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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Joseph Roth, Fragole 16/08/2010

Fragole                Joseph Roth
Adelphi                  Euro 14

Quando arrivarono al tetto, i muratori decisero di fare una gran festa. L’ingegnere capo bevve troppa acquavite, si accostò all’orlo del ponteggio e cadde giù. Una bella iattura, non solo per lui, poveretto, ma anche per l’albergo nuovo di zecca. Chi ci sarebbe mai venuto, adesso? Soprattutto era stato il modo in cui s’ era rotto l’osso del collo: “Finì al suolo così straziato, che non si riuscì neppure a stabilire se fosse cristiano o ebreo. Lo seppellirono nel sentierino che separava il cimitero cristiano da quello ebraico”.
Fin dall’inizio, Joseph Roth non si lascia sfuggire l’occasione per farci capire con chi avremo a che fare. I protagonisti dei due splendidi non-finiti, pubblicati da Adelphi col titolo “Fragole”, sembrano quasi mezze chimere, sfuggono e riappaiono, si fanno inghiottire dal destino senza sapere da che parte stare.
Concepiti tra il 1928 e il 1930, quando Roth era ancora nel pieno della sua stagione creativa, questi esercizi narrativi si cristallizzano attorno al  nucleo espressivo della metamorfosi. Non è però la trasformazione angosciosa di Kafka; quelle di “Fragole” sono piuttosto anime senza fissa dimora, ebrei per caso, cristiani senza pensarci, poveri o ricchi a seconda dei capricci del racconto, giacchè è lui, volubile e imbroglione, il vero dominatore del libro.
Guardate, per esempio, il Signor Perlefter, il parente ricco che accoglie e sfama il giovanotto. E’ un borghese odioso e taccagno, ma anche tanto privo di qualità da diventare quasi eroico nel suo qualunquismo proteiforme: “ Quando era infelice, ma anche quando fingeva di esserlo, si afflosciava come una gomma sgonfia, poteva trovar posto su una seggiolina da bambini e riempire una grande, comoda poltrona in pelle ma mi sento in lieve difficoltà quando devo dire se il Signor Perlefter era alto, basso o di media statura”.
Anche l’abitazione di costui, a un tempo splendida e squallida, trasuda ambiguità, perché bisogna pur che si vedano i soldi, però mantenerla costa troppo. E’ una dimora degna del Palazzo del Sonno nelle Metamorfosi di Ovidio, ma mentre quell’architettura d’irresistibili oblii si nascondeva in una montagna cava nel paese dei Cimmeri,il Palazzo dell’Avarizia immaginato da Roth si staglia nella Vienna inizio Novecento, sublime e abietta, mercantilistica e pavida. E se i ricchi soffocano per la paura di perdere i loro beni, nemmeno gli squattrinati in cerca di promozione sociale, ci fanno una gran bella figura. Molto meglio rifugiarsi in un immaginario shtetl dell’infanzia, dove i diseredati sono costretti a vivere di miracoli, farsi amici i diavoli che sibilano delle stufe durante interminabili inverni o cercare improbabili ricchezze: “Stavamo a parlare tutto il giorno dei segreti sottoterra. Che sensazione camminare sulla strada e, per ogni passo che si faceva, credere di calpestare oro e pietre preziose”.
Si potrebbe pensare che la voce narrante dell’umile figlio di un vetturino ebreo, che vuole far fortuna lontano da casa, abbia inflessioni autobiografiche. Non era forse Roth nato a Brody in Galizia e da lì scappato alla volta della grande Vienna? Pure, nulla s’arresta in queste filastrocche, in cui ogni episodio s’incastra nel successivo, così che persino l’autobiografia si dissolve in un tesoro che non si trova.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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