Ebrej, via Vico. Mondovì XV-XX secolo
A cura di Alberto Cavaglion
Zamorani Euro 28
A Mondovì, in via Vico, in un caseggiato abbastanza capiente da accogliere anche una sinagoga, hanno abitato gli ebrei monregalesi. Ricco di stanze che si aprono una nell’altra e di passaggi nascosti, questo complesso edilizio ha accolto per più di cent’anni dolori e affetti della vita quotidiana, litigi e speranze di una intera comunità. La vicenda di questa minoranza è esemplare per capire un certo passato ebraico nella nostra penisola. Soprattutto a nord degli Appennini, gli insediamenti giudaici furono un pulviscolo di nuclei frammentati, capaci però di adattarsi e di trasformare le costrizioni e i provvedimenti discriminatori in elementi di coesione e identità. Così il ghetto di Mondovì, realizzato nel 1724 per decreto sabaudo, in un isolato adiacente alle mura medievali, si configurò fin da subito come scelta forzata ma anche come macchina identitaria, occasione per condividere, assieme agli spazi, un’alterità consapevole.
Quando finalmente, con l’editto del 1848, Carlo Alberto sancì l’uguaglianza, anche il centinaio di ebrei di Mondovì fu libero di mescolarsi al resto della popolazione e di prendere parte al sogno dello Stato unitario. L’esodo verso i grandi centri fece sì che, qui come altrove, la popolazione ebraica scemasse ancora, cosicché, quando giunsero le leggi razziali e poi l’occupazione nazista, del giudaismo monregalese non rimanevano che tenui tracce. Ma basta poco per far storia. Il racconto di come Marco Levi, “piccolo banchiere e industriale ceramista”, si salvò dopo l’8 settembre è una delle sorprese del libro ora dedicato alla storia del ghetto di Mondovì. Ai ricordi di Levi fa infatti da controcanto la testimonianza di Maria Vinai, la contadina che lo accolse in famiglia, nella propria baita di montagna, e lo nascose per diciassette mesi, a tratti facendolo scendere in una buca coperta da neve e cenere. “Non eravamo informati circa le abitudini degli ebrei – racconta Maria ormai novantenne – e la nostra modesta cultura non ci consentiva neppure di conoscere i motivi della persecuzione…fu più forte il nostro senso di umanità nei confronti di un perseguitato rispetto alla presa di coscienza del grande rischio che correvamo e che facevamo correre alle nostre bambine”. E, cosa ancor più straordinaria, per tutto quel tempo le bimbe, a scuola, non fecero parola di “monsù” Levi, che rimase nel dopoguerra l’unico ebreo di Mondovì.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore