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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.08.2010 Comparse nel film di Riefenstahl, poi di nuovo nel Lager
I bambini zingari traditi da 'zia Leni'

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 agosto 2010
Pagina: 1
Autore: Claudio Magris
Titolo: «Piccoli nomadi usa e getta per la regista di Hitler»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/08/2010, a pag. 1-46, l'articolo di Claudio Magris dal titolo " Piccoli nomadi usa e getta per la regista di Hitler".


Leni Riefenstahl

Nel 1941 Leni Riefenstahl inizia a girare, nei pressi di Salisburgo, un film che sarà finito un paio d’anni dopo, Tiefland. Lei è già una delle grandi e creative figure della storia del cinema e ha una posizione di eccezionale potere nel Terzo Reich, un rapporto diretto con Hitler; non a caso per il film, che non sarà certo una delle sue opere più riuscite, viene stanziata una somma enorme. Per quel film, che avrebbe dovuto essere girato in Spagna — cosa in quel momento impossibile — la grande regista ha bisogno di comparse, non solo ma in particolare di bambini, dall’aspetto meridionale, che possano essere scambiati per spagnoli. È difficile trovarli fra gli austriaci dalla pelle rosea che già al mite sole dell’Adriatico si rosola come un gambero e allora li preleva fra gli zingari che i nazisti hanno raccolto e deportato a Maxglan. Nei dintorni della bellissima e dolce Salisburgo — la città della musica e dell’arte con le sue rassicuranti cupole barocche, in cui Hofmannsthal, inaugurando nel 1919 il celebre festival, aveva proclamato la fede nella pace e nella civiltà d’Europa — c’è, a Maxglan, un Lager in cui gli zingari, soprattutto sinti, di ogni età e condizione sono ammassati in attesa del loro destino, che poco dopo sarà per quasi tutti la morte ad Auschwitz e in altri campi di sterminio.

Il fetore dei forni crematori non turberà granché, in Germania e in Austria, le ridenti e belle città vicine, che di quegli orrori vorranno saperne assai poco, così come del resto a Trieste la Risiera, l’unico campo di sterminio in Italia, è stata a lungo praticamente ignorata dalla città, anche se era facilissimo sapere cos’era successo in quell’edificio rossastro, vicino allo stadio affollato la domenica per le partite di calcio.

Leni Riefenstahl «prende a prestito» — con un regolare contratto nel quale figurano pure le autorità delle SS adibite al controllo del Lager — numerosi bambini sinti. Il film e le fotografie mostrano piccoli visi bruni e teste ricciute, sguardi timidi e maliziosi; durante le riprese ricevono qualche cioccolatino, anche se non la paga stabilita, e chiamano «zia Leni» la regista. Finite le riprese, la zia li riconsegna al Lager, dal quale poco tempo dopo saranno inviati allo sterminio.

All’inizio degli anni Ottanta un’altra regista tedesca, Nina Gladitz, gira un film — proiettato e discusso recentemente a Salisburgo durante il festival — che ricostruisce questa storia, fondandosi sulle testimonianze dei pochissimi sopravvissuti, in particolare di Josef Reinhardt e di altri bambini di allora, la cui infanzia è stata il Lager. I loro racconti smentiscono le dichiarazioni rese da Leni Riefenstahl dopo la guerra, secondo le quali lei avrebbe ignorato la sorte che li attendeva e avrebbe creduto che Maxglan fosse un campo di accoglienza per i nomadi. A quei bambini, ha sostenuto la grande regista, non sarebbe successo nulla e anzi lei stessa li avrebbe più tardi incontrati tutti in buona salute.

Il film di Nina Gladitz — Tempo del silenzio e della tenebra — fa parlare i pochi sopravvissuti, i quali invece raccontano come avessero avuto piena fiducia nelle promesse, mai mantenute, di zia Leni di proteggerli. Con la forza e l’epicità dell’esperienza vissuta e con la semplicità di chi racconta la vita senza schemi ideologici e senza paura, quei volti maturati nell’orrore dicono con involontaria potenza espressiva quei lontani giorni d’infanzia, la gentilezza di zia Leni in cui d’improvviso trapela una spietata disumanità.

Il film di Nina Gladitz ha provocato un processo intentatole da Leni Riefenstahl e durato quattro anni, che è successivamente costato a Nina Gladitz un ostracismo da parte dell’industria cinematografica e televisiva, giacché Leni Riefenstahl, geniale regista non solo di alcuni grandi film ma anche della propria immagine, è riuscita a far sì che il suo passato nazista non offuscasse la sua gloria, osannata anche dalla cultura di sinistra e femminista.

Il processo l’ha vinto Nina Gladitz relativamente a tre punti sui quattro contestatile; il quarto concerne una frase che ha dovuto ritirare dal film, visto che l’esplicito ordine di Himmler di annientare fisicamente tutti gli zingari risale al 17 luglio 1942 e non al ’41. Ma era difficile ritenere in buona fede che Maxglan fosse un campo di raccolta sostanzialmente innocuo, tanto più che le campagne ufficiali di odio contro gli zingari e le loro deportazioni erano in atto da tempo.

Pochi giorni fa, a Salisburgo, Rosa Gitta Martl, figlia e nipote di deportate, ha letto delle asciutte testimonianze, inappellabili nella loro sconvolgente oggettività. Sua madre, Rosa Winter, era una delle bambine ingaggiate e una volta aveva marinato le riprese. Leni Riefenstahl, dopo averle ingiunto di inginocchiarsi e chiedere scusa, visto che la bambina recalcitrava, taglia corto: «E allora, nel Lager». La bambina finirà a Ravensbrück e sarà una delle poche sopravvissute, mentre sua madre morirà gassata ad Auschwitz.

Leni Riefenstahl era certo una nazista convinta, come dimostrano tanti suoi gesti anche non richiesti di consenso entusiasta. Ma era probabilmente in primo luogo un’artista totalmente pervasa dal narcisismo presente in molti artisti, ai quali interessano solo l’opera e il loro Io che si esprime nell’opera. I poeti hanno un cuore freddo, ha scritto Milosz, grande poeta; se scrivono una lirica sulla morte di un bambino, corrono il rischio di commuoversi più per le loro sillabe e le loro rime che per la morte di quel bambino. A Leni Riefenstahl interessava più di ogni altra cosa il suo film, l’eternità artistica della forma; il resto, il piccolo effimero destino di anonimi uomini, donne e bambini, le era indifferente.

In questo nichilismo consiste il suo nazionalsocialismo. Il trionfo della volontà, il suo film che glorifica il congresso nazista di Norimberga del 1934, è un capolavoro di sinistra poesia, in cui la tecnica diviene cupo rito arcaico e sacrale di una perfetta manifestazione di potenza. Lo sguardo gelido della cinepresa coglie, in questa celebrazione in cui la tecnica diventa mito, alcuni dettagli che potrebbero essere colti da uno sguardo antinazista: le disgustose mani sudate di Hitler, che se le asciuga sui calzoni o le tormenta nevroticamente dietro la schiena, la sua saliva agli angoli della bocca che urla, l’oscena fascinazione erotica delle donne nei suoi confronti, le lingue passate su labbra gonfie, la repellente virilità da caserma dei giovani della Hitlerjugend con quelle pacche sui torsi nudi. In una scena sacrale, mentre si onorano le bandiere bagnate col sangue dei primi nazisti caduti agli inizi del movimento, lo sguardo di un gatto che scivola nei pressi si posa su quel rito ieratico con indifferenza assoluta, con l’indifferenza della natura nei confronti di ogni sua singola manifestazione. Quest’indifferenza riguarda, forse pure per Leni Riefenstahl, anche il pathos del Reich Millenario, ma riguarda certo pure le sue vittime, i suoi orrori, il destino di quei bambini. In questo nichilismo, lei è profondamente, autenticamente nazista.

Gert Kerschbaumer — cui si devono fondamentali ricerche su quegli anni, sulle loro vittime e sulle complicità di quelle infamie — ha pazientemente ricercato e portato alla luce, uno per uno, i nomi di 245 sinti d’ogni età deportati nel Lager vicino alla città di Mozart. Maria Kerndlbacher, nata nel 1940, deportata a Maxglan nel 1943, assassinata ad Auschwitz l’8 aprile 1944; Agathe Herzensberger, la cui madre e i cui fratelli maggiori avevano recitato nel film di Leni Riefenstahl, nata nel 1941, deportata a Maxglan nel 1943, assassinata ad Auschwitz il 21 luglio 1943…

Come appare banale, dinanzi a questo nudo elenco, la scenografia del Trionfo della volontà. Quei nomi sono ancora più significativi perché strappano all’oblio — ulteriore violenza — vittime che, per la loro origine etnica, passano spesso in secondo piano anche quando si parla dello sterminio nazista, come se la loro soppressione fosse un po’ meno sconvolgente. C’è una sintassi della violenza e dell’oblio nei confronti di chi vive nell’ombra e non alla ribalta della Storia. È quella sintassi dell’esclusione che colpiva tanto Johannes Urzidil, lo scrittore ebreo tedesco di Praga, quando leggeva sul giornale frasi quali «nel crollo del Ponte Carlo nessuno si è fatto male, solo un garzone panettiere è annegato» e si chiedeva perché il giornale non scrivesse più semplicemente che un garzone era annegato, senza dargli del nessuno.

Nel film di Nina Gladitz, Leni Riefenstahl è bella, algida, imperiosa, diva e divinità irraggiungibile dall’umano. C’è solo un momento in cui viene mostrato un suo volto sgomento, inorridito e solcato di lacrime, quando, durante l’attacco tedesco alla Polonia, assiste direttamente a un massacro di civili e vede quei morti davanti a sé. Questa reazione non contrasta con il gelo nei confronti delle vittime dei Lager. Lei non ha visto concretamente Auschwitz, i forni crematori e i corpi scheletrici o gassati; ha visto solo set cinematografici ed evidentemente non ha fantasia sufficiente per immaginare e sentire la sofferenza che non è sotto i suoi occhi. Sotto questo profilo, si rivela poco artista, povera di capacità di immaginazione.

Pure Eichmann, dopo aver impassibilmente parlato delle sue innumerevoli vittime, nei colloqui con il colonnello israeliano prima del processo, quando apprende che i genitori del colonnello che sta davanti a lui in carne ed ossa sono morti ad Auschwitz, inorridisce e balbetta turbato: «Ma è terribile, signor colonnello!». Quel turbamento non è segno di umanità, di partecipazione al dolore altrui; non viene dalla coscienza, ma da una reazione nevrotica. Non solo i carnefici, anche gli artisti gelidamente ed esclusivamente consacrati all’arte hanno spesso poca fantasia e nervi deboli.

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