Biranit (Israele)La vetta di una montagna dove Israele, Libano, Siria, si toccano senza simpatia. Una piccola passeggiata in mezzo a sassi e cespugli dopo un cancello scorrevole guardato da un ragazzo stanco e bruciato dal sole che controlla bene chi sei. E poi qualche vecchia baracca di legno spellata dal vento, fra i cespugli spinosi e i sassi. «Forza - dice Tzachi, 26 anni, occhi allegri color nocciola - sali su...». Una scala di ferro fra gli alberi appoggiata a una specie di vagone verniciato di nero, e poi una porta con un maniglione. E sei dentro, al buio, in un piccolo antro dove a malapena si sta in piedi. Gli occhi si abituano dopo il sole accecante, e vedi una quantità di stelline verdi in movimento inquadrate negli schermi della più incredibile tecnologia. Due lunghi ragazzini di leva, riccioli e brufoli e voce ancora stonata, controllano seduti al buio nello spazio di un metro tre schermi, quello nel mezzo mostra una mappa di tutti i colori. Il Medio Oriente. Gli altri due scrutano al centimetro, 24 ore al giorno, il cielo del nemico, qualsiasi cosa si muova dalla Siria e nel resto delle vicinanze. Ecco guarda, dice Tzachi, e mostra un punto verde a luce intermittente: «Questo lo conosciamo bene, atterra a Damasco sempre alla stessa ora. Nessun problema. Ma se laggiù si muovesse qualcosa di diverso, di nuovo, un aereo, un missile, non importa quanto piccolo, se venisse verso di noi, allora sentiresti subito una sirena. Centottanta soldati, 90 delle riserve e 90 di leva, si muoverebbero tutti insieme. E ognuno sa esattamente cosa deve fare. Ora ti mostro».
Lasciamo l’antro, fuori il sole ci acceca. Yallah, forza sali, dice di nuovo Tzachi. Di nuovo su una scala di ferro che sormonta un dislivello di qualche metro e poi su una terrazza di sassi sconnessi sotto una rete: e tutto intorno a noi, svariate batterie di Patriot, in parte rivolte verso la Siria., in parte altrove. Ogni camion porta quattro missili: «Per smuovere questa unità, se occorresse dislocarla in luogo diverso, per un Patriot ci vogliono 30 auto piene di gente. Quindi, dobbiamo avere sempre molti soldati a disposizione, e io non posso mai allontanarmi più di due minuti di corsa». Tzachi è un veterano di 26 anni, si vede che il compito di essere gli occhi di Israele lo riempie di orgoglio e di responsabilità. Sono i suoi Patriot. Ma questi missili sono stati criticati come armi imperfette, non sempre colgono il proiettile in arrivo, ai tempi dell’attacco di Saddam Hussein ci furono morti e feriti a Tel Aviv, eppure l’Iraq è più lontano della Siria: «Adesso sono molto migliorati» risponde Tzachi. Eppure sembrano così primitivi dentro quelle scatole di legno ritte sui camion. Ride: a volte tutto l’esercito può sembrare primitivo, ma dentro quelle scatole c’è tutta la tecnologia più sofisticata. E fra pochi mesi sarà disponibile anche il nuovo sistema Iron Dome, «Cupola di acciaio»: i ragazzini di Tzachi, fra i sassi e le spine avranno in mano il più avanzato sistema del mondo contro gli oggetti volanti. E Israele sa che arriveranno tempi difficili con l’Iran sempre più aggressivo e fiancheggiato dai suoi vicini.
L’esercito israeliano si sta organizzando per respingere una pioggia di missili, l’arma che negli ultimi anni, con l’aiuto dell’Iran, è diventata parte della strategia più odiosa: i Kassam, i Fajar, i Grad che piovono sui civili. Gli Hezbollah, che usavano sparare sulle cittadine del Nord fino alla guerra del 2006, sembra abbiano ricostruito un arsenale di 50mila missili compresi quelli che, come gli Scud, possono arrivare fino a Tel Aviv; la Siria è piena di postazioni balistiche contro Israele. Iran e Turchia hanno appena stretto un patto per aiutare gli hezbollah a ottenere nuove armi. Il Libano è l’avamposto della nuova strategia iraniana contro Israele.
Il maggiore Hai Lugasi, 35 anni, sposato e con figli che vivono nelle vicinanze della base, proviene dalle Forze Aereonautiche, il gioiello dell’esercito, e ci accoglie a Biranit, il comando dell’esercito israeliano del Nord, dove siamo stati tante volte durante la guerra del 2006, dopo il rapimento di Regev e Goldwasser: «Guardi, è cambiato» dice. É vero. A prima vista vedi le colline morbide come sempre, a sinistra Aita ha shaab, paesotto shiita, e a destra Kfar Remesh, villaggio cristiano. Però nel mezzo, oltre il recinto e oltre il confine internazionale segnato dall’Onu, vedi le auto bianche dell’Unifil, più in là c’è l’esercito libanese, il Laf. Non ci sono più gli Hezbollah armati e in divisa, con le bandiere gialle che scorrazzano lungo il confine, non più il rivoltante manifesto con la testa spaccata di un soldato israeliano. Di giorno gli israeliani lo buttavano giù, di notte lo rimettevano in piedi gli uomini di Nasrallah, il leader sciita più bizzarro, violento e determinato del Medio Oriente, ormai il vero padrone del povero Libano ferito. Unifil doveva impedire l’affermarsi di qualsiasi organizzazione armata fuori dell’esercito, ma non ce l’ha fatta: le regole di ingaggio sono restrittive. «Unifil - dice Hai - non ha evitato che Hezbollah ricevesse le armi iraniane dalla Siria, non ha evitato l’altro giorno che l’esercito libanese, in gran parte sciita e amico di Nasrallah ci tendesse un vero agguato, non ha evitato che quel paese che lei vede, Aita ha shaab, e tutti i 160 paesi sciiti della zona, siano diventati fortezze pronte alla prossima guerra, piene di scudi umani, scuole, ospedali, seduti sui loro missili. Ma hanno taciuto, per quattro anni anche noi abbiamo fatto buon uso della tranquillità» dice Hai. Adesso dopo l’attacco del Laf avvenuto mentre semplicemente Israele tagliava un albero nell’enclave dentro il confine e col permesso dell’Unifil, la sensazione è che il Libano stia diventando né più né meno che un nemico armato. «É’ il ricatto degli Hezbollah impauriti dalla prossima condanna internazionale che sta per arrivare per l’assassinio del presidente sunnita Rafik Hariri. L’esercito libanese doveva essere lo scudo della pace, non un nemico che tende agguati e uccide i nostri uomini». Hai mostra la direzione dell’agguato: di fatto l’esercito ha giocato il ruolo degli hezbollah, e questo ha già cambiato l’atteggiamento di Israele. «Le ronde, le ispezioni, le pattuglie che partono da qui a ogni ora devono dare sicurezza alla nostra gente, chiunque porti la minaccia» dice Hai. Ci offre un bicchier d’acqua fredda, in una baracca scrostata, uguale ai tempi della guerra.
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