Solidarietà ai profughi palestinesi, una moda che ha l'obiettivo di farli rimanere tali
Cari amici, chi conosce un po' il mio lavoro sa che mi sono occupato talvolta anche di moda e mode; non solo per amore per la bellezza degli indumenti, ma anche perché quei meccanismi che noi chiamiamo mode sono importantissimi un po' dappertutto nella vita, determinano spesso come mangiamo, che arti, musiche, architetture, libri ci piacciano, contribuiscono perfino a plasmare lo sviluppo della scienza.
Ve ne scrivo qui perché nei giorni scorsi è uscita una ricerca che mostra come ci siano delle mode anche nell'etica, o meglio nell'oggetto prescelto per quel gesto che dovrebbe essere essenzialmente etico, la solidarietà. Non ho i dati per dire se e come siano cambiati i sentimenti nei confronti di panda e delfini, balene e altri animali oggetto di solidarietà. Ma la ricerca di cui sto parlando mostra che esistono preferenze immotivate e presumibilmente variabili per quanto riguarda la solidarietà con le popolazioni bisognose di soccorso. Tanti anni fa, se ne ricorderanno i più anziani, c'erano i bambini del Biafra; molto più recente ci fu un'attenzione molto effimera per le vittime dello tsunami nel pacifico, l'anno scorso una ancora più evanescente per gli haitiani. Ci siamo in seguito quasi disinteressati dei cileni che hanno subito un terremoto altrettanto disastroso, e attualmente praticamente nessuno pensa al Pakistan, dove le inondazioni hanno raggiunto un livello distruttivo pari a un grande terremoto. In realtà questo tipo di solidarietà risponde molto a quelli che nella teoria delle comunicazioni di massa si chiamano "criteri di notiziabilità": la distanza geografica, la presenza di concittadini, il carattere inconsueto e eccezionale dell'evento.
Ma poi ci sono le solidarietà politiche. Ed è qui che incide la ricerca di cui vi parlavo. "Repubblica" la sintetizza così: "Nel "borsino" degli aiuti umanitari un congolese riceve 27 volte meno soldi di un palestinese, e 7 volte meno che un afgano. [...] Un afgano riceve, ad esempio, 179 dollari all'anno contro i 25 di un congolese e i 10 di un pachistano" (http://www.repubblica.it/esteri/2010/08/20/news/solidariet_ingiusta-6388474/). Insomma, ogni palestinese (nel senso amplio che include i profughi) costa alla solidarietà internazionale circa 675 dollari l'anno e ogni pakistano 10. Quello che ricevono effettivamente è naturalmente un'altra storia. Sono comunque cifre immense, decine di miliardi di dollari l'anno, paragonabili al budget delle più grandi multinazionali e di parecchi piccoli stati. Se avete la pazienza di guardare una fonte fra l'altro evidentemente molto interessata allo sviluppo della solidarietà, trattandosi di una super-ONG, può trovare tantissimi dati qui (http://www.oxfamfrance.org/Barometre-de-la-protection-des,796)
Chi amministri questi soldi e che cosa ne faccia esattamente non è chiaro, come non è assolutamente trasparente il criterio di scelta. Per questo prima parlavo di moda. Ma in realtà chi studia le mode vestimentarie sa benissimo che si tratta di un mercato manipolato, che le preferenze per fogge e colori in genere non sono mai spontanee ma derivano da accorti investimenti in comunicazione. E' ovvio che anche le "mode" nella solidarietà sono il frutto di politiche. Le Ong sono organizzazioni che vivono di solidarietà, dando lavoro a tanti; stati e movimenti internazionali agiscono anche in questo campo seguendo interessi e ideologie. L'investimento massiccio sui palestinesi mostra che vi è chi ha interessa a mantener attiva la questione, a rendere la condizione del profugo non provvisoria ma definitiva, insomma a far sì che la bomba a orologeria palestinese continui a ticchettare. Con i soldi spesi finora per la gestione dei "soccorsi" si sarebbero potute costruire soluzioni abitative ed economiche convenienti per tutti e capaci di mantenersi da sé. Questo non è accaduto. E le ragioni, per chi segue il Medio Oriente, sono evidenti.
Ugo Volli