Il caso Sheikh Jarrah, l'incapacità di vedere tutto intero il quadro politico
di Angelo Pezzana
una delle due abitazioni del quartiere di Sheikh Jarrah,prima della nuova attribuzione di proprietà
Da quando Gerusalemme è stata riunificata dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, la divisione in est e ovest ha perduto gran parte del suo significato. Prima di quella data, l’occupazione giordana di parte della città poteva autorizzarne la separazione, di fatto un confine. Non più dopo. Molti quartieri della parte orientali sono infatti a popolazione mista, sarebbe impossibile oggi prefigurare qualunque divisione. Una questione che non ha solo caratteri di natura giuridica, ma anche, e soprattutto, politica, dato che sulla capitale i giudizi tra Israele e le istituzioni internazionali divergono sostanzialmente. Israele sostiene il suo buon diritto di costruire su qualunque parte del territorio, Gerusalemme inclusa, come è logico per qualunque altro stato del mondo. Ma Israele non gode di parametri eguali agli altri stati, il conflitto con i palestinesi, mantenuto intatto dalla guerra di indipendenza del 1948, è un’arma troppo utile alla delegittimazione dello Stato ebraico perchè possa trovare una soluzione condivisa. Ci sarebbe, certo, quella che prevede la scomparsa di Israele quale stato ebraico e domocratico, annullato in uno binazionale, nel quale gli ebrei ritornerebbero ade essere cittadini di serie B in un ennesimo stato arabo. Per questo ogni sviluppo urbano in zone che includano anche popolazioni arabe, viene visto negativamente dagli organismi internazionali. L’ultimo caso è quello del quartiere di Sheikh Jarrah, nella parte orientale di Gerusalemme, dove due abitazioni da arabi sono state restituite ai precedenti proprietari ebrei, ai quali erano state confiscate – i terreni, non le case- dopo la divisione del ’48. La loro richiesta di reintegro è stata accolta dal tribunale, e le due famiglie arabe, gli Hanun e i Rawie, sono state obbligate ad andarsene, dopo che si erano rifiuate di pagare almeno l’affitto. Da qui il ‘caso Sheikh Jarrah’, ma sarebbe più corretto scrivere Sheikh Jarrah/Shimon HaTzadik, come si chiama oggi il quartiere, che vede una popolazione mista, 200.000 ebrei e 270.000 arabi, compreso tra il Monte Scopus, sede dell’Università ebraica, fondata nel 1925, e il grande ospedale Hadassah, la cui visita si consiglia a coloro che tacciano Israele di apartheid, per vedere come e quanto l’integrazione della componente araba sia un fatto compiuto, altro che discriminazione. Ma il destino di quelle due famiglie ha innescato una protesta in difesa del loro diritto a rimanere in quelle due case, un diritto garantito, è stato detto, da un tribunale dello scomparso impero ottomano, una documento oltre tutto molto ambiguo, perchè riferito a un territorio allora deserto, senza costruzioni di sorta. Una questione da dirimere sotto l’aspetto legale, ma pur sempre senza nasconderne l’aspetto politico. Gli arabi non sono riusciti a sconfiggere in guerra Israele, e con la sconfitta anche la proprietà di territori sono diventati israeliani, sarebbe ipocrita non riconoscere a Israele un diritto che appartiene a tutti gli altri stati del mondo. A Gerusalemme, la politica dei governi israeliani, tutti, è stata quella di facilitarne l’unità, attraverso la costruzione, e l’ampliamento, di nuovi quartieri, quelli di cui oggi leggiamo il nome sui giornali, definiti ‘insediamenti’, mentre non sono altro che la dimostrazione di quanto la capitale si è sviluppata negli ultimi decenni.
Ogni venerdì, nel primo pomeriggio, un gruppo di giovani attivisti, in difesa dei diritti dei palestinesi, come si autodefiniscono, si ritrovano nelle vicinanze delle case nelle quale sono rientrate le due famiglie di ebrei, portando, così dicono i cartelli e gli striscioni, solidarietà per l’inguistizia commessa. I sentimenti che li animano sono nobili, ma non tengono conto della storia del popolo al quale anche loro appartengono, una storia che ha visto il ritorno dopo duemila anni sulla terra che era stata Israele e che è tornata ad esserlo. Un paese con un alto senso della giustizia, della libertà di espressione e di parola che ha pochi uguali nel mondo, ma che si rende anche conto che questi valori vanno difesi contro chi, magari in buona fede, non riesce a comprendere quanto pesino storia e politica nelle azioni che un governo deve prendere per impedire che quanto è stato creato non rischi di andare perso, perchè la previsione di quanto potrà avvenire nel futuro non può non guidare le scelte di oggi.