Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 19/08/2010, a pag. 8, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " Libano, piccolo storico passo ".
Libano
Il sottotitolo del pezzo recita : "Approvata la legge per coloro che furono esiliati da Israele nel ’48 ". Un sottotitolo scorretto. Non è stato Israele a esiliare i profughi palestinesi. Sono stati i Paesi arabi limitrofi a invitare la popolazione araba israeliana a fuggire quando Israele è stato fondato, con la promessa di distruggerlo in pochi giorni. Sempre gli Stati arabi limitrofi si sono rifiutati di concedere la cittadinanza ai profughi, molto meglio tenerli al confine con Israele, segregandoli nei campi ed esasperando la loro esistenza, pronti a diventare terroristi suicidi contro Israele.
Giorgio si ostina a definire Israele "paese dalla Nakba", la catastrofe.
Nel pezzo si legge che il Libano ha deciso di concedere qualche diritto ai profughi palestinesi, ma " Di fatto i cambiamenti potrebbero rivelarsi minimi, considerata la diffidenza che una larga porzione di libanesi continua ad avere nei confronti dei palestinesi. ". La situazione è chiara, così chiara che nemmeno Giorgio può distorcerla. A rendere impossibile la vita dei profughi non è Israele, ma la popolazione libanese, contraria all'assimilazione dei profughi. Come mai l'UNRWA non protesta? E come mai il Manifesto non condanna duramente questo atteggiamento razzista?
Giorgio scrive : " Spaccati tra alleati del movimento sciita Hezbollah e alleati del Partito sunnita di Saad Hariri, i libanesi cristiani si ritrovano saldamente uniti nell’escludere non solo qualsiasi ipotesi di naturalizzare i profughi – cosa che spostarebbe l’equilibrio confessionale ancora di più a favore dei musulmani –ma anche un miglioramento effettivo della condizione di vita dei palestinesi, anticamera secondo loro di un progressivo assorbimento ". I cristiani libanesi, con l'appoggio del governo, fanno politica razziale, considerano i palestinesi come una bomba demografica di cui desiderano fare a meno. Come mai il quotidiano comunista non usa la parola apartheid? Lo fa sempre, a sproposito, con Israele. Ma in Israele i palestinesi non sono profughi. Godono di tutti i diritti garantiti ai cittadini, hanno la cittadinanza israeliana, possono studiare, lavorare, hanno le loro rappresentanze in parlamento.
Non si può scrivere altrettanto dei palestinesi che vivono in Siria, Libano e Giordania. Eppure il quotidiano comunista non li accusa mai o se lo fa, lo fa con un tono asettico, come in questo caso.
Ecco l'articolo:
Un «passo modesto», un percorso ancora lungo. Smorzano gli entusiasmi, in Libano, i sostenitori dei diritti civili per i profughi. Due giorni fa il voto del Parlamento libanese ha trasformato in legge un decreto governativo che consente a centinaia di migliaia di palestinesi presenti nel paese dalla Nakba (1948), di poter finalmente svolgere decine di lavori finora preclusi. I commenti però sono tiepidi: nessuno nega l’importanza di uno sviluppo atteso da anni, ma troppe barriere continuano a condizionare l’ingresso dei rifugiati nel mondo del lavoro. Di fatto i cambiamenti potrebbero rivelarsi minimi, considerata la diffidenza che una larga porzione di libanesi continua ad avere nei confronti dei palestinesi. «Siamo di fronte a un passo modesto compiuto dal Parlamento lungo un percorso di mille miglia, ma con le condizioni (nel paese) sono queste e non hanno permesso di raggiungere i risultati sperati», ha spiegato ieri al quotidiano as-Safir il leader drusoWalid Junblatt, uno dei più attivi nel chiedere l’emendamento della legge che impediva di lavorare ai 400 mila profughi palestinesi espulsi 62 anni fa da Israele o fuggiti dalla loro terra. Già negli anni passati le autorità di Beirut avevano eliminato qualche restrizione, ma solo il voto dell’altro giorno ha aperto spazi a miglioramenti veri della condizione dei profughi e, più in generale, al riconoscimento di diritti civili ai palestinesi. La proposta di legge completa, che difficilmente verrà approvata, prevede anche l’abolizione del divieto di proprietà della terra e il diritto di accedere al servizio sanitario nazionale. Due questioni su cui il parlamento non si è ancora pronunciato e su cui il dibattito è ancora aperto e infuocato. «La strada da percorrere rimane molto lunga e la legge appena approvata continua a prevedere, in forma mascherata, forti limitazioni all’accesso al lavoro» per i palestinesi, avverte SariHanafi, docente di sociologia dell’Università Americana di Beirut e principale promotore della marcia per i diritti dei palestinesi terminata lo scorso 27 giugno davanti al Parlamento. «La legge – dice Hanafi al manifesto – prevede che l’esercizio delle professioni indipendenti debba comunque avere l’accordo preventivo degli ordini professionali ». Ilministero del lavoro, aggiunge il sociologo, «rimane responsabile per l’assegnazione dei permessi ponendo così un freno alle speranze dei palestinesi». Non è secondario inoltre che il datore di lavoro sia obbligato a offrire un contratto al lavoratore palestinese, iscriverlo alla Cassa nazionale di sicurezza sociale e a stipulare a suo nome una polizza di assicurazione sanitaria e una copertura contro gli incidenti sul lavoro. Garanzie sacrosante a tutela dei lavoratori,ma che rischiano di tenere lontani i palestinesi da quelle occupazioni occasionali non contrattualizzate che almeno in una fase iniziale appaiono lo sbocco più scontato per la loro offerta di lavoro. Sino a quando non cambierà l’atteggiamento dei libanesi cristiani e dei loro rappresentanti in Parlamento, i palestinesi non otterranno i diritti civili che chiedono da tempo, in attesa (lo ripetono a ogni occasione) di poter rientrare nella loro terra d’origine, come prevede la risoluzione 194 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che Israele rifiuta categoricamente di applicare. Spaccati tra alleati del movimento sciita Hezbollah e alleati del Partito sunnita di Saad Hariri, i libanesi cristiani si ritrovano saldamente uniti nell’escludere non solo qualsiasi ipotesi di naturalizzare i profughi – cosa che spostarebbe l’equilibrio confessionale ancora di più a favore dei musulmani –ma anche un miglioramento effettivo della condizione di vita dei palestinesi, anticamera secondo loro di un progressivo assorbimento. I deputati cristiani hanno ottenuto che qualsiasi emendamento alle leggi vigenti venga deciso in Parlamento sulla base del «consenso nazionale» e non a colpi di maggioranza. Il ministro del lavoro Boutros Harb (cristiano), incurante dell’approvazione della nuova legge, continua a ripetere che «parlare di diritti civili per i palestinesi è un errore, perché rinvia alla nozione politica di cittadinanza, che è un diritto esclusivo dei libanesi ». A suo avviso si dovrebbe parlare piuttosto di «diritti umanitari e sociali», per non suscitare equivoci. E’ impensabile perciò, almeno a breve termine, l’allargamento del diritto alla proprietà anche ai profughi palestinesi. Sempre Harb spiega che «non è necessario » per un palestinese acquistare una abitazione poiché «il diritto all’affitto assicura lo stesso servizio sociale del diritto di essere proprietari di un alloggio».
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