Il dolore di un secolo nell’autobiografia di Arthur Koestler di Gianpiero Mughini
Testata: Libero Data: 14 agosto 2010 Pagina: 39 Autore: Gianpiero Mughini Titolo: «Il dolore di un secolo nell’autobiografia di Arthur Koestler»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 14/08/2010, a pag. 39, l'articolo di Gianpiero Mughini dal titolo " Il dolore di un secolo nell’autobiografia di Arthur Koestler ".
Arthur Koestler
Pochi altri intellettuali del Novecento meritano la qualifica di “testimone del secolo” quanto lo scrittore ungherese Arthur Koestler, nato a Budapest nel 1905 e morto suicida in Inghilterra nel 1983 (era malato di un Parkinson che non gli lasciava scampo). Il secolo rovente della Prima e Seconda guerra mondiale, l’avvento brutale del comunismo bolscevico e del nazismo, i tre anni in cui la Spagna venne spaccata in due dalla guerra civile, i primissimi insediamenti degli ebrei nella Palestina degli anni Venti, lui li aveva vissuti tutti da una postazione di prima linea. Tragedie che avevano attraversato la sua carne al modo della lama di un rasoio. Durante la guerra civile spagnola era stato imprigionato dai franchisti e condannato a morte; lo salvò all’ultimo momento l’inter - vento del governo britannico. Vittime dei nazisti Ebreo per parte di padre e di madre, la sua famiglia fu travolta dal nazismo: sua cugina, la figlia della sorella di sua madre, venne gasata ad Auschwitz e con lei i suoi due figli, la diciassettenne Kate e il dodicenne George. Innumerevoli generazioni di lettori in tutto il mondo hanno divorato Buio a mezzogiorno, il romanzo del 1940 che funge da paradigma nel raccontare le menzogne del comunismo sovietico, un libro per il quale Koestler subì tali attacchi personali dagli intellettuali comunisti da rasentare l’idea del suicidio. Nei miei vent’anni i suoi libri avevano fatto da magnete intellettuale per quelli di noi che volevano capire com’è che “il Dio” del comunismo avesse tradito. Alle generazioni più recenti invece il nome di Koestler dice poco. Dubito che il primo tomo della sua autobiografia, il Freccia nell’azzurro apparso in prima edizione nel 1952 e subito tradotto da Mondadori nel 1955 (Il Mulino lo ha riedito nel 1990), sia stato un libro particolarmente frequentato negli ultimi anni. La mia copia mondadoriana (completa di custodia e di fascetta) me l’aveva regalata molto tempo fa Franco Cordelli, uno scrittore e saggista di cui ho alta reputazione. Per anni è rimasta inviolata nello scaffale dove stanno gli altri quattro o cinque libri di Koestler che posseggo (ne ha scritti una trentina tra saggi e romanzi e opere di teatro). In una o due occasioni l’avevo tirata fuori e deposta sul mucchietto dei libri pronti a essere mangiati. Solo che era stata sopraffatta da altre letture più urgenti. Adesso l’ho finalmente letta. Un’autobio - grafia talmente ricca che a mezzo secolo di distanza non ci perde niente, semmmai ci guadagna nel farci conoscere e capire. Se ne trovate una copia, su e-bay o in una libreria dell’“usato”, compratela. È tra i cimeli del Novecento. Koestler era nato in un’epo - ca dove un mondo stava sfinendo e un altro stava debuttanto. Per dire del suo ambiente familiare, la madre, che soffriva di violente crisi di emicrania, era stata visitata un paio di volte da un debuttante e già famoso dottore viennese, Sigmund Freud. E mentre la carneficina della Prima guerra mondiale era alle porte, il giorno della sua nascita i giornali davano conto delle sollevazioni popolari che in Russia avrebbero aperto la strada al colpo di mano bolscevico. Quanto all’educazione ebraica di Koestler, era tutto fuorché insistita e dogmatica. Ogni volta che lo portava a spasso, il nonno gli comprava un panino al prosciutto. Al nonno il bambinetto chiese perché lui non lo mangiasse mai. «Perché sono stato educato nel pregiudizio» gli rispose. Metà ungherese e metà austriaco, fino ai vent’anni Koestler scrisse in ungherese. Dai venti ai trentacinque passò al tedesco, la lingua in cui scrisse nel 1940 Buio a mezzogiorno. Dopo di che la sua lingua letteraria divenne l’inglese. Di giorno parlava in inglese; la notte sognava in ungherese, tedesco o francese. Spasmi austriaci Cittadino dell’Impero austro- ungarico, il futuro autore di Buio a mezzogiorno ne aveva vissuto gli ultimi spasmi. Lui quattordicenne, nel 1919 i comunisti ungheresi guidati da Bela Kun si impadronirono del potere e lo tennero per cento giorni. «Il comunismo era una parola nuova nel 1919, e aveva il suono di una parola buona, giusta e ricca di promesse » scrive Koestler nella sua autobiografia. Finché sulla Comune ungherese non si scaraventarono le truppe rumene e cecoslovacche che la travolsero. In Ungheria cominciò il regime dell’ammira - glio Horthy, condito nei primi tempi da pogrom antiebraici, da bombe lanciate nelle sinagoghe e da camere di tortura. La famiglia Koestler riparò in Austria. Diciassettenne, Arthur Koestler si iscrive all’uni - versità di Vienna dove i suoi colleghi gli danno come soprannome quello del “nano” di una famosa canzone viennese. La bassa statura (al massimo del suo sviluppo arriverà a un metro e sessantotto) sarà per Koestler il motivo di un complesso di inferiorità che lo perseguiterà tutta la vita. Al punto da rifiutarsi di partecipare a feste dove sa che appariranno ragazze alte e slanciate. Lui diciassettenne, né Koestler né nessun altri della sua famiglia avevano mai sentito parlare del sionismo, del moto di orgoglio e di autoidentificazione che spingeva gli ebrei a crearsi un loro Stato e una loro bandiera in Palestina. Eppure il nostro eroe si iscrive a una confraternita studentesca sionista a capire meglio che cosa vuol dire essere ebrei nell’Eu - ropa degli anni Venti, o meglio essere connotati e vessati come tali dagli antisemiti. (Vienna era una delle patrie dell’an - tisemitismo culturale europeo.) Tre anni dopo, Koestler si imbarca per la Palestina da colono senza un soldo. Farà parte di quelle prime colonie ebraiche che a forza di lavoro manuale stavano cambiando il volto del territorio palestinese e la storia dell’identità ebraica. Cominciano lì le sue prime prove da giornalista, quello che dopo anni di fame inaudita diventa nel 1927 il suo mestiere e nel quale subito eccelle. Nel giugno del 1929 il suo lavoro di giornalista lo porta a Parigi, il baricentro del mondo intellettuale degli anni Venti, una città dove Koestler abiterà a intervalli per dieci anni: «A Parigi le case vi rimangono chiuse, ma i marciapiedi sono vostri, i caffè sono vostri, la città è vostra; e siete parte della città, sia che i suoi ritrosi cittadini vi accolgano o no. In realtà la sentite più intimamente, più sensualmente vicina di quanto non sia per loro. Essi vivono nei loro circoli ermeticamente chiusi, voi vivete all’aria aperta; essi vivono nel loro quartier, voi vivete a Parigi. Perché Parigi è una città adultera: fredda coi suoi legittimi padroni, passionale con lo straniero che passa». Arrivo a Berlino E poi eccolo arrivare a Berlino, lì dove il nazismo sta avviando la sua gran cavalcata: alle elezioni politiche del settembre 1930 il partito nazionalsocialista era passato da dodici parlamentari a centosette. Come tanti altri intellettuali del suo tempo Koestler credette che la forza nuova e progressista del momento fosse l’Urss. In tempi in cui «i rimanenti cinque sesti del mondo stavano andando visibilmete in sfacelo», in quel Paese era inebriante il suono delle macchine e delle tonnellate di cemento che sembravano stessero costruendo un mondo nuovo. Poco più che venticinquenne, Koestler si iscrisse al Partito comunista. Ci rimase pochi anni, sino al 1938. Le purghe staliniane, i processi in cui venne distrutta la Vecchia Guardia del Partito bolscevico, smentivano alla grande le sue illusioni di “intelli - gente imbecille” come lui stesso si autodefinisce nelle pagine finali del libro. Le aveva scritte nel 1950, quando l’Urss e il mondo occidentale si stavano fronteggiando paurosamente. Quando non era più possibile, scrive Koestler, bissare l’errore da lui fatto nel 1931.
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