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Il Foglio Rassegna Stampa
03.08.2010 Gli Usa sono molto interessati a chi sarà il successore di Mubarak
Una scelta sbagliata potrebbe far allontanare l'Egitto dall'Occidente

Testata: Il Foglio
Data: 03 agosto 2010
Pagina: 6
Autore: Anita Taksa
Titolo: «Non staccate la spina all'Egitto»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/08/2010, a pag. III, l'articolo di Anita Taksa dal titolo " Non staccate la spina all'Egitto ".


Hosni Mubarak

 In un ospedale del Cairo è stato allestito un intero piano zeppo di sofisticate apparecchiature pronto ad accogliere in qualunque momento un paziente d’eccezione, con la sua numerosa corte: Hosni Mubarak, l’82enne presidente-padrone dell’Egitto. A Washington, a sentire le voci che girano, è stata messa in piedi una task force dell’Amministrazione che segue i segni vitali dell’anziano rais e riferisce direttamente a Barack Obama le minime palpitazioni provenienti dal Cairo. Ufficialmente, il leader egiziano ha solo qualche problema minore di salute dopo l’asportazione della cistifellea in Germania, qualche mese fa. Ma continua a rimandare incontri, viaggi e apparizioni in pubblico, e nel mondo degli analisti, dei diplomatici e dell’intelligence pochi dubitano che in realtà stia morendo di tumore al pancreas. Anche se gli sforzi dei medici e l’abitudine al potere al quale si aggrappa da trent’anni lo terranno ancora in vita per qualche mese, l’anno prossimo l’Egitto va alle urne, sperimentando per la seconda volta nella sua storia le elezioni presidenziali con candidati multipli. E, a meno di un anno dal voto, nessuno sa non solo quale nome figurerà sulla scheda come sfidante dell’opposizione, ma nemmeno chi verrà schierato dal regime come successore di Mubarak. Una transizione che ha fatto dire a John Kerry, ex candidato alla presidenza americana e capo della commissione Esteri del Senato, che “la successione a Mubarak è il dossier che più preoccupa gli Stati Uniti in medio oriente”, addirittura più del nodo israeliano-palestinese. Non che l’anziano faraone non avesse già chiesto l’avallo americano per il suo erede designato: nell’agosto dell’anno scorso si era presentato alla Casa Bianca con tutto il suo governo e il figlio Gamal, segretario generale del Partito nazional-democratico al potere in Egitto. Per quanto ufficialmente ancora non in gara, il secondogenito del presidente viene visto come il delfino del Cairo, e nonostante al Congresso si levino sempre più voci che chiedono maggiori pressioni sull’Egitto troppo poco democratico, è probabile che Washington si turi per l’ennesima volta il naso benedicendo un passaggio di potere dinastico. La posta in gioco è troppo alta: il più fedele e forte alleato americano in medio oriente, e la potenza militare più forte della regione dopo Israele. Il generale Anthony Zinni, ex comandante del Centcom, una volta ha sintetizzato il ruolo strategico dell’Egitto in modo estremamente esplicito: “E’ il paese più importante nella mia area di responsabilità perché mi dà l’accesso alla regione”. Una portaerei su terra ferma, che permette di controllare il medio oriente e garantire il transito nel canale di Suez, sia per le petroliere sia per la marina militare americana che così manda una dozzina di navi al mese dal Mediterraneo al Golfo Persico e all’Oceano Indiano. Un alleato considerato strategico da tutte le Amministrazioni, da quella di Nixon – che, dopo la morte di Nasser nel 1970 incoraggiò la svolta del suo successore Sadat ad abbandonare l’amicizia con Mosca fino a cacciare i militari russi dall’Egitto – a quella di Carter che nel 1978 patrocinò gli accordi di Camp David che portarono alla pace tra Gerusalemme e il Cairo. Hillary Clinton sta dedicando all’Egitto buona parte del suo tempo, esattamente come Condoleezza Rice, se non di più: la crisi palestinese ha trasformato il Cairo, la prima capitale araba a stringere rapporti diplomatici con Israele, in un broker insostituibile nei negoziati pubblici e segreti (visto che né Israele, né gli Stati Uniti parlano direttamente con Gaza). E’ il fido Omar Suleiman, potentissimo capo dei servizi segreti egiziani – e possibile candidato alla presidenza, anche se la maggior parte degli analisti ritiene che rimarrà al suo posto a garantire un passaggio di potere indolore a Gamal – a trattare con una mano con Hamas, mentre con l’altra costruisce intorno a Gaza una barriera di ferro, anche grazie ai finanziamenti americani. Un’alleanza basata – come tutte le alleanze che funzionano – su interessi comuni: il Cairo è terrorizzata da una fuga di massa degli abitanti di Gaza verso l’Egitto e da una connection tra Hamas e i Fratelli musulmani egiziani, legati anche da una parentela diretta, visto che i jihadisti di Gaza sono nati da una costola dei fondamentalisti del Cairo. Un analista palestinese rivela che Suleiman teme anche l’infiltrazione di cellule di Hamas nel Sinai, dove potrebbero risvegliare le fazioni beduine, ridotte al silenzio da Mubarak dopo una serie di attentati negli anni scorsi. E infine, c’è l’incubo che Washington e il Cairo hanno in comune: l’Iran. Mubarak, figlio del nazionalismo laico arabo di Nasser, e fiero del suo ruolo di leader della potenza regionale araba, non vuole avere come vicini scomodi gli islamisti ispirati da Teheran come Hamas e Hezbollah, e pur di arginarli si è spinto perfino a una cooperazione militare con Israele. Qualche settimana fa è girata voce di sottomarini nucleari israeliani che hanno avuto dall’Egitto il permesso di transitare nel canale di Suez per un’esplorazione del Golfo e soprattutto dello Stretto di Ormuz, che gli ayatollah minacciano di bloccare in caso di attacco contro di loro, paralizzando tutto il traffico di petroliere nella zona e lasciando senza benzina mezzo mondo. L’espansione della minaccia iraniana ha spinto l’Egitto a rafforzare la cooperazione con la Giordania e l’Arabia Saudita, il fronte anti Teheran degli arabi la cui costruzione venne avviata già da Condoleezza Rice. Un alleato senza prezzo, anzi, con un prezzo ben preciso di fronte al quale gli Stati Uniti non si sono mai tirati indietro. Dal 1979 a oggi Washington ha versato al Cairo mediamente due miliardi di dollari l’anno. Se Mubarak riesce a dare ai suoi sudditi il pane con il prezzo sovvenzionato, deve ringraziare i contadini americani che gli vendono il grano e il Congresso americano che gli passa i soldi per comprarlo. Gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale egiziano, e il primo investitore straniero, soprattutto in campo petrolifero. Ma soprattutto pagano i conti militari: secondo alcune stime non ufficiali, l’80 per cento delle spese per la difesa del rais viene sostenuto dal contribuente americano. Soltanto Israele ha ricevuto più aiuti militari americani, tra gli alleati fuori dalla Nato. Gli egiziani sono tra i maggiori acquirenti di elicotteri Chinook e Apache, dei caccia F-16 e coproducono il carro armato M1Al Abrams, assemblato in Egitto con parte dei componenti prodotti in una fabbrica alla periferia del Cairo. L’obiettivo egiziano (condiviso dagli Stati Uniti) è di far fuori nei prossimi anni i magazzini dell’esercito ancora pieni di armi sovietiche ereditate dalla breve ma intensa amicizia con Mosca, e sostituire con quelle made in Usa, anche perché gli ufficiali egiziani da anni vengono sottoposti a corsi di addestramento gestiti dal Pentagono. Ma questo matrimonio se non di amore, di fortissimo interesse, comincia a mostrare crepe sempre più visibili. Barack Obama ha scelto il Cairo per il suo “storico” discorso all’islam, mostrando così agli egiziani di continuare a considerarli la nazione araba di maggior prestigio e influenza. Cercando di non ricordare, almeno per quel giorno, che nel 2003 poco lontano, allo stadio del Cairo, il Partito nazional- democratico di Mubarak aveva convocato una manifestazione oceanica contro gli Stati Uniti e i loro piani di intervento in Iraq, in una rottura con il loro maggior alleato probabilmente più traumatica di quella che Washington visse nelle stesse settimane con i partner europei. La retorica ufficiale del regime è sempre più in sintonia con i sentimenti della “piazza araba”, con tutti i passaggi obbligatori di accuse all’“imperialismo”, “sionismo” e in particolare agli Stati Uniti. Una propaganda che viene mandata avanti attraverso i media, le scuole e soprattutto i religiosi allineati con il regime, che cercano di battere nel loro fervore antioccidentale i sempre più popolari predicatori dell’opposizione. Il polmone d’acciaio nel quale gli Stati Uniti pensavano di contenere l’Egitto non sembra più bastare, e questo atteggiamento che ha spinto Edward S. Walker Jr., ex ambasciatore americano al Cairo dal 1994 al 1997 e in seguito assistente del segretario di stato per il medio oriente, ad accusare il potere egiziano di ambiguità: “Vogliono sia ricevere la loro torta sia mangiarsela”. E Mubarak non ha esitato a guardarsi intorno e a diventare un grande amico di Vladimir Putin proprio nel momento in cui il Cremlino lanciava la sua mini guerra fredda con gli Stati Uniti. Ospite a Mosca, Mubarak ha condiviso i problemi di successione di Putin e non ha esitato a sostenere a gran voce la necessità per l’allora presidente di restare al potere nonostante i divieti costituzionali. E Mosca è sempre pronta a offrire al Cairo la sua vasta scelta di armamenti, senza chiedere in cambio alcuna riforma democratica. Il pugno di ferro con il quale il rais governa il suo paese sta diventando, infatti, sempre più fonte di imbarazzo per il suo maggiore alleato. I tempi dei “nostri figli di puttana” sono finiti, e ogni passaggio degli aiuti all’Egitto al Congresso viene accompagnato da un dibattito sulla necessità di condizionarli a riforme democratiche. Robert Satloff, direttore del Washington Institute for Near East Policy, ha comunicato di recente al Comitato per le relazioni internazionali della Camera che “le fondamenta delle nostre relazioni bilaterali si stanno erodendo e sono emerse divergenze su un ampio spettro di questioni politiche”. Il governo egiziano è sempre più irritato dai tentativi americani di vincolare parte degli aiuti a progetti per lo sviluppo della società civile. Una concessione che Mubarak non può regalare nemmeno al suo alleato più importante: secondo Aladin Elaasar, autore di “The Last Pharaoh: Mubarak and the Uncertain Future of Egypt in the Volatile Mid East”, il rais “ha trasformato l’Egitto in uno stato di polizia al pari della Siria o della Tunisia, con un apparato di sicurezza che conta circa due milioni di persone” per mantenere il suo regime di potere personale. Secondo un rapporto al Congresso firmato dall’esperto di affari mediorientali Jeremy Sharp, la reazione del Cairo alle esortazioni di incrementare le libertà degli egiziani è stata “dura”, e al meeting annuale sulle strategie tra americani ed egiziani si è discusso in termini abbastanza vivaci degli aiuti americani che, secondo gli uomini di Mubarak, devono essere destinati all’economia e non alla società. Ma anche i conti militari non tornano più: l’Egitto spende ormai quasi il 30 per cento dei fondi per la manutenzione delle armi già acquistate, e ha chiesto sconti e agevolazioni, facendo capire agli americani che i loro prodotti sono troppo costosi da mantenere. Gli americani, da parte loro, hanno nella loro agenda altre priorità più impellenti: dopo quasi 30 anni in cui l’Egitto è rimasto saldamente al secondo posto, dopo Israele, nella classifica dei beneficiari degli aiuti americani, l’anno scorso è sceso al quinto, sorpassato da emergenze come il Pakistan, l’Afghanistan e l’Iraq. Ma non si tratta soltanto di una riduzione relativa: Washington ha tagliato gli aiuti dai 2,1 miliardi del 1998 agli 1,6 miliardi dell’anno scorso, essenzialmente a scapito dei finanziamenti per lo sviluppo dell’economia e della società civile (i primi sono stati dimezzati, i secondi nel 2009 ammontavano alla modesta cifra di 20 milioni). E a Washington si parla addirittura di un “disengagement” totale, “che dipenderà soprattutto dall’esito della successione a Mubarak”, nota Sharp e aggiunge: “Nel decidere se incrementare o mantenere gli aiuti, il commercio e l’assistenza all’Egitto, nell’epoca di una riduzione delle risorse americane, l’Amministrazione e il Congresso non dovranno operare soltanto una scelta tra sostenere la democrazia o la dittatura, ma anche misurare la relativa importanza dell’Egitto ai fini della sicurezza nazionale americana in un contesto di numerose priorità globali rivali”. Gli analisti contano tre scuole di pensiero che attualmente si contendono il dossier Egitto al Campidoglio e dintorni. Gli “idealisti” che insistono per usare le potenti leve della dipendenza economica e militare dell’Egitto dagli Stati Uniti per condizionarlo a una maggiore democratizzazione. I “pragmatici” insistono per tornare al vecchio collaudato modello del “nostro figlio di puttana” e fare pressioni discretamente e soltanto a porte chiuse, riportando nel frattempo gli aiuti al Cairo alla regola degli ultimi trent’anni che li voleva in una misura di 3:2 rispetto a quelli per Israele. Infine, qualcuno propone di salvare capra e cavoli, come la Brookings Institution, che sostiene che “tra la promozione della democrazia e la protezione della stabilità in Egitto non c’è un gioco a somma zero, e una saggia politica potrebbe raggiungere entrambi gli obiettivi grazie a misure di cooperazione”. Il problema dei Mubarak, padre e figlio, resta quello di mantenere la presa salda su un paese dalla crescita economica procapite stagnante, con una disoccupazione al 20 per cento e scontri in piazza per il pane. Per il giornalista egiziano Abdulhalim Qandil, il regime è “sull’orlo del collasso”. E con una popolazione che per il 58 per cento è sotto i 25 anni (fascia nella quale la disoccupazione raggiunge il 90 per cento stando ad alcune stime), l’incubo del Cairo – ma anche di Washington – è un Iran bis, con una situazione che Elaasar definisce “molto simile” a quella che si osservava a Teheran qualche anno prima dell’ascesa di Khomeini. I Fratelli musulmani, formalmente fuorilegge, hanno già fatto capolino in Parlamento dopo le ultime elezioni, come candidati indipendenti. Per Thomas Barnett, esperto di sicurezza ed ex docente all’U. S. Naval War College, una successione accidentata al faraone potrebbe creare il vuoto di potere necessario: “Rendendosi benvoluti dalle masse attraverso una rete di welfare sociale estremamente efficiente, la Fratellanza sta seguendo le orme elettorali già calcate da Hamas in Palestina e da Hezbollah in Libano. Una prospettiva che sicuramente incoraggia Washington a sostenere Gamal. L’alternativa di scommettere su una figura d’opposizione più o meno liberale, come l’ex direttore dell’Aiea e premio Nobel per la Pace Mohammed ElBaradei, che sta facendo capire di essere pronto a correre per la presidenza nel 2011, non sembra molto praticabile, anche perché, come sottolinea Elaasar, gli ambienti – comunque risicati – della borghesia e intellighenzia filoccidentale in Egitto sono “delusi dal fatto che la diplomazia americana, sia con la Rice che con la Clinton, abbia abbandonato i tentativi di fare pressioni in senso democratico a Mubarak, permettendogli così un ulteriore giro di vite contro l’opposizione”. Per Steven A. Cook, ricercatore sul medio oriente del Council on Foreign Relations, “lo stretto legame con gli Stati Uniti è diventato un fattore negativo critico nella politica egiziana. L’opposizione (musulmana, ndr) usa questo legame per delegittimare il regime, mentre il governo fa sfoggio di antiamericanismo per difendersi da queste accuse. Se gli Stati Uniti vogliono aiutare ElBaradei a fare riforme politiche in Egitto, l’aiuto migliore che possono dargli è di non appoggiarlo apertamente. Paradossalmente, è proprio il rapporto gelido che ha con l’America dai tempi dell’Aiea a renderlo un candidato credibile e popolare”. In altre parole, qualunque cosa faccia la Casa Bianca in Egitto – sostenere il debole e potenzialmente infido Gamal, dare spazio a un’opposizione che probabilmente, appena diventasse un pericolo, verrebbe schiacciata dai militari e dai servizi, o aspettare impotente l’arrivo dei Fratelli musulmani – il rischio è di perdere un alleato insostituibile, e addirittura di vedere passare la seconda potenza militare della regione, amorevolmente allevata dal Pentagono, in mani nemiche. Come ha sintetizzato Michelle Dunne, ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace, “la dipartita di Mubarak, che avvenga per sua volontà o per mano della provvidenza, farà tremare il mondo”.

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