Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/08/2010, a pag. 1-2, la cronaca di Maurizio Molinari dal titolo " Ai privati la sicurezza ", a pag. 3, la sua intervista a Robert Baer dal titolo " Ora sarà guerra civile tra laici e religiosi ", a pag. 2, l'intervista di Giacomo Galeazzi a monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, leader carismatico dei Caldei dell'Iraq dal titolo " Il Paese è nel caos. La Casa Bianca ha tradito la pace ", a pag. 1-31 l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " La paura del futuro ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-17, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " La fretta di Obama ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Chi è riuscito a Baghdad può fare il bis ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 9, l'articolo di Gianandrea Gaiani dal titolo " Ritorno in caso d'emergenza ".
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ai privati la sicurezza "
Maurizio Molinari
Alle 4 del mattino di ieri, ora di Baghdad, gli ultimi blindati della 4ª Stryker Brigate della 2ª divisione di fanteria dell’esercito degli Stati Uniti hanno attraversato il posto di frontiera di Khabari fra Iraq e Kuwait.
Così è stato posto termine al ritiro delle truppe combattenti e dunque all’operazione «Iraqi Freedom», iniziata il 20 marzo del 2003 per rovesciare il regime di Saddam Hussein.
Il Pentagono ha anticipato di dieci giorni i piani concordati con il governo di Baghdad al fine di scongiurare possibili piani della guerriglia contro i lunghi convogli in uscita ed ora in Iraq rimane un contingente di 50 mila uomini, di unità non combattenti, che sarà a sua volta ritirato entro l’ottobre 2011. Per questa data l’amministrazione Obama si propone di avere sul campo almeno 7000 contractor civili al fine di affiancare le forze regolari irachene nell’opera di mantenimento della sicurezza e di addestramento delle reclute. I piani sullo schieramento dei contractor - in gran parte si tratta di ex militari - sono stati anticipati dal «New York Times», secondo il quale sarà il Dipartimento di Stato di Hillary Clinton a coordinare la più vasta operazione di questo tipo pianificata dagli Stati Uniti. I contractor infatti avranno anche la responsabilità di proteggere l’ambasciata Usa a Baghdad, i consolati esistenti a Kirkuk e Mosul, l’apertura di due nuovi consolati a Bassora e Erbil nonché di cinque grandi installazioni militari evacuate dalle truppe. Per svolgere tali compiti le «truppe» agli ordini di Hillary avranno a disposizione 60 blindati Mrap capaci di resistere alle esplosioni di potenti mine, 1320 auto blindate, 29 elicotteri da combattimento e trasporto, tre aerei e una imprecisata quantità di droni e «armi per la reazione rapida» che saranno affidate a unità speciali di contractors incaricate di «agire in fretta» per rispondere a «situazioni di pericolo per i civili», previo assenso delle autorità locali irachene.
A conti fatti si tratta di un piccolo esercito paramilitare i cui costi stimati superano i 2 miliardi di dollari, sul quale ricadranno responsabilità delicate come la gestione dei posti di blocco congiunti con sunniti e curdi creati dal generale americano Raymond Odierno a Mosul e Kirkuk per evitare scontri fra le opposte milizie etniche. «I contractor saranno orecchie e occhi sul territorio per verificare la presenza di progressi» ha affermato Antony Blinker, consigliere per la sicurezza del vicepresidente Joe Biden, lasciando intendere che il loro schieramento è la carta a cui la Casa Bianca si affida per scongiurare il ripetersi di quanto avvenne in Vietnam dove, dopo il ritiro delle truppe combattenti nel marzo 1973, la situazione si deteriorò progressivamente fino alla caduta di Saigon nelle mani dei vietcong nell’aprile del 1975 cogliendo di sorpresa l’amministrazione Nixon.
Gli unici militari che resteranno in Iraq dopo l’ottobre 2011 saranno in una cellula presso l’ambasciata di Baghdad, incaricati di garantire l’approvvigionamento di armi - blindati, tank e aerei - alle forze irachene ma a Washington c’è chi ritiene che in tempi stretti l’Iraq possa formalizzare la richiesta di far tornare i soldati nell’ambito di accordi simili a quelli sulle basi presenti in Germania, Italia e Corea del Sud. «Deve essere chiaro che la prossima mossa spetta a loro» sottolinea Odierno, per ribadire il momento di distacco fra il ritiro Usa e quanto avverrà in seguito. «La pazienza è strategica - aggiunge Ryan Crocker, ex ambasciatore Usa a Baghdad - noi ora andiamo via ma se loro ci chiederanno in seguito di ripristinare la situazione pre-2011 sarà nostro interesse rispondere in fretta».
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " La paura del futuro "
Vittorio Emanuele Parsi
Le truppe da combattimento americane hanno lasciato l’Iraq, mantenendo sul posto una corposa retroguardia di 50 mila uomini. È un’altra delle promesse fatte da Obama in campagna elettorale che viene (più o meno) mantenuta.
Ma è anche quanto avevano concordato la precedente amministrazione e le autorità irachene, i cui vertici militari (tenente generale Babaker Zebani) vorrebbero ora che le residue truppe americane restassero in Iraq non solo per tutto il 2011, ma addirittura fino al 2020.
Il futuro del Paese si presenta tutt’altro che roseo. I rapporti tra le formazioni (e le milizie) sciite, sunnite e curde sono sempre sul punto di rottura; gli attentati stanno conoscendo una nuova recrudescenza; la stessa società, che nel suo complesso è esasperata ed esausta per il pesante tributo di sangue e distruzione che ha dovuto pagare per liberarsi dalla tirannia di Saddam Hussein, sembra essere completamente sfibrata dai lunghi anni del terrore, prima qaedista e poi settario. Guardando al Paese e all’intera regione, credo che tre considerazioni possano essere brevemente svolte.
1. Il rovesciamento del regime baathista ad opera degli americani ha avuto ripercussioni sull’intero Medio Oriente, com’era facile prevedere. Tuttavia non nel senso auspicato da George W. Bush, di un’apertura di quella regione alla democrazia, sia pure importata manu militari. Esso ha piuttosto segnato la sconfitta, almeno per ora, del progetto identitario fondato sul binomio laicità-modernizzazione, a favore di quello integralismo-radicalismo. Le ambizioni egemoniche di Saddam Hussein erano state alimentate dallo scoppio della rivoluzione khomeinista in Iran, e dalle paure che essa aveva suscitato nell’intero Medio Oriente. Nonostante i contorcimenti neoreligiosi dell’ultimo Saddam, la rivoluzione khomeinista ha sconfitto quella baathista e Teheran ha accresciuto il proprio ruolo regionale.
2. Nelle sabbie irachene l’America ha consumato il sogno di un nuovo ordine mondiale fondato sulla sua leadership e garantito dalla sua indiscussa supremazia militare. Quest’ultima resta, ma sembra essere sempre più ingombrante e meno risolutiva, se è vero che mentre le forze armate Usa si ritirano sono in arrivo 7000 nuovi contractors, che dovranno provvedere, di fatto privatizzandola, alla sicurezza delle aree petrolifere. È un paradosso. G.W. Bush andò in guerra contro tutto e contro (quasi) tutti, invocando il fallimento del diritto internazionale e della stessa validità assoluta del concetto di sovranità. E ha perso. Quella di Bush è stata però anche la sconfitta dell’ultimo tentativo di cambiare apertamente le regole del gioco, mantenendone inalterate la dimensione pubblica, politica e territoriale. Fallito il primo esplicito approccio neoimperiale degli Stati Uniti all’ordine mondiale, a Washington sembrano ancora incerti su quale strada intraprendere, forti di una sola consapevolezza: che il tornare indietro è semplicemente impossibile.
3. Anche in seguito al vuoto causato dalla sconfitta irachena, il sempre precario ordine mediorientale sta conoscendo un avvitamento inedito, in cui molti protagonisti stanno cambiando il loro ruolo tradizionale. Israele non è più l’incontestata potenza militare della regione, tendenzialmente «pro status quo»; l’Iran, al suo punto di massima proiezione regionale, sembra disposto a giocarsi il tutto per tutto nella ben più importante partita nucleare; la Turchia mostra un nuovo attivo interesse per l’area che mette in tensione i rapporti con i suoi alleati non solo regionali; l’Egitto fatica a mantenere un basso profilo, continuando a investire sulle speranze di una pax americana tra Israele e Palestina che si riducono ogni giorno di più anche per la debolezza manifestata dagli Stati Uniti. Ciò che accomuna sempre di più i diversi attori è che tutti sembrano in grado di impedire il successo altrui, ma nessuno appare credibilmente nelle condizioni di far trionfare il proprio. Il fatto è che con la caduta del tiranno molti hanno tratto vantaggio nel breve periodo: Israele, il Kuwait e l’Iran hanno visto scomparire un acerrimo nemico; George W. Bush ha chiuso la partita iniziata dal padre; i curdi e gli sciiti iracheni (cioè la vasta maggioranza) sono più liberi e probabilmente non poi tanto più insicuri di prima. Ma nessuno, finora, è riuscito a trasformare questi vantaggi immediati nelle fondamenta per un futuro più stabile.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " La fretta di Obama "
Franco Venturini
George Bush, prima di lasciare la Casa Bianca, aveva già previsto un progressivo disimpegno dalla guerra cominciata nel 2003. Ma il suo successore è andato ben oltre: ha contrapposto la «guerra sbagliata» contro Saddam alla «guerra giusta» contro i talebani afghani, e il ritiro dall’Iraq è così diventato un test cruciale di quella sua credibilità che in altri settori (Guantanamo, Iran, Medio Oriente, lo stesso Afghanistan) sta per ora facendo cilecca.
Cinquantamila soldati Usa resteranno a Bagdad fino alla fine del 2011 per addestrare e appoggiare le forze armate irachene. Ma il ritiro dell’ultima unità da combattimento segna inevitabilmente uno spartiacque, e induce a soffermarsi su due questioni ancora in attesa di verifica storica: i timori su quel che potrà accadere ora in Iraq, e il tentativo di tracciare un bilancio non partigiano della «guerra di Bush».
Il primo tema è certamente il più urgente. Luglio e agosto sono stati in Iraq mesi sanguinosi costellati di attentati, ma oltre al ritorno delle stragi a preoccupare è la paralisi della politica
proprio ora che l’America le tende il bastone del comando. Cinque mesi dopo le tanto celebrate elezioni i due rivali Allawi e al-Maliki non sono riusciti a formare un governo, il Parlamento è immobile nelle sue divisioni, restano nei cassetti provvedimenti essenziali per la stabilità futura a cominciare da un più equo accesso di sciiti, sunniti e curdi alle ricchezze petrolifere. I soldati-tutori se ne vanno, insomma, mentre i tutelati appaiono del tutto incapaci di assumersi le loro nuove responsabilità. E a covare sotto la cenere restano gli odi etnici e religiosi, le voglie di vendetta, le tentazioni separatiste del Kurdistan.
La speranza è che la fretta di Obama produca a Bagdad l’effetto di una scarica elettrica, e risvegli, se esistono, le volontà sopite di riconciliazione nazionale. Ma non sono in molti a crederci, e a non prevedere piuttosto un progressivo riaccendersi di faide sanguinose con effetti destabilizzanti per tutta la regione. Per questo c’è chi ritiene che Obama non potrà rispettare la prossima scadenza, quella del tutti a casa entro la fine del 2011. Generali e diplomatici suggeriscono un percorso più graduale e più legato alle effettive necessità del momento. Ma forse costoro dimenticano che per Obama, così come il 2010 è l’anno delle elezioni di mid-term, il 2012 è l’anno delle presidenziali.
Poi c’è il bilancio della guerra. L’attivo si chiama soprattutto Saddam Hussein. L’eliminazione, cioè, di un tiranno sanguinario quanto pochi altri, capace di sterminare la sua gente ma anche di ignorare, come dimostrò in Kuwait, le regole più elementari della convivenza internazionale. Gli ultimi anni hanno poi portato un indubbio miglioramento delle condizioni di vita, e sono state poste in essere le fondamenta essenziali della democrazia: un vero parlamento (anche se bloccato), elezioni cui gli iracheni hanno risposto in massa, una informazione pluralista.
Ma esiste, eccome, anche il passivo. Le armi di distruzione di massa che non c’erano, i 4400 morti americani e le alcune centinaia di migliaia di morti iracheni, la trasformazione dell’Iraq nel più grande campo mondiale di reclutamento e di addestramento per Al Qaeda, le enormi distruzioni fisiche che ancora oggi limitano le forniture di elettricità, i dubbi sull’efficacia del «nuovo» esercito, il forte ritardo nella produzione di petrolio, il ritiro, in questi mesi, di molte imprese che senza adeguata protezione non se la sentono di continuare a svolgere il loro lavoro nel settore civile.
Ma soprattutto, sul piatto negativo della bilancia gravano due altri elementi. Uno è strategico e si chiama Iran. Con i fratelli sciiti al potere a Bagdad e privati del loro tradizionale contrappeso regionale, gli iraniani sono subito diventati quel che continuano ad essere oggi: un problema se possibile più grave di Saddam. L’altro elemento prima che umanitario è d’immagine e dunq u e d i p o l i t i c a , e s i c h i a ma A b u Ghraib. Nel mondo esistono di sicuro orrori più grandi. Ma da lì ci sono venute le immagini in mondovisione, lì erano in gioco i principi e gli ideali dell’America e dell’Occidente, da lì è venuto un danno che ancora oggi risulta difficile misurare.
Il passivo ci sembra più pesante dell’attivo. Ma la partita, ora, è appunto qui. Gli iracheni possono cambiare il bilancio, possono aiutare se stessi e gli altri, a cominciare dall’America e da Obama, perché presto la sentenza finale sarà soltanto nelle loro mani.
Il FOGLIO - " Chi è riuscito a Baghdad può fare il bis "
Iraq
Sarebbe facile ironizzare sull’ultimo giorno di guerra in Iraq dichiarato ieri, con due settimane di anticipo sulla scadenza fissata da George W. Bush nel 2008. Se ritiro vuol dire rinominare cinquantamila soldati “truppe non di combattimento” e lasciarli esattamente al loro posto, e non rinominare una brigata per farla sfilare attraverso la linea di confine sud con il Kuwait e dire a favore di telecamere “era l’ultima unità da combattimento”, allora è vero, ci siamo: gli americani si sono ritirati dall’Iraq. Sarebbe facile. Ma la guerra è una storia seria e sul suo ultimo giorno non si scherza. I sette anni in Mesopotamia – anche se minuscoli di fronte ad altri conflitti – sono stati un nuovo tipo di scontro, alieno e ferocissimo, con regole dure e sconosciute a qualsiasi altro esercito della storia e – forse per questo – quasi impossibili da decifrare alla prima ora. I combattenti iracheni considerano un punto a loro favore riuscire a entrare con un furgone carico di esplosivo in un mercato affollato di loro connazionali e farsi saltare per uccidere un centinaio di civili. Questo era – è ancora – il concetto di “operazione riuscita”. I presunti occupanti – non più, da ieri – chiamavano invece vittoria una giornata elettorale con pochi morti e alta affluenza ai seggi. Resta la grande lezione dell’Iraq, difficile da aggirare, impossibile da lasciare indietro. La situazione a Baghdad e nel resto del paese, più o meno nella seconda metà del 2006, era degenerata a tal punto che nessuno avrebbe scommesso sulla possibilità di una vittoria finale. L’America è stata capace di trovare la soluzione, nella forma di una geniale dottrina militare che sa tramutare la maggioranza dei nemici in alleati. E soltanto dopo averla applicata, da vincitrice, ha annunciato il calendario del disimpegno. Washington dovrebbe ora ricordare. Le guerre che sembrano impossibili da vincere, anche a Kabul, si possono in realtà vincere. E dopo, soltanto dopo, si annuncia il ritiro.
IL SOLE 24 ORE - Gianandrea Gaiani : " Ritorno in caso d'emergenza "
Le truppe statunitensi lasciano l'Iraq attraversando la stessa frontiera kuwaitiana utilizzata per invaderlo nel 2003 ma la bandiera a stelle e strisce sventolerà ancora a lungo a Baghdad.
Con il rimpatrio dell'ultima brigata da combattimento Washington manterrà fino al 2011 in Iraq 50mila militari per il supporto e l'addestramento delle forze locali. Un contingente ragguardevole, sufficiente a svolgere i compiti di assistenza ma anche di deterrenza nei confronti dei vicini dell'Iraq, superiore a quella schierato a tempo pieno in Corea del Sud e di poco inferiore al numero di militari che Washington mantiene in Europa.
Il limite, sottolineato anche dai vertici politici e militari di Baghdad, riguarda la breve durata dell'operazione " Nuova Alba" che prenderà il via a settembre per concludersi nel dicembre 2011.
Un periodo insufficien-te per trasformare l'esercito iracheno in una vera macchina da guerra capace di proteggere i confini nazionali, gestire mezzi armamenti moderni e attuare operazioni su vasta scala.
La fine di Iraqi Freedom lascia l'Iraq privo di reali capacità militari, con appena un embrione di marina e aeronautica e un esercito composto da oltre 200 mila militari in gran parte reclute male armate e dotate solo di un sommario addestramento alle operazioni di controllo del territorio condotte con piccoli reparti. Capacità forse adeguate nelle operazioni contro i miliziani di al-Qaeda ma irrilevanti in un conflitto convenzionale per combattere il quale l'Iraq non ha neppure le armi pesanti necessarie: mezzi corazzati, artiglieria, elicotteri da attacco e cacciabombardieri. Washington comincia ora a fornire all'Iraq i primi mezzi da combattimento inclusi i carri armati Abrams e i blindati Stryker, ma ci vorranno anni perché gli iracheni sappiamo impiegarli.
Il comando statunitense in Iraq ha sottolineato la ripresa delle attività delle milizie di alQaeda nonostante la recente eliminazione di molti leader. Un'escalation di attentati che non ha coinvolto le forze statunitensi con il chiaro intento di non irritare il nemico che ha deciso di andarsene.
Citando fonti dell'amministrazione Obama il New York Times ha confermato quanto anticipato il 13 agosto dal Sole 24 Ore circa il massiccio invio in Iraq, dal 2012, di contractors di società private per garantire la protezione delle installazioni americane in Iraq e curare le consulenze alle forze di Baghdad.
Si parla di almeno 7mila uomini alle dipendenze del Dipartimento di Stato coordinati dall'ambasciata americana a Baghdad. Una scelta che ridurrà l'impatto sull'opinione pubblica di eventuali perdite ma che non è esente da rischi. Il Dipartimento di Stato non ha mai gestito operazioni di consulenza militare su vasta scala, i contractors risultano meno affidabili e meno autorevoli dei militari.
Secondo indiscrezioni gli accordi bilaterali del novembre 2008 includono clausole segrete che prevedono il rapido afflusso di truppe dagli Stati Uniti in caso di necessità. Secondo l'ex ambasciatore a Baghdad, Ryan Crocker, non si può nemmeno escludere un prolungamento della presenza militare. «Abbiamo un partner iracheno e non saremo certo noi a prendere decisioni unilaterali. Se ci chiederanno di rivedere insieme il periodo post-2011 sarà nel nostro interesse strategico ascoltarli».
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ora sarà guerra civile tra laici e religiosi"
Robert Baer
«Questo ritiro delle truppe combattenti schiude le porte alla guerra civile». Parola di Robert Baer, che da Beirut guidò negli Anni 90 le operazioni della Cia in Medio Oriente prima di essere mandato in Iraq, diventando il protagonista delle gesta poi raccontate nel libro «See No Evil» da cui è stato tratto il film «Syriana».
Su quali basi prevede lo scoppio della guerra civile in Iraq?
«Senza più le truppe americane sul terreno, sono due i focolai da cui una guerra civile minaccia di iniziare in tempi non troppo lunghi. A Nord fra sunniti e curdi, e a Sud per l’egemonia politica della maggioranza sciita».
Partiamo da Nord, qual è la ragione del contenzioso sunniti-curdi?
«Sunniti e curdi si contendono a Mosul e Kirkuk le aree dei pozzi petroliferi. I curdi li rivendicano come loro, e hanno le milizie armate per difenderli, ma i sunniti non hanno mai accettato di essere il partito perdente nel dopo-Saddam Hussein, destinato a rinunciare a potere e risorse a vantaggio delle altre etnie. Finora sono stati i militari americani a fare da cuscinetto, scongiurando gli scontri armati attorno ai pozzi. Senza di loro nessuno appare in grado di svolgere tale ruolo, perché le forze di sicurezza irachene sono divise in reparti etnici, non hanno alcuna compattezza nazionale. I soldati sono fedeli agli ufficiali solo se appartengono alla loro stessa etnia».
E a Sud qual è il pericolo?
«Il braccio di ferro in atto ha come posta in palio la primazia sciita, ovvero il controllo politico dell’etnia di maggioranza, da cui dipende il controllo della nazione».
Fra chi è lo scontro?
«Da una parte ci sono i laici, guidati dall’ex premier Allawi, dall’altra i religiosi. I leader dei due fronti sono all’opposto su tutto, ma in comune hanno il fatto di guardare soprattutto a Teheran, dove non a caso ogni capo partito si è recato dopo le ultime elezioni. La perdurante assenza di un governo a Baghdad svela le profonde divisioni esistenti fra questi due campi sciiti, che potrebbero portare a una faida armata. Il cui arbitro, o regista, potrebbe essere solamente l’Iran. Non certo gli Stati Uniti».
C’è uno scenario per scongiurare questi conflitti etnici?
«Ce n’è uno solo. L’Iraq ha bisogno di un uomo forte per restare unito, com’è avvenuto in passato. Ma al momento nessuno dei leader politici nazionali attuali lo è abbastanza per riuscire a imporsi».
Washington si accinge ad affidare a un esercito di contractor civili il sostegno alle forze irachene di sicurezza. Le pensa che sia una ricetta che potrà funzionare?
«Un esercito di mercenari per sostenere le truppe regolari? Mi sembra la ricetta peggiore. Ovunque andranno, saranno visti come stranieri, invasori, pagati a suon di dollari. Finiranno per nuocere alle forze locali che si propongono di aiutare. A mio avviso è la ricetta per un disastro».
Non crede che il Dipartimento di Stato possa riuscire a gestirli con successo?
«Il Dipartimento di Stato non riesce a gestire neanche la sicurezza delle proprie ambasciate nel mondo, che è notoriamente affidata al corpo dei marines, figuratevi se potrà mai guidare una forza militare di migliaia di uomini schierati in zona di guerra».
Allora come spiega la decisione adottata dall’Amministrazione Obama?
«Con l’incapacità di ammettere la sconfitta. Nessun governo americano è mai riuscito ad ammettere una sconfitta. Ma l’Iraq dimostra che non è possibile esportare la democrazia in Medio Oriente. Sbagliava Bush e sbaglia Obama».
Eppure il livello delle violenze in Iraq è diminuito...
«Quando continuano a esserci attentati in cui vengono uccisi 40 o 60 soldati a volta, non lo si può affermare. Ciò che è avvenuto fra il 2005 e il 2007 è stata un’operazione massiccia di pulizia etnica anti-sunnita nelle roccaforti della guerriglia. Ha avuto successo, certo, ma non è riuscita a spazzare via del tutto Al Qaeda dall’Iraq, come gli ultimi attentati confermano».
La STAMPA - Giacomo Galeazzi : " Il Paese è nel caos. La Casa Bianca ha tradito la pace "
Shlemon Warduni
Le truppe americane lasciano dietro di sè un Iraq peggiore di quello che hanno trovato sette anni fa. Qui non esiste più un vero governo e i militari iracheni non riescono a garantire il rispetto della legge». Mentre punta l'indice contro la Casa Bianca per «aver tradito il dovere di portare pace e sicurezza», pesa attentamente le parole, monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, leader carismatico dei Caldei dell'Iraq.
Monsignor Warduni, lei considera quella in Iraq una missione fallita?
«Dopo aver rovesciato il regime di Saddam Hussein, gli Stati Uniti non hanno realizzato ciò che avevano promesso al mondo. Adesso ci sono soltanto macerie, siamo diventati bersagli, abbiamo paura a uscire di casa. La situazione è peggiorata per tutti, soprattutto per noi cristiani. Il ritiro degli Stati Uniti è una disastrosa fuga dalle responsabilità, che moltiplicherà le stragi e accrescerà ancora di più l'instabilità».
Qual è stato il suo primo pensiero all'annuncio di Obama che i soldati si sarebbero ritirati?
«Aveva ragione quel grande santo di Karol Wojtyla a condannare la guerra in Iraq: sono stati creati più problemi di quanti non ne siano stati risolti. Per come è andata a finire, sarebbe stato meglio non intervenire affatto. Con il ricorso alla forza si è soltanto distrutto e non si è procurato alcun beneficio al Paese. Si è messo al centro di tutto il tornaconto economico, la salvaguardia degli interessi stranieri e non la tutela dei valori, della coscienza, del bene comune. E così nelle strade delle nostre città non c'è traccia di democrazia, soltanto paura e violenza. Paghiamo un prezzo altissimo di sangue e terrore».
Che cosa non ha funzionato in questi anni?
«Gli Stati Uniti hanno pensato esclusivamente al proprio guadagno e nessuno si è preoccupato di fare gli interessi dell'Iraq e degli iracheni. Soffriamo la mancanza di un governo stabile. Senza un'autorità reale e un'effettiva sovranità, impera il caos. Tra autobombe, kamikaze, sequestri di persona e scontri tra clan, il nostro Paese è diventato la culla di ogni terrorismo. Bande di assassini si muovono come vogliono, dentro e fuori i confini. Non c'è mai stato il minimo impegno concreto per insegnare la vera democrazia, per farla crescere e maturare negli animi delle persone. Lo spirito democratico non impone né si esporta con la guerra. Ora sono tragicamente chiari a tutti i motivi del “no” del Vaticano all'intervento armato in Iraq. Prima c’era la dittatura, però la gente viveva abbastanza bene. Oggi vige l’insicurezza totale. Nessuno è sicuro di tornare a casa la sera. Ogni giorno spunta una nuova sigla di terroristi».
Il destino dell'Iraq torna nelle vostri mani?
«Soltanto sulla carta. La maggioranza degli iracheni vuole un governo in cui tutti i partiti collaborino per la pace e la ricostruzione. Ma finora non ci sono state né compartecipazione né riconciliazione. Sono prevalsi solo interessi personali e di fazione. E' cresciuto il fanatismo religioso ed etnico. La stabilità è possibile solo sulla base condivisa che tutti insieme si cerchi il bene degli iracheni. Le truppe straniere scappano senza aver costruito la casa comune su basi solide. Ci appelliamo alle Nazioni Unite e a chiunque abbia buona volontà. Non abbandonateci o sarà la fine e il nostro disastro aumenterà l'insicurezza del mondo. Senza cooperazione saremo tutti travolti dal crollo di un sistema devastato e privo di fondamenta».
per inviare la propria opinione a Stampa, Corriere della Sera, Foglio, Sole 24 Ore, cliccare sulle e-mail sottostanti