Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/08/2010, a pag. 28, l'articolo di Alessandra Farkas dal titolo " Qui si insegna solo Carver. Abbiamo dimenticato Cechov ".


Cynthia Ozick, Alessandra Farkas
NEW YORK — Nell’opera dell’82enne Cynthia Ozick, il tema dell’Olocausto è onnipresente. «A volte anche contro il mio volere, perché non domino tutto ciò che scrivo», racconta l’autrice di alcuni capolavori della letteratura ebraica moderna, soprattutto Il Messia di Stoccolma e Lo Scialle (pubblicati in Italia da Garzanti e poi da Feltrinelli). «Non molto tempo fa, mentre lavoravo al mio ultimo romanzo Foreign Bodies (in uscita in America nel novembre 2010 e in Italia nel 2011), mi sono imbattuta per caso in una sopravvissuta del campo di concentramento di Transnistria. Non l’ho cercata né invocata, ma come sempre non mi è stato possibile evitare l’influenza di quella smisurata atrocità che ha cambiato il mondo per sempre».
L’ a utrice, secondogenita di due ebrei russi emigrati in America per sfuggire ai pogrom, torna a riflettere sul «silenzio della gente di fronte ai genocidi in Ruanda e Darfur e alle provocazioni di Ahmadinejad». «A volte il tempo non cancella, ma deforma la storia e spinge a ripetere le barbarie del passato — afferma —. E così, il nobile slogan "Mai più" si trasforma in "Chi ci impedisce di farlo di nuovo visto che in passato nessuno si è opposto"? Lo stesso Hitler pensava che il genocidio degli ebrei sarebbe passato sotto silenzio al pari di quello armeno».
Ma l’Olocausto oggi ha assunto anche un’altra valenza: «È divenuto la foglia di fico che copre il crescente antisemitismo che in Europa ha preso il nome di antisionismo. C’è gente che piange lacrime di coccodrillo nel Giorno della Memoria, e subito dopo pianifica assalti brutali nei confronti degli ebrei che vivono in Israele: Paese sotto assedio».
Felice perché le sue opere sono studiate — insieme a quelle di Primo Levi ed Elie Wiesel — nei corsi sull’Olocausto delle università americane, la Ozick non si ritiene «degna di essere considerata una scrittrice della Shoah». « Lo Scialle è un racconto di fantasia — teorizza — mentre Levi e Wiesel scrivono da vittime e testimoni e le loro opere hanno il potere che solo i documentari sono capaci d’avere».
Proprio come il diario che tiene quotidianamente dal lontano 1953 e che non ha intenzione di pubblicare in vita, la scrittrice ha tenuto nascosto Lo Scialle per sette anni, giudicandolo anomalo e quasi illegittimo. «Anomalo, perché lo avevo scritto di getto, come sotto trance da dettatura. Illegittimo, perché di regola sono contraria alla trasposizione letteraria della Shoah». «Perfino Il Diario di Anna Frank è stato accusato di essere un falso dai negazionisti — precisa — molta fiction sull’Olocausto ha prodotto risultati fuorvianti, falsi, kitsch». Eppure il suo giudizio sull’omonimo dramma, diretto da Sidney Lumet nell’Off Broadway nel 1996 (dopo il leggendario reading fatto da Claire Bloom a New York l’anno prima) è positivo: «Un’ammirevole trasposizione che affronta il problema del negazionismo dell’Olocausto».
Ma secondo molti critici il libro che rappresenta maggiormente la sua abilità letteraria resta Collected Stories, del 2006. «Alcuni anni fa, John Updike attribuì la sua fortuna come scrittore all’apprezzamento dei settimanali per i racconti brevi scritti da giovane. Anch’io devo molto all’interesse delle riviste per le mie storie brevi».
E tuttavia nel tempo lo spazio per questo genere si è ridotto. «Oggi la maggior parte dei periodici cerca le news, non le belle lettere, che hanno dovuto lasciare spazio al pettegolezzo, alle celebrità, allo scoop». La Ozick non risparmia le critiche al racconto contemporaneo: «Manca di ambizione e si focalizza sul triviale e sul quotidiano. Non esiste un equivalente americano che eguagli l’ampiezza della Morte di Ivan Ilic di Tolstoj, della Corsia n. 6 di Cechov, di My Quarrel with Hersh Rasseyner di Chaim Grade, o di Lighea di Tomasi di Lampedusa. Le università prediligono lo stile alla Raymond Carver: breve, asciutto, minimalista».
In Collected Stories il suo cuore era alla ricerca di qualcosa di grande e quasi metafisico. «Il mio racconto preferito della raccolta, Il rabbino pagano (che è anche il titolo di una raccolta di racconti uscita in Italia nel 1995 da Garzanti, ndr), è ispirato alle suggestioni di Tomasi di Lampedusa: una lettura misteriosa e affascinante. Mentre lo scrivevo, nel cuore della notte — una mia vecchia abitudine — ricordo che mi scervellavo su come rendere il discorso di una driade, una ninfa abitante degli alberi. Improvvisamente, ebbi un’illuminazione: gli alberi profumano di fiori e piante selvatiche, quindi la voce di una driade doveva essere una fragranza che si percepisce attraverso l’olfatto. Che gioia avere avuto tale intuizione».
Nel suo nuovo libro Foreign Bodies rivisita Gli ambasciatori di Henry James, rovesciando però il significato di quel classico. «Quello che m’interessa delle storie di James è il contrasto ricorrente tra l’Europa sofisticata e civilizzata, portatrice di una tradizione culturale senza pari, e l’America naif, priva d’esperienza e di sapere. Ma dopo l’Olocausto la stella dell’Europa è decaduta, surclassata dagli Stati Uniti». Per complicare le cose, il personaggio che critica l’Europa incensando gli Stati Uniti è tutt’altro che ammirevole. «Volevo ribaltare completamente il pensiero di James, ma non in modo semplicistico». Lo stesso James che la Ozick annovera tra le sue maggiori influenze, insieme con Edward Morgan Forster (« Il viaggio più lungo mi ha ispirato per decenni»), Thomas Mann, George Eliot, Joseph Conrad, Tolstoj, Tomasi di Lampedusa e Saul Bellow. Tra i contemporanei predilige Updike, «sia per il linguaggio, sia per la capacità di narrare aspetti peculiari della società americana degli anni Cinquanta» e Antonia S. Byatt, «una mente straordinaria che ho appena scoperto».
Quale autore si è avvicinato di più al grande romanzo americano? «Saul Bellow ne ha scritti addirittura due: Le avventure di Augie March e Herzog, mentre Norman Mailer, che tanto aspirava al traguardo, non l’ha neppure sfiorato. E se siamo costretti a conferire un unico premio al miglior romanzo americano — conclude — dobbiamo dividerlo equamente tra Le avventure di Huckleberry Finn e Il Grande Gatsby ».
Il suo «primo amore» è stato però un altro. «Il mio primo momento di trascendenza attraverso la lettura è avvenuto a 17 anni con La tigre nella giungla di James. Lo lessi e pensai: questa è la mia vita». Ma se oggi la Ozick è candidata perenne al Nobel («Non lo daranno mai a un ebreo americano con affinità per Israele e il sionismo») può ringraziare sua nonna che il primo giorno di scuola, quando la nipote aveva 5 anni, osò sfidare il maestro che l’aveva apostrofata in yiddish: «Riportala a casa, le ragazze non devono studiare».
Di tutti i personaggi femminili delle sue opere, uno le sta più a cuore degli altri: Ruth Puttermesser, la sfortunata protagonista di The Puttermesser Papers, del 1997. «Sebbene non abbiamo nulla in comune — lei non si è mai sposata, è un avvocato fallito, si costruisce un golem e viene brutalmente uccisa — è una creatura colta, che guarda il mondo con una prospettiva letteraria, come a volte temo di fare anch’io».
A differenza di Don DeLillo, lei non vede intercambiabilità tra cinema e fiction. «DeLillo sbaglia. Anche se le tecniche cinematografiche hanno influenzato l’attuale stile letterario, il divario tra i due generi è incolmabile. Nei film voci, immagini e ambienti sono sempre imposti da un occhio estraneo e quindi non c’è spazio per l’immaginazione. I romanzi, al contrario, si aprono alla soggettività e libertà del singolo lettore». Perciò «il romanzo non è andato perduto, ma resiste nel calore della mano — insiste la scrittrice —. L’interiorità non può nutrirsi delle trame dei film. In un’epoca in cui le masse si fanno guidare dalle macchine, dove possiamo trovare lo stimolo che nelle nostre anime risvegli un sussulto di fragilità, speranza, trascendenza e trepidazione? Solo nel romanzo, nella sua plasticità ed elasticità».
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