Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/09/2010, a pag. 39, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Anche la cucina ebraica ha la sua bibbia ".
Elena Loewenthal, Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica (La Giuntina, pp. 416, € 25)
Benché siano entrambe dei concentrati di istinto e prepotenza affettiva, corre una sottile differenza fra la mamma italiana e quella ebrea (tradizionalmente detta yidishe mame e fornita di un’ampia mitologia tutta vera). Mentre la prima minaccia il pupo inappetente con un semplice: «Se non finisci il piatto, ti uccido!», la seconda usa un’arma assai più sofisticata ed insidiosa: «Se non mangi, mi uccido…».
Vecchie battute a parte, da sempre il cibo rappresenta per la donna ebrea non solo un’attività quotidiana, ma anche e soprattutto un’arma - innocua e proficua - per segnare l’identità. Perché mangiare «alla giudea» non è un atto puramente materiale né edonistico: è una dichiarazione di appartenenza, un esercizio di memoria e un atto di ottemperanza alla legge. La Bibbia, e in particolare la Torah (cioè il Pentateuco) si dilunga infatti sul regime alimentare, spiegando a Mosè e agli israeliti che cosa è lecito mangiare e che cosa no. Ampie digressioni sulle carni - sì ad animali con l’unghia fessa e ruminanti, cioè bovini e ovini, no a maiale, cavallo o aquila, no a insetti, rettili e anfibi e a tutto ciò che vivendo in acqua non è ben chiaro cosa sia (molluschi e crostacei, ad esempio). Precisazioni umanitarie - vietato mangiare l’agnello cotto nel latte di sua madre - che si trasformano in una generica proibizione a consumare carne e latticini nello stesso pasto. Regole per il rispetto delle primizie e del riposo delle colture nei campi.
La cucina ebraica è segnata da una vastità di limitazioni. Ma sono stati proprio i vincoli a solleticare la fantasia e svegliare l’ingegno della massaia che, districandosi in questa selva di proibizioni, ha saputo creare ai quattro angoli del mondo non una ma mille diverse cucine ebraiche, ricche di sapori e profumi. E oggi il pubblico può nuovamente disporre di quella che, con licenza parlando, viene considerata la Bibbia della cucina ebraica in italiano o, per essere più precisi, l’Artusi di noialtri (nel senso degli ebrei): Giuliana Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica (La Giuntina, pp. 416, € 25). Il libro è in uscita il 5 settembre, in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, che per quest’anno ha come fil rouge il tema dell’arte. Niente affatto a caso, trattandosi di cibo nelle sue più varie declinazioni, che spaziano dal polpettone di tacchino (antica ricetta piemontese) al celeberrimo Gefillte Fish (polacche polpette di pesce), dalle palline di azzima alla Shakshuka (sformato di uova e verdure alla maghrebina), dagli zuccherini per Pasqua al carciofo fritto.
Il cibo ebraico è infatti tanto delimitato dai divieti quanto capace di spaziare nella geografia fisica e umana: ovunque sia arrivata, la diaspora d’Israele ha infatti assorbito usanze, sapori e ingredienti. Gli ebrei mitteleuropei, sterminati dal nazismo, si cibavano di bortsch e stufati, rafano e della immancabile gelatina di piede di vitello con ricche dosi d’aglio. Al di là del Mediterraneo, sulle tavole ebraiche arrivavano invece riso con uvetta, grandi verdure ripiene, cous cous in mille modi. Quest’ultimo, poi, è approdato a Livorno lungo le rotte commerciali che univano il Mare Nostrum e stabilivano comode vie di comunicazione fra le comunità ebraiche; perciò, come racconta l’Artusi, da secoli gli ebrei toscani mangiano il cuscussù e lo preparano a modo loro.
Attraverso il cibo, la mamma ebrea impartisce ai propri figli e a tutti i commensali delle gustose lezioni di storia che si ripetono ogni anno con il ciclo delle feste e dei cibi che le segnano. A cominciare dal pane: azzimo e piatto sotto Pasqua, ma dolce e gonfio e soffice come la hallah sulla tavola del Sabato, a memoria dell’offerta di fior di farina che si porgeva al Tempio di Gerusalemme. La cucina ebraica è un mondo a sé, anzi sono tanti mondi diversi che si parlano attraverso i sapori e le lunghe preparazioni (altro che fast food!), ma senza alcun mistero. Pur essendo vissuta per millenni entro le mura dei ghetti, è una finestra aperta che non ha segreti da conservare gelosamente, bensì infinite storie che si raccontano, come in questo prezioso libro, da una ricetta all’altra.
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