Iniziano oggi i negoziati tra Israele e palestinesi Cronache di Maurizio Molinari, Aldo Baquis. Commenti di R. A. Segre, Antonio Ferrari, Piero Fassino, Ariel David, Paola Caridi
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - Il Giornale - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - Aldo Baquis - Antonio Ferrari - Piero Fassino - R. A. Segre - Paola Caridi - Ariel David Titolo: «Barak: 'Gerusalemme si può dividere'. Il Likud subito lo smentisce, o forse no - La grande occasione di Israele e palestinesi - Un compromesso oggi è possibile - Israele parla di pace ma pensa all’economia - La leggenda del grande cucitore»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/09/2010, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama: il terrore non fermerà gli sforzi di pace ", a pag. 5, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Barak: 'Gerusalemme si può dividere'. Il Likud subito lo smentisce, o forse no ", l'articolo di Paola Caridi dal titolo " I terroristi uccidono e noi costruiamo case ", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-12, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " La grande occasione di Israele e palestinesi ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 9, l'articolo di Piero Fassino dal titolo " Un compromesso oggi è possibile ", preceduto dal nostro commento. Dal GIORNALE, a pag. 14, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " Israele parla di pace ma pensa all’economia ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Ariel David dal titolo "La leggenda del grande cucitore", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama: il terrore non fermerà gli sforzi di pace "
Maurizio Molinari
«Possiamo farcela in un anno, è un’opportunità da non perdere»: nel segno di un cauto ottimismo Barack Obama dà inizio al summit sul Medio Oriente che vedrà oggi i leader di Israele e Autorità nazionale palestinese cominciare al Dipartimento di Stato trattative che restano circondate da reciproche attese molto basse. Il negoziato preparato dal mediatore Usa George Mitchell punta a raggiungere l’intesa sullo status finale - confini, sicurezza, profughi e status di Gerusalemme - entro 12 mesi, ma a complicarne il debutto è stato l’attentato di Hamas nei pressi di Hebron nel quale sono stati uccisi quattro israeliani. Le prime ore a Washington di Abu Mazen e Benjamin Netanyahu hanno visto gli Stati Uniti impegnati a disinnescare l’impatto dell’attentato. Abu Mazen ha saputo delle vittime mentre era nel suo hotel impegnato nel colloquio iniziale con il Segretario di Stato, Hillary Clinton. «Si è mostrato molto irritato con Hamas», ha raccontato un diplomatico. Seduta stante Abu Mazen ha scritto, con Hillary presente, il comunicato di «dura condanna», ordinando alle forze di sicurezza l’arresto di centinaia di militanti nei Territori. Poco dopo sono stati il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca a esprimere «una fermissima condanna». Ma Obama ha deciso di andare oltre e, modificando il programma della giornata, si è presentato di fronte alle telecamere sotto il colonnato della Casa Bianca assieme al premier di Gerusalemme per parlare all’unisono contro Hamas. «La tragedia delle quattro persone uccise dai terroristi che vogliono minare questi colloqui - sono state le parole di Obama - dimostra che ci sono degli estremisti che anziché la pace perseguono la distruzione ma devono sapere che il sostegno degli Stati Uniti per la sicurezza di Israele è incrollabile». Da qui il monito: «Il messaggio per Hamas e chiunque altro compia tali atti odiosi è che non ci fermeranno». Netanyahu ha aggiunto: «Le quattro vittime e i nuovi sette orfani sono stati causati da gente che non rispetta la vita umana, le parole di Obama esprimono il nostro desiderio di combattere il terrore e porre fine al conflitto una volta per tutte. Abbiamo discusso le clausole di sicurezza per prevenire atti contro Israele». Subito dopo Obama ha continuato il colloquio con il premier per poi ricevere in rapida successione Abu Mazen, il presidente egiziano Hosni Murabarak e il re giordano Abdallah concordando la piattaforma di una trattativa che, secondo Mitchell, «questa volta può riuscire». I quattro leader ospiti hanno quindi partecipato alla cerimonia nel Giardino delle Rose, durante la quale Obama - con a fianco Hillary e Mitchell - ha indicato l’obiettivo di una «pace durevole fra Israele e palestinesi e fra Israele e i suoi vicini», dicendo che «possiamo farcela» perché «i leader di Israele e Autorità palestinese vogliono la pace». «È il momento di cogliere questa opportunità», ha continuato. L’unico accenno critico è stato rivolto alle «nazioni della regione che dicono di volere lo Stato palestinese ma non fanno molto per realizzarlo». Le aspettative da entrambe le parti restano comunque basse. I portavoce di Abu Mazen ribadiscono che «senza un rinnovo della moratoria sugli insediamenti non continueremo i colloqui», mentre nel campo israeliano si ripropongono le divisioni interne, a cominciare dallo status di Gerusalemme: il premier ha ribadito che resterà «capitale unita» dello Stato ebraico mentre il ministro della Difesa Ehud Barak ha rilanciato l’ipotesi della «divisione». Questa mattina l’appuntamento per Netanyahu e Abu Mazen è al Dipartimento di Stato con Hillary Clinton. E l’Egitto si candida a ospitare i prossimi colloqui a metà mese prima di un possibile ritorno di Netanyahu e Abu Mazen da Obama per i lavori dell’Assemblea Generale dell’Onu.A tessere il negoziato sul Medio Oriente è George Mitchell, l’ex senatore democratico già artefice dell’accordo di pace in Irlanda del Nord. Proprio sulla base di quell’esperienza Mitchell assicura di essere pronto a «incassare 700 no da entrambe le parti per ottenere l’unico sì che conta, quello all’intesa finale». E per innescare la dinamica positiva capace di produrre lo storico risultato, Mitchell inizia la maratona facendo leva su due argomenti. Primo: «Per le parti coinvolte non siglare la pace è più pericoloso che farlo». Secondo: «E’ importante sapere che abbiamo un anno a disposizione, perché infonde la convinzione che ci sarà una conclusione». Di più Mitchell, incontrando i reporter nell’Eisenhower Building, non vuole dire perché teme i «diavoli nascosti nelle parole», come suggerisce uno stretto collaboratore.
La STAMPA - Aldo Baquis : " Barak: 'Gerusalemme si può dividere'. Il Likud subito lo smentisce, o forse no "
Ehud Barak
Il tabù non esiste più: Gerusalemme può essere spartita politicamente fra israeliani e palestinesi. L'idea è stata formulata dal ministro della Difesa (e leader del partito laburista) Ehud Barak mentre il premier e leader del Likud Benjamin Netanyahu riposava a Washington. Di prima mattina «Haaretz» è uscito con un titolone spalmato su tre righe in cui sintetizzava il pensiero espresso da Barak in una lunga intervista. Ossia che nel contesto di accordi definitivi di pace Gerusalemme Ovest resterebbe ebraica mentre il settore orientale sarebbe spartito, secondo criteri demografici, fra israeliani e palestinesi. «Dodici rioni ebraici, con 200 mila abitanti, a noi; i quartieri arabi, con 250 mila abitanti, a loro». E la Città Vecchia? «Sotto regime speciale, con accorgimenti concordati- ha tagliato corto Barak - assieme con il Monte degli Ulivi e la Città di Davide». Si tratta del cosiddetto «Santo Bacino», attiguo al lato sud-orientale della Spianata delle Moschee, che include un vasto cimitero ebraico e importanti scavi archeologici vecchi di tre millenni. Ma a Washington, quando sono giunti i primi echi della sortita di Barak, nell'entourage di Netanyahu qualcuno è caduto dalle nuvole. «Gerusalemme - ha risposto il funzionario, recitando la piattaforma politica del Likud - resterà la capitale indivisibile di Israele». Subito negli ambienti politici israeliani si sono create due correnti di pensiero. La prima si basa sulla teoria del «balagan», ossia della disorganizzazione endemica anche ai vertici di governo, dove tutto è possibile. Se il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman non crede nelle trattative di pace ma resta egualmente al suo posto, si può immaginare che Barak non abbia difficoltà a lavorare alla spartizione di Gerusalemme anche se Netanyahu è contrario. La seconda teoria è quella «machiavellica»: ossia che Barak sia stato mandato avanti proprio da Netanyahu, con una strizzata d'occhio per elevare un «ballon d'essai», basato peraltro su una serie di progetti già abbondantemente discussi due anni fa, proprio con Abu Mazen, dall'allora premier Ehud Olmert. Due elementi rafforzano la tesi «machiavellica»: pochi giorni fa Netanyahu ha inviato in missione segreta Barak (che all'occorrenza funge anche da ministro degli Esteri) in Giordania, dove ha incontrato re Abdallah ed Abu Mazen. Dunque il premier ha totale fiducia di lui. Inoltre Netanyahu non ha commentato in alcun modo l'intervista di Barak a Haaretz. Secondo il ministro Ghilad Erdan, un falco del Likud, non è comunque il caso di drammatizzare la vicenda. Netanyahu, ha spiegato, è elastico, pragmatico. Se si persuaderà di avere davanti un serio partner di pace, avanzerà proposte audaci. In caso contrario, in definitiva resterà sul tavolo solo un'intervista ingiallita di Barak.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " La grande occasione di Israele e palestinesi "
Antonio Ferrari
Trasformare la somma di due debolezze in una forza è impresa titanica ma non impossibile. Perché nessuna delle due parti, israeliana e palestinese, intende arretrare, dimostrando così la propria debolezza. E perché nessuna ha il coraggio di rompere, perché entrambe hanno bisogno di un risultato. E poi hanno l’interessato dovere di non deludere il padrone di casa Barack Obama, che a metà del suo primo mandato cerca di ottenere quel che i suoi predecessori hanno soltanto sfiorato, mancando l’obiettivo: due stati, Israele e Palestina, che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza.
Diciamo subito che questa ripresa dei colloqui a Washington, dopo due anni di gelo, parte con un handicap superiore a quello delle tornate precedenti. Perché i due protagonisti sono appunto deboli: il premier israeliano Benjamin Netanyahu guida un governo prigioniero di un’estrema destra contraria a qualsiasi concessione, tuttavia riconosce che «Abu Mazen è il mio partner di pace»; l’assai più scettico presidente palestinese rappresenta però metà del suo popolo, in quanto l’altra metà obbedisce ai fondamentalisti di Hamas, che rifiutano questi «inutili colloqui». E poi perché se il processo non si riavvia, il rischio di altri conflitti diventerebbe inevitabile, quindi intollerabile. Lo sanno bene tutti: le due parti; gli Stati Uniti, che sono l’anima del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) guidato da Blair, ed anche la Lega araba. Anzi, si deve alla Lega araba e al suo segretario, Amr Moussa, se Abu Mazen, vincendo il suo pessimismo, è partito per Washington. Sono coinvolti anche il presidente egiziano Mubarak e il re di Giordania Abdallah, per indicare che il fronte arabo, e in particolare quello moderato, vuole a tutti i costi una soluzione.
Non sarà facile perché, oltre agli ostacoli di sempre, i nemici di qualsiasi negoziato sono già entrati in azione, rispettando un copione ampiamente sperimentato. L’attentato contro i coloni ebrei avvenuto l’altra notte a Hebron (4 morti), e rivendicato dal braccio armato di Hamas, ne è una prova evidente. Obama ha risposto duramente: «Non permetteremo agli estremisti di sabotare il processo di pace». Ora, la volontà (la presunzione?) di poter risolvere tutto in un anno è sicuramente ammirevole ma velleitaria. È bastato che un esponente del governo di Israele, il ministro della Difesa Ehud Barak, sostenesse che Gerusalemme può essere una capitale condivisa per provocare la reazione degli intransigenti e l’immediata sconfessione, da Washington, del suo primo ministro.
È pur vero che Netanyahu ha ottenuto da Obama che i colloqui diretti vengano avviati al buio, senza quelle precondizioni che per i palestinesi erano invece prioritarie. Ma è anche vero che aver ottenuto uno spazio temporale limitato (un anno) per risolvere l’intero contenzioso va incontro ai desideri di Abu Mazen, che non vuole incontri sterili e senza fine. Anche perché, in caso di fallimento, i palestinesi potrebbero forzare la mano, dichiarando unilateralmente il proprio stato.
Tutti insomma hanno molto da guadagnare e molto da perdere. Proprio questa simmetria può essere la chiave per superare più d’un ostacolo. Un onorevole compromesso gioverebbe a tutti: a Netanyahu, come leader di un paese che ha bisogno della pace anche per difendere l’ebraicità dello stato davanti alla sfida demografica; ad Abu Mazen, per recuperare il prestigio perduto e convincere Hamas con qualche concreto risultato. A Obama, dopo il ritiro dall’Iraq e le difficoltà in Afghanistan; al mondo arabo, che teme nuove guerre; e anche a noi europei, che finora in Medio Oriente abbiamo contato davvero poco.
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Israele parla di pace ma pensa all’economia "
R. A. Segre
Il premier israeliano che si reca a Washington per dare il via in presenza del presidente Obama a una nuova serie di difficili negoziati coi palestinesi è un politico differente dal Netanyahu che in marzo fu lasciato senza cena dopo due ore di sdegnato incontro con l'inquilino della Casa Bianca. Molte sono le ragioni del rapido cambiamento di atmosfera: l'avvicinarsi delle elezioni "mid term" in America, viziate per Obama dalla delusione dell'elettorato per la mancanza della ripresa economica; il bisogno del presidente di non alienarsi l'influente elettorato ebraico legato sulla questione di Gerusalemme con il potente settore fondamentalista cristiano; l'impotente vittimismo dei palestinesi di al-Fatah paralizzati dalle minacce di Hamas e convinti della debolezza di Israele; lo spauracchio nucleare iraniano, eccetera. Dietro a tutto questo c'è un fattore nuovo più volte ricordato da questo giornale: la trasformazione di Israele da fattore militare occidentale problematico in fattore economico-energetico asiatico di crescente peso. Una evoluzione tanto più sorprendente se si tiene conto dell'immagine di Stato in permanente in pericolo di eliminazione, delegittimato dal mondo islamico e di sinistra, considerato minato all'interno da insolubili problemi di identità, dipendente dagli aiuti americani e dalla beneficenza ebraica, seduto sui carri armati e sulle sofferenze dei palestinesi imprigionati a Gaza, oppressi in Cisgiordania e all'interno di Israele stesso. Incapace di sfatare queste menzogne e di mutare questa caricaturale immagine di sé in molti ambienti mediatici, Israele sorprende il mondo economico uscendo indenne dalla crisi economica assieme all'India e alla Cina. Entrato nell'OECD, dotato di moneta stabile che fa aggio sul dollaro, senza inflazione e con una disoccupazione discesa in 5 anni dal 12 al 6%, ha esibito nel secondo semestre del 2010 una crescita economica del 4.6%. Indifferente alle minacce di disinvestimento a causa (contrariamente a quello che era successo al Sud Africa) di un crescente afflusso di capitali esteri e di turisti, Israele che affronta questo nuovo giro di negoziati di pace a Washington, è secondo il settimanale Newsweek al 22° posto per qualità di vita nel mondo e al primo nel Medio Oriente ( con Kuwait al 40° e la Siria all'83°). Le statistiche possono sempre ingannare ma fa riflettere il fatto che nel 2010 le esportazioni israeliane verso l'India sono aumentate del 120% , verso la Cina del 109%, verso il Brasile del 67%, diminuendo progressivamente la sua dipendenza economica dall'Occidente (che resta il suo partner commerciale preferenziale) e aumentando quella dall'Asia. Non si tratta soltanto di economia. In Asia risiedono oggi le riserve di nuovi immigranti, di quegli "Ebrei del Ritorno" di cui si parla intenzionalmente poco ma che si contano ormai a diecine di migliaia in Israele. È significativo che quest'anno per la prima volta si siano iscritti nelle accademie rabbiniche israeliane sette candidati rabbini cinesi provenienti dalla antica e scomparsa comunità ebraica di Kaifeng. Non meno lo è la decisione del governo di creare un fondo per il rimpatrio di 450 universitari e scienziati israeliani emigrati all'estero per rispondere ai bisogni di un settore tecnologico che ha creato più società del Canada al Nasdaq di New York coprendo il 30% delle esportazioni del paese. Questo non deve nascondere le molte deficienze sociali di Israele e la grande diversità dei salari specie sul mercato finanziario. Ma una cosa è aver registrato un aumento del 43% del numero dei milionari ( Haaretz 24.6.2010) in due anni in un paese sottosviluppato. Un'altra è averlo registrato in un paese industrializzato, democratico, che ha scoperto, dopo 50 anni di vane ricerche, depositi energetici importanti. La molla del cambiamento politico e strategico di Israele è nella sua trasformazione entro il 2015 in esportatore di gas. Secondo il NYHT del 20 agosto si tratta dello sviluppo di «enormi depositi». Mettono Israele al riparo da possibili sanzioni e trasformano la sua posizione nei confronti dei Paesi occidentali che hanno corteggiato sinora i Paesi arabi.
IL SOLE 24 ORE - Piero Fassino : " Un compromesso oggi è possibile "
Piero Fassino
Piero Fassino cita come aspetti positivi della politica estera di Obama elenti che positivi non lo sono affatto : " Le speranze sono suscitate in primo luogo dall'impegno personale del presidente. Il coraggioso discorso del Cairo, il ritiro dall'Iraq, l'accelerazione della fuoriuscita dall'Afghanistan, la ripresa dei rapporti con la Siria, la ricerca di una soluzione condivisa al nucleare iraniano sono atti che hanno via via scandito la scelta di Obama di fare del superamento del conflitto Occidente- Islam un asse strategico della nuova politica estera americana. ". Questo è l'elenco dei principali fallimenti in politica estera di Obama, non è ben chiaro per quale motivo dovrebbero suscitare delle speranze positive per il futuro. Ecco l'articolo:
In un intreccio di speranze e timori che il mondo guarda all'incontro Abu Mazen e Netanyahu promosso da Obama per riavviare un percorso negoziale di pace in Medio Oriente. Le speranze sono suscitate in primo luogo dall'impegno personale del presidente. Il coraggioso discorso del Cairo, il ritiro dall'Iraq, l'accelerazione della fuoriuscita dall'Afghanistan, la ripresa dei rapporti con la Siria, la ricerca di una soluzione condivisa al nucleare iraniano sono atti che hanno via via scandito la scelta di Obama di fare del superamento del conflitto Occidente- Islam un asse strategico della nuova politica estera americana. Ma è soprattutto la risoluzione del conflitto israelo-palestinese la vera carta che può determinare una svolta nella regione. E dunque la Casa Bianca farà di tutto per evitare un insuccesso. Non solo, ma offre qualche motivo di ulteriore fiducia anche il fatto che alle spalle dell'incontro di Washington stiano anni di negoziati che - pur non essendo giunti a conclusione - tuttavia hanno avvicinato via via le parti, rendendo oggi non impossibili i compromessi essenziali perché la soluzione "due popoli/ due stati" sia realizzata in modo accettabile per entrambi. La formula "confini del '67 con eventuali scambi di terra" consente di soddisfare le richieste palestinesi e, al tempo stesso, Israele può ricomprendere nei propri confini gran parte delle colonie, riducendo il numero degli insediamenti da smantellare. Su Gerusalemme capitale di due stati esistono ormai varie proposte concrete- ad esempio un progetto dettagliato avanzato dall'Iniziativa di Ginevra-che,riconoscendo la sovranità israeliana su gran parte della città per il valore che ha per l'ebraismo, offrono al tempo stesso la possibilità allo stato palestinese di insediare i propri uffici governativi e di rappresentanza in alcuni quartieri di Gerusalemme est. Ancora: è stato più volte riconosciuto dai principali dirigenti palestinesi che il "diritto al ritorno" dei profughi del '48 debba avere carattere simbolico, compensato da indennizzi, per non alterare l'attuale equilibrio demografico della società israeliana. E sul tema della sicurezza - particolarmente importante per Israele vi è la disponibilità di Abu Mazen ad accettare una forza militare internazionale di garanzia. Nonostante ciò, non mancano le ragioni di preoccupazione, a partire dalla condizione di debolezza dei due leader: Abu Mazen è privo del controllo di Gaza sottrattogli da Hamas; Netanyahu guida un governo in cui sono determinanti partiti di destra e religiosi contrari a qualsiasi concessione, forti anche della virulenta opposizione dei coloni. Non solo, ma Hamas- non partecipando al negoziato - accentuerà il suo boicottaggio, in ciò rafforzato dal sostegno del "fronte del rifiuto" guidato dall'Iran. In un contesto così fragile grande è il rischio che si producano sul terreno atti e fatti che paralizzino il negoziato. Se Netanyahu autorizzasse nuovi insediamenti - la moratoria di 10 mesi scadrà il 26 settembre- o se gruppi radicali palestinesi fomentassero atti di violenza o di terrorismo, come è già accaduto martedì, i negoziati ne sarebbero fortemente condizionati. Uno scenario così problematico richiama dunque le responsabilità della comunità internazionale. Obama ci ha messo la faccia. Non minore impegno deve sentire la Ue che è direttamente investita da tutto ciò che accade in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Va sollecitato un ruolo positivo della Russia che, utilizzando il dossier iraniano e il suo rapporto privilegiato con la Turchia, torna a giocare un ruolo nella regione. Vanno incoraggiati la Lega Araba e i suoi principali paesi a proseguire negli impegni assunti con il Piano arabo di pace. E alla Turchia va detto chiaramente che il ruolo di potenza regionale a cui aspira sarà tanto più utile e riconosciuto se finalizzato a favorire la pace. Di una cosa occorre essere consapevoli: anni di conflitti ci dicono che il tempo non lavora per la pace. E, dunque, è adesso che ciascuno deve agire e sentire la responsabilità di non perdere ancora una volta l'occasione forse l'ultima - della pace.
La STAMPA - Paola Caridi : " I terroristi uccidono e noi costruiamo case "
Paola Caridi
Nel suo articolo Paolo Caridi cerca di fornire una giustificazione alle mosse di Hamas. L'obiettivo principale dei terroristi della Striscia è cancellare Israele e la sua popolazione, ma per Paola Caridi : " un messaggio sanguinoso come l’attentato di Bani Naim dice però che al centro della discussione sono i confini e le colonie ". Ad Hamas non interessano i negoziati, l'ha dichiarato Haniyeh. Difficile, quindi, credere che abbiano un'opinione su quale dovrebbe essere il nodo centrale dei negoziati. Come scrive pure Il Manifesto di oggi in un articolo di Vittorio Arrigoni (che non riportiamo per non annoiare i lettori) i terroristi della Striscia sono scettici sui negoziati, non sono interessati. La tesi di Paola Caridi è che i negoziati partono col piede sbagliato per colpa dei coloni, i quali hanno promesso la costruzione di nuove case nonostante la moratoria sul congelamento non sia ancora scaduta. Netanyahu ha invitato la popolazione a rispettare la moratoria ("Netanyahu, da Washington, ammonisce i coloni a rispettare la legge"). Chi sta cercando di minare i negoziati è Hamas coi suoi attentati e la sua propaganda. La frase : " una recrudescenza della violenza era probabile, sulla falsariga di quello che è sempre purtroppo successo alla vigilia di qualche incontro importante " suona quasi come una giustificazione ai due attentati compiuti da Hamas. Come scrivere che c'era da aspettarselo, che è il giusto prezzo da pagare per negoziare...Caridi avrebbe usato gli stessi termini se fosse stato il contrario? Ecco il pezzo:
E’ il giorno del pianto. E della rabbia. Il popolo dei coloni israeliani si raccoglie per i funerali attorno alle quattro vittime dell’attentato terroristico di martedì pomeriggio, nella Cisgiordania meridionale, appena fuori da Hebron. Davanti alle salme di Ytzhak e Talia Imas, i loro sei figli. Accanto, le altre due vittime, tra cui una donna incinta. Funerali senza tumulazione, perché nel piccolo insediamento illegale di Beit Haggai non c’è cimitero. Le salme vengono sepolte in luoghi diversi, Gerusalemme, Ashdod, Petah Tikva. A Beit Haggai, però, non ci sono solo pianto e rabbia. Le esequie creano un legame diretto la politica di Israele, e con Washington, dove è in programma il primo faccia a faccia tra Benjamin Netanyahu e Mahmoud Abbas. Dicono, soprattutto, molto del braccio di ferro tra il premier israeliano e il Consiglio della Yesha, il popolo degli insediamenti. Soprattutto dopo l’uccisione, rivendicata da più sigle, ma attribuita ad Hamas, di quattro abitanti di Beit Haggai. Massacro che è stato seguito, ieri sera, da un altro agguato simile nel nord della Cisgiordania, vicino all’insediamento di Rimonim: feriti un uomo e una donna, uno è grave. È lo stesso speaker della Knesset, Reuven Rivlin a indicare la posizione della destra che preme su Netanyahu. «Il terrorismo non conosce la Linea Verde», dice Rivlin, riferendosi alla linea dell’armistizio del 1949 che divide Israele dai Territori Palestinesi. E «la nostra risposta al terrorismo sarà una nuova spinta a costruire». Costruire nelle colonie, dunque, rompendo il congelamento delle gru negli insediamenti sino a fine settembre che gli americani avevano faticosamente negoziato e ottenuto. Rivlin, che negli scorsi mesi aveva sorpreso il dibattito politico con il suo appoggio alla soluzione di un unico stato, ha espresso quello che i coloni vogliono. Lo hanno deciso subito dopo l’attentato, nel Consiglio della Yesha, il consiglio che riunisce il popolo degli insediamenti. Dalle 18 di ieri, si tira su di nuovo il cemento in zone come Kedumim, Adam, e la stessa Kiryat Arba, precisa l’agenzia di stampa legata ai coloni. «Loro uccidono, noi costruiamo», è il lapidario commento del direttore del Consiglio della Yesha, Naftali Bennett. Netanyahu, da Washington, ammonisce i coloni a rispettare la legge. Il loro capo, Danny Dayan, anche lui lontano da Hebron, anche lui a Washington, dice che «uno Stato palestinese è una minaccia all’esistenza dello Stato di Israele». Nessuno s’aspettava un clima tranquillo, alla ripresa di negoziati diretti su cui tutti nutrono contenute speranze. I veterani del processo di pace hanno ricordato, in queste settimane, che una recrudescenza della violenza era probabile, sulla falsariga di quello che è sempre purtroppo successo alla vigilia di qualche incontro importante. La cronaca di quest’estate in Cisgiordania ha dato loro ragione. Dagli episodi di violenza che hanno visto protagonisti i coloni contro i palestinesi, sino alla sanguinosa imboscata di Bani Naim. Targata, molto probabilmente, Hamas. È stato lo stesso braccio armato del movimento islamista, le Brigate Izzedin al Qassam, a rivendicare l’attentato terroristico. «Dopo i ripetuti attacchi dei coloni», dice il loro comunicato, che parla anche di escalation. L’Anp di Ramallah, il suo premier Salam Fayyad, hanno però condannato a chiare lettere l’attacco di martedì pomeriggio, e hanno fatto qualcosa di più, proprio per far capire a Washington che la loro posizione negoziale è seria. Le forze di sicurezza palestinesi hanno arrestato in tutta la Cisgiordania almeno 150 simpatizzanti di Hamas, ultimo episodio della linea dura dell’Anp contro il movimento islamista. E le retate si sono concentrate soprattutto a Hebron, roccaforte di Hamas, dove le autorità di Ramallah avevano anche vietato ad alcune delle personalità islamiste più in vista di predicare nella grande funzione del venerdì. Proprio ora che è ramadan. Il messaggio di Abu Mazen e di Salam Fayyad è chiaro. Sì al negoziato. Un po’ meno chiaro, paradossalmente, è il messaggio di Hamas. Il movimento islamista palestinese decide di ritornare dal lancio indiscriminato di razzi Qassam agli attentati contro gli israeliani, ma - precisa il portavoce delle Brigate, Abu Obeida - l’attacco è avvenuto «nelle terre palestinesi occupate nel 1967». Non all’interno di Israele, dunque, ma a oriente della Linea Verde. Che cosa vuole dunque Hamas? È contro i negoziati, ma non si spinge a compiere attentati dentro Israele. Con un messaggio sanguinoso come l’attentato di Bani Naim dice però che al centro della discussione sono i confini e le colonie. Mentre Netanyahu vuole parlare della sicurezza dello stato di Israele, ancor di più dopo l’attentato vicino a Hebron. Il ministro della Difesa Ehud Barak, intanto, ha messo sul piatto anche Gerusalemme, con una timida apertura. Quartieri arabi ai palestinesi, ma i 200 mila israeliani che vivono a oriente della Linea Verde rimarranno lì dove sono.
Il FOGLIO - Ariel David : " La leggenda del grande cucitore"
Un ritratto troppo positivo per Salam Fayyad, qui descritto come campione di moderatismo. Basta scrivere Salam Fayyad nella casella 'Cerca nel sito' in Home Page per avere maggiori informazioni su Fayyad. Per un esempio, cliccare sul link sottostante:
Dopo ventitré anni di chiusura, l’unico cinema di Jenin ha riaperto i battenti il mese scorso. I vip hanno calcato il tappeto rosso e hanno preso posto nella sala restaurata grazie ai fondi del governo tedesco. Sul grande schermo è stato proiettato un documentario su un ragazzo palestinese ucciso per errore dai soldati israeliani che scambiarono il suo fucile giocattolo per un’arma vera e i cui organi furono donati dai genitori ad alcuni malati in Israele in un gesto di riconciliazione. Intorno al cinema c’erano le uniformi blu delle forze di sicurezza palestinesi, intente a pattugliare le strade che fino a poco tempo fa erano territorio delle milizie e che hanno visto alcuni dei più violenti scontri con gli israeliani durante la seconda Intifada. Questa piccola inaugurazione di routine assume un altro significato se presa come rappresentazione della linea di governo dell’ospite d’onore dell’evento, il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese Salam Fayyad. Sicurezza e convivenza con Israele, stretti rapporti con l’occidente, crescita economica e rafforzamento delle istituzioni sono i pilastri di una politica i cui frutti si vedono a Jenin e in tutte le altre zone della Cisgiordania sotto il controllo palestinese. Ai colloqui di pace diretti tra israeliani e palestinesi che si aprono oggi a Washington i protagonisti in prima fila sono altri: il presidente Abu Mazen o il negoziatore Saeb Erekat, più attivi sulla scena internazionale e di fronte alle telecamere dei media. Ma è soprattutto a Fayyad che si deve il ristabilimento di quel minimo di fiducia reciproca e di tranquillità sul campo che permette al premier israeliano Benjamin Netanyahu di sedersi al tavolo del negoziato. Usando i poliziotti addestrati dagli Stati Uniti, il primo ministro di Ramallah ha portato avanti una linea dura contro Hamas e altri gruppi terroristici. Questo ha permesso a Israele di eliminare molti dei checkpoint che rendono difficile la vita dei palestinesi in Cisgiordania, allentare le misure di sicurezza e compiere altri passi concilianti, come lo smantellamento della barriera di cemento che nei giorni della seconda Intifada proteggeva il sobborgo di Ghilo, a Gerusalemme, dai cecchini palestinesi. Con la ripresa del commercio, l’arrivo d’investimenti e aiuti dall’estero, l’economia della West Bank cresce ora più rapidamente di quella israeliana, e vive un boom in forte contrasto con la stagnazione e la miseria della Striscia di Gaza governata da Hamas. Mentre in Cisgiordania il prodotto interno lordo è cresciuto del 7 per cento l’anno scorso, a Gaza metà della popolazione è disoccupata e l’80 per cento dipende dagli aiuti internazionali. A Ramallah, dove un tempo i carri armati israeliani assediavano il palazzo di Yasser Arafat, spuntano alberghi, ristoranti e negozi di lusso. Intanto, il quotidiano Yedioth Ahronot riferisce che nella Striscia di Gaza, isolata dall’embargo di Israele ed Egitto, gli uomini di Hamas concentrano le poche risorse sullo sviluppo del Fajr-5, un nuovo razzo capace di raggiungere Tel Aviv. I successi di Fayyad s’intrecciano con la politica di Netanyahu, che ha sempre considerato il miglioramento delle condizioni economiche dei palestinesi come premessa fondamentale per la pace. Per mantenere viva questa “pace economica” appoggiata da Israele, Fayyad, chiamato a guidare il governo di emergenza formato da Abu Mazen dopo la presa del potere di Hamas a Gaza nel 2007, deve continuare a mantenere stabile la Cisgiordania. Con più di trentamila uomini addestrati dal generale americano Keith Dayton, l’Anp ha potuto attaccare non solo i militanti del gruppo islamista ma anche le organizzazioni caritatevoli che ne costituiscono la base economica e sociale. I leader di Hamas vorrebbero vedere Fayyad processato o eliminato e non perdono occasione per minare la cooperazione sulla sicurezza con gli israeliani. Martedì sera, un commando di Hamas ha aperto il fuoco su una macchina nei pressi di Hebron, uccidendo quattro civili israeliani, tra cui una donna incinta. Il peggior attentato avvenuto negli ultimi anni nella West Bank non è soltanto un tentativo di troncare sul nascere i colloqui di pace e ricordare al mondo che Hamas non può essere ignorata. E’ soprattutto una mossa per imbarazzare Fayyad e sfidare il suo controllo sull’area, che non può essere definito saldo. I negoziati sono ancora in piedi, ma nei prossimi giorni Gerusalemme osserverà con attenzione le mosse di Ramallah e delle sue forze di sicurezza, che saranno chiamate a ricercare i responsabili dell’attacco. Le truppe a disposizione dell’Anp sono viste con ambiguità in Israele, dove i generali dell’esercito avvertono spesso che gli uomini addestrati e finanziati da Washington potrebbero trasformarsi in un temibile avversario se l’attuale clima di distensione dovesse mutare. Fayyad è comunque considerato un interlocutore affidabile da molti israeliani, con in testa il presidente Shimon Peres, che lo chiama il “David Ben Gurion palestinese”, paragonandolo al padre fondatore dello stato ebraico. Per realizzare il sogno di uno stato palestinese, il premier segue una sua strategia, ormai chiamata “fayyadismo”, a volte con ammirazione e a volte con scherno. Secondo l’economista cinquantottenne, che ha studiato negli Stati Uniti, lo stato palestinese non può nascere solo dalla contrapposizione con Israele o da negoziati internazionali, ma deve essere creato sul campo, dal basso, partendo da istituzioni governative, scuole, ospedali, servizi di welfare e infrastrutture. Come ogni leader palestinese, Fayyad non si risparmia nel denunciare “l’occupazione israeliana”, e anche se contrario al terrorismo, considerato controproducente, appoggia gli atti di “resistenza popolare” non violenta, come le manifestazioni quotidiane contro la barriera di separazione che Israele ha costruito per fermare i kamikaze. Tuttavia, il “fayyadismo” non si concentra sul ruolo dei palestinesi come vittime, ma sui passi necessari per rendere credibile e concreta l’aspirazione a uno stato. Prima come ministro delle Finanze di Arafat, poi come premier sotto Abu Mazen, Fayyad si è battuto per eliminare la corruzione nell’Anp, assicurare l’ordine, riformare la giustizia e il fisco. Con un bilancio tuttora dipendente dalle donazioni della comunità internazionale (1,3 miliardi di dollari soltanto nel 2009), Fayyad ha cercato di tagliare le spese e aumentare le entrate, riuscendo per esempio a convincere i palestinesi, abituati ai servizi forniti gratuitamente dagli israeliani, a pagare la bolletta dell’elettricità. L’anno scorso, il premier ha presentato un piano per preparare le istituzioni e la società palestinese all’indipendenza entro il 2011, con l’obiettivo di creare uno stato che viva in pace a fianco d’Israele. Alla vigilia dell’inizio dei negoziati, Fayyad ha ribadito che lo stato palestinese sarà una realtà di fatto il prossimo anno, quale che sia il risultato delle trattative. “Se per una ragione o per un’altra, entro l’agosto 2011 i negoziati dovessero fallire, credo che avremo fatto così tanti progressi, in termini di fatti positivi sul campo, che la realtà s’imporrà sul processo politico e porterà al risultato che desideriamo”, ha detto in una recente intervista al quotidiano israeliano Haaretz. La tabella di marcia coincide con quella dei negoziati voluti dal presidente americano Barack Obama. Ma mentre la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi non vede possibilità di successo per le trattative ad alto livello, considerate poco più che una passerella voluta da Obama in vista delle elezioni di midterm a novembre, molti analisti considerano l’approccio di Fayyad assai più realistico. Sono troppo lontane le posizioni delle due parti su questioni fondamentali come il diritto al ritorno dei profughi palestinesi o la divisione di Gerusalemme per far sperare in un esito positivo dei colloqui entro un anno, come vuole Washington. Anche se sul lungo periodo un accordo politico rimane insostituibile, è più probabile che nell’immediato si arrivi a una dichiarazione d’indipendenza unilaterale da parte dei palestinesi, tacitamente accettata da Israele, che poi resterà a guardare per verificare le capacità del nuovo stato di garantire la sicurezza e di non seguire il destino di Gaza, trasformata in una base di Hamas Fayyad ha sempre negato di voler prescindere dal negoziato, ma la sua opera di “nation building” dal basso sembra fatta apposta per creare una via d’uscita in caso di un crollo delle trattative. L’approccio da tecnocrate all’indipendenza è scritto nel Dna politico di Fayyad e nella sua biografia. Il premier dell’Anp non ha il curriculum da militante tipico della maggior parte dei leader palestinesi e non ha fatto carriera nelle carceri israeliane o in esilio con Arafat. Nato nel 1952 in un piccolo villaggio della Cisgiordania vicino a Tulkarem, Fayyad ha conseguito un dottorato in economia presso l’Università del Texas per poi lavorare alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. Nel 2002, nei giorni più bui della seconda Intifada, fu Condoleezza Rice, il segretario di stato di George W. Bush, a premere su Arafat perché lo nominasse ministro delle Finanze con il compito di ripulire la corrotta amministrazione dell’Anp. Da allora, Fayyad è rimasto il leader palestinese più amato dalle cancellerie occidentali, con numerose amicizie anche in Israele, incluso l’influente governatore della Banca centrale, Stanley Fisher, suo ex collega nella carriera presso le grandi istituzioni finanziarie internazionali. Odiato da Hamas ma inviso anche ad al Fatah, il partito laico di Abu Mazen che non gli perdona le purghe contro migliaia di suoi funzionari corrotti o superflui, Fayyad nel 2006 ha fondato con altri intellettuali palestinesi un suo partito, La Terza Via. Anche se è un rivale politico potenzialmente pericoloso per Abu Mazen la presenza di Fayyad nell’esecutivo rappresenta quasi una condizione fondamentale per la prosecuzione dei generosi finanziamenti internazionali, il che ne ha fatto il candidato ovvio per la guida del governo formato dopo la rottura con Hamas del 2007. L’indipendenza di Fayyad è la sua forza, ma anche la sua principale debolezza. Se, secondo gli ultimi sondaggi, il 55 per cento dei palestinesi approva il suo operato, soltanto il 13 per cento lo vorrebbe come vice presidente a fianco del rais Abu Mazen. Alle elezioni legislative del 2006, vinte da Hamas, La Terza Via racimolò solo il 2,4 per cento dei voti, guadagnando due seggi in Parlamento. Il problema è che Fayyad non ha una vera base, spiega Itamar Rabinovich, docente di diritto internazionale presso l’Università di Tel Aviv, ma se dovesse entrare nei giochi sporchi della politica, rischierebbe di perdere la reputazione di burocrate al di sopra delle parti che lo ha portato così in alto. Negli ultimi mesi, il “Ben Gurion palestinese” ha cercato di migliorare il suo profilo politico con discorsi settimanali radiofonici e passeggiate a contatto con la popolazione. In molte delle sue iniziative comincia a mostrare meno realismo e più populismo. In primavera ha fatto approvare una legge che prevede pene severe per chi vende i prodotti fatti negli insediamenti israeliani, e poi è andato in giro a distribuire volantini a favore del boicottaggio e a gettare nei falò i materiali confiscati dalla polizia nei negozi. Oltre a cercare il consenso popolare, queste mosse mirano ad allontanare il marchio di collaborazionista con Israele. Fra i critici di Fayyad molti non credono al suo miracolo economico e vedono una svolta autoritaria dietro agli sforzi del premier di mantenere in piedi un governo d’emergenza privo della legittimazione del voto. Secondo Nathan Brown, professore di scienze politiche presso l’Università George Washington nella capitale americana, l’Anp sempre più spesso utilizza la polizia per reprimere ogni forma di dissenso. Le elezioni municipali sono continuamente rinviate e, per timore di una vittoria di Hamas, non si profila all’orizzonte un voto presidenziale, anche se il mandato di Abu Mazen è scaduto nel 2009. Brown, autore di uno studio sull’Amministrazione Fayyad, sostiene che il rafforzamento istituzionale dell’Anp procede a rilento e il boom economico è principalmente frutto degli aiuti internazionali. “Il Fayyadismo sta costruendo poche istituzioni, e quel poco che crea lo fa in un contesto autoritario”, scrive Brown. Il governo non potrebbe sopravvivere in un clima più democratico, e sarebbe destinato a perire anche di fronte ad una nuova crisi con Israele o con Hamas, perché si ritroverebbe presto solo, privo dell’appoggio della popolazione e delle fazioni importanti. Più morbido il giudizio di Rabinovich: “Molti dei risultati sono stati esagerati, ma la politica palestinese è quasi più complicata di quella israeliana e c’è molta gelosia e rivalità nelle critiche rivolte in casa a Fayyad. E’ innegabile che l’economia sia rifiorita, la sicurezza migliorata e che ora i palestinesi possano mostrarsi al negoziato come dei partner credibili”, dice Rabinovich. Per ora, il vero pericolo per il premier arriva dai tentativi di destabilizzazione di Hamas che mostrano le falle nell’apparato di sicurezza dell’Anp. Fayyad ha reagito con energia di fronte alla sfida portata con l’attentato di martedì. All’indomani le forze di sicurezza palestinesi hanno arrestato nell’area di Hebron trecento persone sospettate di legami con l’organizzazione terroristica. Da Gaza però, dove migliaia di persone sono scese in strada per festeggiare l’omicidio dei quattro civili israeliani, i leader di Hamas promettono: questo è soltanto il primo di una lunga serie di attacchi.
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