 anni, giornalista, opinionista, una penna dell'intellighentia laica, una casa in Città Vecchia, e soprattutto un figlio maschio di dieci anni a cui ha dedicato un lungo articolo.
«Come ogni madre palestinese che vive nei Territori occupati, la paura onnipresente è essere capaci di proteggere i propri bambini», ". Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale unica e indivisibile di Israele, perciò non è ben chiaro come Joharah Baker possa definirsi 'madre palestinese che vive nei Territori occupati'.
Caridi scrive : " E allora molti di loro, che appunto giovani sono, hanno introiettato - attraverso la storia delle campagne di pressione via internet - un tipo di impegno politico da Terzo Millennio. Lobbying, boicottaggi, azioni non violente, pressioni all'estero per premere sui politici non solo israeliani, ma soprattutto palestinesi.
È la generazione del boicottaggio dell'occupazione.". Fanno parte delle azioni non violente anche le sassaiole e gli attentati contro gli israeliani?
Come scrive Caridi nel suo pezzo, uno dei maggiori sostenitori del boicottaggio contro Israele è Marwan Barghouti, terrorista pluriassassino e architetto della seconda intifada. Questo dovrebbe essere sufficiente per comprendere quale sia lo scopo principale del boicottaggio.
Ecco il pezzo:
Al futuro? «I palestinesi, giovani compresi, non ci pensano», è la scarna risposta di Najwan Darwish, uno dei poeti più interessanti della giovane generazione palestinese. Di quelli che a 32 anni, gli incerti confini della Palestina li ha già varcati. E può considerarsi fortunato per essere andato all'estero. La spiegazione di Najwan Darwish, autore di poemi surreali e forti, è altrettanto sintetica: «È l'occupazione israeliana che limita la loro percezione del futuro».
Potrebbe sembrare una frase retorica, ma a parlare con i ragazzi tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, il loro rapporto con il futuro ha spesso il sapore di una parola ebraica che risuona nelle conversazioni in arabo. "Machsom", ovvero check point, e tutto ciò che ne consegue. Barriera, fila, perquisizione, controllo documenti.
Soprattutto in questo periodo, verso Gerusalemme,perché è ramadan e l'elenco delle richieste per poter andare a pregare alla Moschea di Al Aqsa è lungo tanto quanto le attese di ore ai checkpoint.
L'attentato contro i coloni di Beit Haggai, martedì scorso nella zona di Hebron per mano del braccio armato di Hamas, ha alzato il livello della sicurezza nell'estate cisgiordana. Ma i controlli ci sono da anni, e negli ultimi tempi, dicono i palestinesi, sono diventati ancor più pesanti.
Lo si percepisce anche nel cuore di Gerusalemme, segnata in questi giorni dai passi dei pellegrini cristiani, dal traffico del ramadan musulmano e dalle ultime spese prima delle lunghe festività ebraiche. Periodo difficile, come ogni anno, in cui la presenza dei soldati israeliani alle porte della Città Vecchia aumenta.
Controllo documenti intensificato, dunque, e nove volte su dieci, a essere fermato, è un adolescente, un ragazzo, uno sotto i 25 anni. Sono considerati i più a rischio, dopo la lunga stagione degli attentati suicidi nelle città israeliane. Ma quella scena ripetuta costantemente, ragazzi in divisa che fermano ragazzi in jeans, è diventata parte del Dna contemporaneo di Gerusalemme.
E parte della vita quotidiana e del senso del futuro che i giovani palestinesi hanno. Arriverò in orario al lavoro? Sarò fermato? Sarà meglio scegliere un'altra strada? Sarò arrestato?
C'è pudore nelraccontare queste cose. Non lo fanno i ragazzi. Semmai lo fanno le madri. Come Joharah Baker, 40 anni, giornalista, opinionista, una penna dell'intellighentia laica, una casa in Città Vecchia, e soprattutto un figlio maschio di dieci anni a cui ha dedicato un lungo articolo.
«Come ogni madre palestinese che vive nei Territori occupati, la paura onnipresente è essere capaci di proteggere i propri bambini», dice riferendosi ad alcuni arresti di minori negli ultimi mesi.
Il sogno di una vita normale, insomma, c'è in tutti. Anche nei ragazzi palestinesi. Molti dei quali all'estero, come Najwan Darwish o la folta pattuglia di studenti, registi, artisti, non ci sono andati. E vivono tra Ramallah e Betlemme, Nablus e Jenin, a Gaza, con un orizzonte forzatamente limitato.
Vorrebbero anche una politica normale, uno stato, un paese. Come tutti. Motivo per il quale i negoziati di Washington non sono passati come acqua sull'olio. Anzi. Proprio perché la politica incide sulla loro vita quotidiana, a parlare di politica sembra siano oggi più ragazzi di prima.
«Non so quanto durerà, ma da settimane sento i miei amici, quelli che prima si disinteressavano delle questioni politiche, parlare di negoziati, del presidente Mahmoud Abbas, dei nostri leader», dice uno di quelli impegnati,meno di trent'anni e un lavoro buono in una Ong.
Vero. Di politica e dei negoziati si parla con durezza, su Facebook, sui forum, nelle università. In maggioranza contro i negoziati, perché si pensa che non andranno da nessuna parte e che i leader che li stanno conducendo non rappresentano la società.
Not in my name , dunque. Con tanto di caricature al fulmicotone di Abu Mazen e dell'establishment politico in giro per la Rete, in fotomontaggio e con i pantaloni abbassati.
Tutti laici, i protagonisti di questa opposizione che non crede più alla soluzione dei due stati, non perché sia contro la pace e contro il divorzio consensuale di cui parla Amos Oz. Piuttosto, pensano che non sia più realizzabile sul terreno, perché le colonie crescono e di quelle si parla pochissimo.
E allora molti di loro, che appunto giovani sono, hanno introiettato - attraverso la storia delle campagne di pressione via internet - un tipo di impegno politico da Terzo Millennio. Lobbying, boicottaggi, azioni non violente, pressioni all'estero per premere sui politici non solo israeliani, ma soprattutto palestinesi.
È la generazione del boicottaggio dell'occupazione. I negoziati? «Io li chiamerei negazioni, piuttosto, perché negano il riferimento fondamentale al diritto internazionale e ai diritti umani», chiosa Omar Barghouthi, l'anima della campagna sul boicottaggio e i disinvestimenti dalle aziende israeliane che lavorano con le colonie.
È un linguaggio politico di uso comune in Europa, in America, oltre il Medio Oriente.
Il SOLE 24 ORE - Serena Danna : " Nel presente di Tel Aviv la politica non è trendy "
Serena Danna
Mentre il pezzo di Paola Caridi metteva in mostra l'impegno politico dei giovani palestinesi, quello di Serena Danna mette in luce solo l'apatia della società dei giovani israeliani, specialmente a Tel Aviv : "Le nuove generazioni sono ossessionate dal presente, e il presente molto spesso si riduce a sesso, clubbing e alcolici ". Questo è Israele, per Serena Danna. Sesso, clubbing e alcolici. Netto contrasto con la virtù dei giovani palestinesi, non c'è che dire. In tutto l'articolo si legge quanto siano apatici e incapaci di reagire i giovani israeliani. Leggendo il pezzo di Danna e quello di Caridi si evince che le uniche cose che sono in grado di fare gli israeliani sono fare il militare, fare sesso, ubriacarsi e tormentare la popolazione palestinese con controlli di documenti, check point e barriera di sicurezza. Non è ben chiaro in base a che cosa Danna abbia potuto scrivere delle cose simili. La cultura, la ricerca, il lavoro, sono argomenti toccati solo di sfuggita nel pezzo e solo per avvalorare la tesi che quella israeliana sarebbe una società felice solo in apparenza, tornati a casa dal lavoro, gli israeliani non si interessano di ciò che gli accade intorno, ma preferiscono ubriacarsi nei bar o chiacchierare di argomenti superficiali col vicino di casa.
Danna, per convincere il lettore della sua tesi, riporta le dichiarazioni di alcuni israeliani critici col loro Stato e coi giovani : "Non so dove sarò tra dieci anni, probabilmente Israele non esisterà più perché distrutta da una bomba atomica ma, anche se continueremo a esistere, che paese avremo? Se non costruiamo una società critica e liberale, corriamo il rischio di lasciare Israele nelle mani di estremisti religiosi. Sono loro che riempiono le piazze, mentre noi beviamo il caffè". Ecco il nodo centrale del pezzo. Israele sta piombando in un baratro ed è per colpa sua, perchè i suoi cittadini non sono abbastanza critici, preferiscono lasciare lo Stato in balia degli estremisti religiosi'.
L'Iran, Hamas, Hezbollah, la Siria non vengono menzionati, evidentemente non sono loro la vera minaccia per Israele...
Ecco l'articolo:
«Hai mai sentito parlare della sindrome di Tel Aviv?», chiede Shira mentre, creando piccoli cerchi di fumo con la bocca, cerca di spiegare ai suoi interlocutori storditi dal gin tonic pomeridiano, cosa significhi vivere nella città israeliana.
«Qui avere avventure è la cosa più facile del mondo, ma quando arriva la mattina, un buon caffè e arrivederci. Non si richiama quasi mai. Una volta, dopo aver trascorso la notte con un ragazzo, gli ho chiesto se voleva pranzare con me e lui ha detto: "Scusami ma ho la sindrome"».
«Beh - interviene Jean, che ha appena vinto una borsa di studio all'Università di Tel Aviv e si atteggia già a professore - come New York negli anni Ottanta o Parigi e Londra durante i Settanta?».
«Lì si trattava di libertà sessuale, promiscuità, rivoluzione... - chiarisce Shira con tono calmo e sensuale - , per noi è diverso: è impossibile immaginare una relazione stabile quando sai che un missile o un kamikaze possono colpirti da un momento all'altro».
Benvenuti a Tel Aviv 2010, la patria del presente continuo.
La ripresa dei negoziati di pace tra Israele e Palestina non è nell'agenda dei giovani che, come la biondissima Shira, affollano dalla mattina alla sera i bar. «Una bolla», come la chiamano nel paese (e a cui il regista israeliano Eytan Fox ha dedicato il film
The Bubble ), che rimbalza su territori occupati e grandi questioni internazionali: «I giovani non credono più che le cose possano cambiare - spiega al tavolo del ristorante Suzana, lo scrittore 33enne Ron Leshem, diventato famoso in tutto il mondo con il libro Tredici soldati (Rizzoli).
«Sono stanchi di guerra, news, politica. Hanno perso qualsiasi speranza nel futuro, vivono alla giornata».Leshem,uno dei primi ariportare l'orrore della guerra e le contraddizioni della realtà nella narrativa israeliana, racconta che i suoi coetanei sono chiusi nell'individualismo: «Le nuove generazioni sono ossessionate dal presente, e il presente molto spesso si riduce a sesso, clubbing e alcolici».
Dan Kolodny gestisce uno dei locali più frequentati della città, il Mendelimus ad Hayarkon, cuore della vita notturna di Tel Aviv. Dan accoglie in media 500 clienti a sera. Ti guarda distratto e racconta che nella bolla non c'è differenza tra i giorni della settimana: «I ragazzi vogliono divertirsi e sono disposti anche a spendere tanto. Un cocktail qui costa 12 dollari».
Con un Pil pro capite di 27mila dollari e una media annua di crescita del 7%, l'economia israeliana è solida. Non è la crisi a fare paura.
«Fino ai 40 anni gli israeliani devono trascorrere ogni anno un periodo nell'esercito: quando tornano hanno bisogno di disconnettersi completamente dalla realtà », spiega Dan.
Anche per questo certe parole sono tabù nei locali di Neve Tzedek. Molti se ne infischiano, altri, come Leshem, sono indignati: «Mi vergogno di parlare di politica o di guerra per strada, non è cool. A venti minuti di macchina dal bar dove stai bevendo una vodka ci sono territori occupati e ingiu-stizie, ma nessuno sembra accorgersene». Un'indifferenza che si riscontra anche a Gerusalemme. Adi Nes, noto fotografo israeliano, racconta che ai piedi della collina dove ha sede la Bezalel Academy of Arts and Design, vivono famiglie palestinesi. «Sono trasparenti per studenti e insegnanti, perché anche nelle scuole si pensa solo a quello che accade nelle aule e non fuori».
Nes è più clemente di Ron con i giovani del suo paese: «È una generazione che si ribella alla realtà, vogliono vivere come se si trovassero in qualsiasi altra capitale occidentale ».Secondo un report del2007,citato dall'ultimo numero di Time, il 97% degli ebrei di Israele si definirebbe felice, di questi un terzo molto felice. «Nel paese - dice Nes - non esiste una via di mezzo: viviamo sospesi tra una felicità apparente, che si nutre di qualità della vita, divertimenti, hi-tech, e un'infelicità che mangia tutto all'improvviso. Sono quasi tre anni che non ci sono attentati in Israele ma appena qualcosa andrà storto ricadremo nel terrore».
La paura non se ne va mai. Nes lo dice in maniera semplice e diretta: «È viva nella testa e nella storia del nostro paese».
Maya Chen, che ha 30 anni e da dieci vive nel quartiere arabo di Jaffa, non si vergogna del fatto che quando finisce di lavorare come videoeditor preferisce chiacchierare con le amiche al mercato delle pulci piuttosto che leggere le news: «Parliamo di guerra e pace fin da bambini, quando diventiamo grandi siamo stanchi... La maggior parte dei media poi sono controllati dal governo che manipola le informazioni. Preferisco non guardarle allora».
Nella città che ha il numero di polizze assicurative sulla vita più basso d'Occidente, insieme alla voglia di diventare adulti anche le usanze più antiche stanno scomparendo: «La sera prima dello Shabbat è tradizione cenare con la famiglia, ma a Tel Aviv da qualche anno va di moda aspettare la festa giocando a poker», racconta Maya.
Un approccio alla vita che fa molta paura a Ron Leshem. «Non so dove sarò tra dieci anni, probabilmente Israele non esisterà più perché distrutta da una bomba atomica ma, anche se continueremo a esistere, che paese avremo? Se non costruiamo una società critica e liberale, corriamo il rischio di lasciare Israele nelle mani di estremisti religiosi. Sono loro che riempiono le piazze, mentre noi beviamo il caffè».
Il MANIFESTO - Zvi Schuldiner : " Il fascismo israeliano, le divisioni palestinesi"
Zvi Schuldiner
Il titolo dell'articolo si intona con il suo contenuto, un insieme di valutazioni che oggi nemmeno più L'Anp sostiene.
Schuldiner scrive : " Il primo ministro israeliano Netanyahu ripete un po’ ciò che aveva fatto il suo predecessore Barak nel 2000: dimostrare, sforzandosi soltanto un po’, che la paralisi del processo di pace è colpa della posizione dei palestinesi. Il premier palestinese Abbas si trascina all’incontro come lo fece, a suo tempo, Arafat: sa che non succederà niente di serio o di sostanza, ma non può smettere di giocare". Nel 2000 lo scopo di Barak era trovare un accordo coi palestinesi, non dimostrare la loro responsabilità per il fatto che i processi di pace precedentemente avviati erano falliti. 'Trasciarsi' non è il verbo adatto a descrivere l'atteggiamento di Arafat. Il terrorista capo dell'Olp semplicemente rifiutò tutte le offerte israeliane. Ciò che interessava ad Arafat non era uno Stato palestinese, ma la distruzione di Israele.
Nel corso dei negoziati del 2000, gli Usa proposero una soluzione che prevedeva che Israele cedesse ai palestinesi il 97% della Cisgiordania, il ritiro completo da Gaza, contiguità territoriale in Cisgiordania e un collegamento diretto con Gaza con un'autostrada e una ferrovia sopraelevate, i quartieri arabi di Gerusalemme est allo Stato palestinese, diritto al ritorno dei profughi nello Stato palestinese. Mentre Israele accettò la proposta, Arafat la rifiutò.
Schuldiner non accusi Barak di aver fatto di tutto per boicottare i negoziati, quando l'unico a farlo fu Arafat.
Schuldiner scrive : " Hamas potrebbe appoggiare silenziosamente i negoziati se intravedesse la possibilità di un risultato pratico, ma teme che che se Abbas e l’Olp conseguissero un progresso reale, ciò li rafforzerebbe nella politica interna palestinese.". Hamas non appoggia mai per nessun motivo i negoziati, per due semplici motivi: 1) non riconosce l'Anp, 2) il suo intento principale è cancellare Israele, non trattare.
Schuldiner individua quelli che, secondo lui, sono gli elementi che renderanno efficaci i negoziati: " Il primo è un cambiamento reale e non solo verbale e demagogico degli intenti colonialisti di Israele, quindi una vera predisposizione alla pace che non nasconda sofisticati sotterfugi per continuare l’occipazione con mezzi più «sottili». Il secondo elemento riguarda la frammentazione della società palestinese, la lotta interna tra l’Olp e Hamas alimentata tra l’altro da diversi paesi arabi. Il terzo è altrettanto importante e serio: non c’è ancora stato un reale cambiamento nella politica degli Stati uniti e di altri paesi occidentali, che continuano ad appoggiare in un modo o nell’altro l’espansionismo israeliano.". Per quanto riguarda il primo punto, le responsabilità israeliane, chiediamo a Schuldiner di essere più specifico e indicare (con sincerità, non in base a opinioni personali non suffragate dai fatti), in quali occasioni Israele si sarebbe opposto alla pace. Per quanto riguarda, invece, la politica di Obama, è difficile sostenere che sia di totale appoggio a Israele. Se con questo Schuldiner intende che Obama non ha chiesto ad Israele di autodistruggersi per fare contento Hamas, allora sì, ha ragione, Obama appoggia Israele. Per il resto, non si può sostenere che non ci sia stato un cambiamento nell'atteggiamento degli Usa nei confronti di Israele da quando Obama è presidente.
Ecco l'articolo:
Il grande show di Washington riflette più i problemi e le necessità del Medio oriente che un reale processo di pace. Dopo essersi guadagnato critiche favorevolima forse frettolose quando sembrava interessato a un processo di pace diverso da quello sperimentato in passato, ora il presidente degli Stati uniti Obama sostanzialmente cerca solo di assicurare un periodo di pace per le prossime elezioni americane. Il primoministro israeliano Netanyahu ripete un po’ ciò che aveva fatto il suo predecessore Barak nel 2000: dimostrare, sforzandosi soltanto un po’, che la paralisi del processo di pace è colpa della posizione dei palestinesi. Il premier palestinese Abbas si trascina all’incontro come lo fece, a suo tempo, Arafat: sa che non succederà niente di serio o di sostanza, ma non può smettere di giocare. Obama cercherà di segnare qualche punto in vista di elezioni la cui questione centrale sarà, con ogni probabilità, una politica economica che aiutamolto il settore finanziario e lascia i salariati e i disoccupati ai loro problemi. Il neoliberalismo, che ha già rafforzato la linea di Reagan negli anni di Clinton, continua a imporsi, più o meno con gli stessi improbabili personaggi in campo economico. Alla guida di una coalizione di estrema destra, Netanyahu manterrà la paralisi che ha già caratterizzato i negoziati del governo precedente: la posizione israeliana è la piena continuità di un processo coloniale che, continuando così, minaccerà il futuro di Israele più di qualunque bomba iraniana, reale o immaginaria. In Israele non si sono registrati cambiamenti essenziali e il predominio del nazionalismo estremo, alleato a forti correnti fondamentaliste, simanifesta nella forma di un crescente deterioramento della società. Forme di maccartismo e di razzismo si coniugano in maniera tale che la xenofobia ormai si manifesta in forme da essere divenuta l’ostacolo più formidabile per qualsiasi reale negoziato di pace. La pace e il fascismo israeliano diventano un binomio antagonista, e in modo brutale. I diversi elementi della grande coalizione nazionalista-fondamentalista e neofascista rappresentano il vero nemico di una pace possibile e alimentano gli elementi più radicali, non solo nella società palestinese ma in tutto il mondo arabo. Nel frattempo all’interno della società palestinese diventa chiaro, molto chiaro, che senza una riunificazione nazionale palestinese i negoziati non sono più che un teatrino diplomatico privo di alcun significato. Il presidente Abbas non rappresenta altro che un pugno di leader che non godono nemmeno dell’appoggio del loro stesso partito. Hamas potrebbe appoggiare silenziosamente i negoziati se intravedesse la possibilità di un risultato pratico, ma teme che che se Abbas e l’Olp conseguissero un progresso reale, ciò li rafforzerebbe nella politica interna palestinese. La maggior parte della popolazione palestinese è stanca della guerra e appoggerebbe una soluzione diplomatica di compromesso, ma le attuali divisioni nella sua leadership rendono molto difficile presentare una proposta forte nei negoziati. Fondamentalmente, tre elementi sono necessari per arrivare a un vero processo di pace. Il primo è un cambiamento reale e non solo verbale e demagogico degli intenti colonialisti di Israele, quindi una vera predisposizione alla pace che non nasconda sofisticati sotterfugi per continuare l’occipazione con mezzi più «sottili». Il secondo elemento riguarda la frammentazione della società palestinese, la lotta interna tra l’Olp e Hamas alimentata tra l’altro da diversi paesi arabi. Il terzo è altrettanto importante e serio: non c’è ancora stato un reale cambiamento nella politica degli Stati uniti e di altri paesi occidentali, che continuano ad appoggiare in un modo o nell’altro l’espansionismo israeliano. Questi elementi sono le condizioni fondamentali, senza di cui il teatri di Washington non potrà trasformarsi un un vero negoziato di pace. Peggio ancora: similmente all’anno 2000, questo potrebbe essere il preludio a un nuovo spargimento di sangue, magari dopo le elezioni di novembre degli Stati uniti.
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