Perchè sarebbe un errore ritirarsi dall'Afghanistan Commenti di Franco Venturini, Redazione del Foglio, Christian Rocca, Carlo Panella
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Sole 24 Ore - Libero Autore: Franco Venturini - La redazione del Foglio - Christian Rocca - Carlo Panella Titolo: «Afghanistan e opinione pubblica Olanda. Un esempio da non seguire - Barack e la strettoia verso Kabul - Suicide 2300 donne afghane. Una ragione in più per rimanere»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/08/2010, a pag. 41, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " Afghanistan e opinione pubblica Olanda. Un esempio da non seguire ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Paradosso olandese. Il governo più anti islam è festeggiato dai talebani". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 13, l'articolo di Christian Rocca dal titolo "Barack e la strettoia verso Kabul ". Da LIBERO, a pag. 18, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Suicide 2300 donne afghane. Una ragione in più per rimanere ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " Afghanistan e opinione pubblica Olanda. Un esempio da non seguire "
Franco Venturini
Il ritiro delle forze olandesi dall’Afghanistan, deciso in febbraio a seguito di una crisi di governo, non è una sorpresa. Ma è, questo sì, un esempio: l’esempio di quello che gli altri Paesi della Nato non devono fare.
Occorre non stancarsi di ripetere che la guerra dell’Afghanistan, probabilmente avviata a una fine non vittoriosa, è tuttavia un terreno di prova per la definizione delle gerarchie occidentali in un mondo che cambia. L'Olanda si ritira oggi — primo tra gli alleati atlantici — proprio perché la sua opinione pubblica e il suo fronte politico interno hanno ritenuto non prioritaria la collocazione dell’Aja sulla scena internazionale e hanno preferito evitare ulteriori perdite. La Nato minimizza non potendo far altro, ma è chiaro che se il precedente olandese innescasse una reazione a catena (le premesse di analoghi comportamenti esistono già in Canada e in Polonia) l’exit strategy alleata subirebbe una brusca accelerazione.
Tutto ciò interessa direttamente l’Italia. Perché l’Italia svolge in Afghanistan un ruolo di primo piano, e la sua defezione unilaterale aprirebbe una falla ben più importante di quella olandese costringendo la Nato a farsi sentire. Perché l’Italia, diversamente dall’Olanda, ha uno status di «media potenza» da difendere tanto in Europa quanto nei rapporti con gli Stati Uniti. Perché l’Italia, soprattutto, ha sempre avuto nel suo Parlamento una ampia maggioranza trasversale non priva di distinguo ma favorevole nell’essenziale all’impegno militare in Afghanistan. Ed è questo, crediamo, il punto sul quale l’esempio olandese deve farci riflettere. Nella politica interna italiana tira aria di tempesta. Che non accada nulla, che prenda corpo un governo di transizione o che si vada a elezioni, Pdl, finiani, Udc e Pd dovrebbero capire che è proprio questo il momento di rinnovare la loro unità di intenti bipartisan (leggasi venir via con gli alleati, non prima) sul conflitto afghano.
E se poi alla compagnia si unissero anche la Lega o altri, tanto meglio. L’interesse nazionale italiano, insomma, è di fare il contrario dell’Olanda. Sempre che, di questi tempi, si riesca a guardare più lontano dei Palazzi romani.
Il FOGLIO - " Paradosso olandese. Il governo più anti islam è festeggiato dai talebani"
Talebani
Bruxelles. I due partiti olandesi sul punto di formare il nuovo governo, e che erano favorevoli a mantenere le truppe in Afghanistan, hanno assistito silenti alla fine della missione afghana dell’Olanda. I liberali del probabile primo ministro, Mark Rutte, e i cristiano-democratici di Maxime Verhagen avevano appena annunciato un accordo con Geert Wilders per formare un esecutivo di minoranza, dopo le inconcludenti elezioni di giugno. Il leader del Partito della libertà, la cui battaglia contro l’islam gli è valsa il successo nelle urne e un processo per istigazione all’odio razziale, non entrerà nell’esecutivo, limitandosi all’appoggio esterno. I negoziati sul programma potrebbero durare settimane. Ma l’Afghanistan, che in febbraio aveva provocato la caduta della grande coalizione per l’opposizione dei laburisti al prolungamento della missione, non è più una priorità. La crisi finanziaria, la sicurezza e l’immigrazione hanno preso il sopravvento. Domenica Maxime Verhagen, in qualità di ministro degli Esteri ad interim, si è limitato a inviare un messaggio ai soldati che smobilitavano nella base di Tarin Kowt: “L’Olanda ha contribuito alla sicurezza e alla ricostruzione dell’Afghanistan”. Nel frattempo all’Aia Wilders esultava, non per essere riuscito a imporre il ritiro – tema della sua campagna elettorale – ma perché si è assicurato un potere di ricatto, senza assumersi alcuna responsabilità nel governo. Venerdì Rutte, Verhagen e Wilders hanno dichiarato di “accettare le opinioni diverse degli altri” sull’islam, ma i colloqui sul programma sono complicati dal sostegno esterno del Partito della libertà. Verhagen ha detto di essere contrario alle proposte più controverse del Partito della libertà: il divieto di costruire nuove moschee, una tassa sul velo islamico, la registrazione dell’etnia dei cittadini. Il liberale Frans Weisglas, ex presidente della Camera, ha chiesto a Rutte di distanziarsi dalle “idee discriminatorie” di Wilders. Ma Rutte ha spiegato di “non essere disponibile” ad altre forme di coalizione: inutile “piangere lacrime di coccodrillo”, come i laburisti dopo aver rotto le trattative con i liberali per un governo assieme a Verdi e libertari del D66. Per Rutte, il governo di minoranza è “l’unica opzione”, anche se Wilders ha condizionato il “sì” ai drastici tagli di bilancio voluti dai liberali e a politiche più dure su immigrazione, integrazione e sicurezza. “Wilders vince molte volte”, spiega Wim Voermans, professore all’Università di Leiden: “Lascia intendere di volersi assumere la responsabilità al governo, ma può andarsene e dire ‘non mi vogliono’”. Secondo il politologo Marcel Boogers, “Wilders potrà tenere in ostaggio” il nuovo esecutivo, che disporrà di un solo voto di maggioranza alla Camera. Sintomo della crisi di identità che vive l’Olanda da quando ha scoperto il fallimento del modello multiculturale, il programma del nuovo esecutivo sarà comunque all’insegna della chiusura. Durante la campagna elettorale, sia i liberali sia i cristiano- democratici – ma anche il partito laburista – si sono avvicinati alle tesi di Wilders su immigrazione e sicurezza. In politica estera, i tre partiti condividono la volontà di tagliare gli aiuti allo sviluppo e il contributo all’Unione europea. Sull’Afghanistan, dopo essere stati favorevoli al prolungamento della missione in febbraio, liberali e cristiani democratici ora pensano al massimo all’invio di addestratori per le forze afghane, Wilders permettendo. La rabbia dei soldati Il paradosso olandese è che i militari dell’Aia erano considerati tra i migliori nella coalizione in Afghanistan. Con la strategia delle “3 D” – difesa, diplomazia, development (sviluppo) – i 1.950 soldati olandesi erano riusciti a fare dell’Uruzgan una delle province più pacifiche. In qualche anno, le ong operative sono passate da sei a 50, il numero di bambini nelle scuole è quadruplicato, sono stati piantati un milione di alberi da frutta, sono stati addestrati 3 mila soldati afghani, mentre è in via di completamento la strada tra Chora e Tarin Kowt. Secondo il presidente del sindacato militare, Jan Leian, i soldati “non sono contenti di andarsene. Vogliono finire ciò che hanno iniziato”. Rob de Wijk, direttore del The Hague Centre for Strategic Studies, ha detto che “non si va via, quando si iniziano a registrare successi”. Un portavoce dei talebani, Yusuf Ahmadi, si è invece “congratulato” per il primo ritiro dall’Afghanistan di un paese Nato.
Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Barack e la strettoia verso Kabul "
Christian Rocca
La guerra in Iraq è finita, ma è ancora troppo presto per andarsene in pace. A Baghdad non c'è ancora un governo, cinque mesi dopo le elezioni di marzo. Sono cose che capitano anche alle democrazie mature: in Belgio, due mesi dopo il voto, non si sono ancora messi d'accordo. Siamo entrati nel mese di ramadan e le trattative su chi dovrà guidare l'esecutivo iracheno non riprenderanno prima di settembre. Luglio è stato un mese violento. Iracheni e americani si dividono sul numero di morti ammazzati da al Qaeda, ma concordano sull'insufficiente fornitura elettrica garantita ai cittadini di Baghdad (solo cinque ore il giorno) evidenziata dalla prima puntata di un'interessante inchiesta del New York Times sul lascito americano in Iraq. Di certo c'è che in Iraq resteranno 50mila soldati, salvo intoppi fino alla fine dell'anno, a continuare la missione che da Operation Iraqi Freedom si trasforma in Operation New Dawn, operazione nuova alba. «Il nostro impegno in Iraq muta da uno sforzo militare guidato dalle nostre truppe a uno sforzo civile guidato dai nostri diplomatici», ha detto Obama in un discorso pronunciato ieri mattina ad Atlanta davanti a una platea di disabili e reduci di guerra. La "guerra stupida" cui Obama si era opposto quando era ancora un senatore statale dell'Illinois, sette anni dopo finisce "in modo responsabile" e, soprattutto, "nei tempi previsti" non solo dalle promesse elettorali del candidato Obama,ma anche dell'accordobilaterale firmato da George W. Bush e dal premier iracheno Nouri al- Maliki alla fine del secondo mandato del presidente repubblicano. Obama, segnala Peter Baker del New York Times, non ha fatto alcun riferimento al cambio di strategia politico-militare in Iraq del 2007, deciso da Bush ed eseguito dal generale David Petraeus contro il parere dell'establishment di politica estera di Washington. Obama era contrario al "surge" militare, ma come ha riconosciuto lui stesso durante la campagna elettorale è stata quella svolta a consentire la fine della guerra dichiarata ieri mattina e festeggiata come il primo grande successo di politica estera della sua presidenza. Missione compiuta, dunque. Senza i toni enfatici usati da Bush nel discorso del primo maggio 2003 sulla portaerei Uss Abraham Lincoln, ma il succo è lo stesso. Un risultato non di poco conto, qualcosa da poter rivendicare in vista delle elezioni di metà mandato di novembre. Ma anche una grande operazione mediatica per attenuare l'ansia della sua parte politica sull'altra guerra, quella "necessaria" in Afghanistan. Da qui alla fine di agosto, Obama e i suoi continueranno il "victory lap", il giro di campo per festeggiare la vittoria irachena con discorsi, bagni di folla tra i soldati, visite a Baghdad. «I sacrifici americani in Iraq non sono finiti », ha detto Obama, ma la violenza si è ridotta è ai minimi livelli di sempre. «Entro la fine del mese - ha detto - avremo portato a casa 90mila soldati». Il punto è che i soldati americani non sono tornati a casa. Sono stati spostati in Afghanistan, dove Obama sta cercando d'impiegare una strategia politica e militare simile a quella ideata da Bush e Petraeus in Iraq e, per questo, l'ha affidata ancora una volta a Petraeus. Quando Obama è entrato alla Casa Bianca, il numero delle truppe americane impegnate in Iraq e Afghanistan era di 177mila. Alla fine del mese saranno 146mila. Erano 144mila in Iraq e 33mila in Afghanistan. A settembre saranno 50mila in Iraq, dislocati in 94 basi che resteranno a disposizione degli americani, e diventeranno 96mila in Afghanistan (più quelle delle coalizione internazionale). In Afghanistan, insomma, Obama ha triplicato il numero dei soldati. Senza contare l'escalation dei bombardamenti con gli aerei senza pilota sui villaggi pakistani dove cercano rifugio i capi talebani e di al-Qaeda. La mossa obamiana di concentrare l'attenzione sull'Iraq nasce dall'esigenza di mitigare frustrazione e malcontento per la situazione in Afghanistan, accentuati dalla pubblicazione dei diari di guerra su Wikileaks. Gli americani, stando ai sondaggi, non sono soddisfatti. La guerra in Afghanistan è la più lunga della storia degli Stati Uniti. Il numero di caduti a luglio è il più alto da nove anni. Il Congresso ha comunque approvato una richiesta del Pentagono di 59 miliardi di dollari, più di metà dei quali servono a coprire le spese correnti da qui alla fine dell'anno in Afghanistan e Iraq. L'appoggio dei repubblicani è stato decisivo, perché alla Camera i democratici si sono divisi: in 102 hanno votato contro il finanziamento extra budget. Il consenso politico continua a esserci, anche se non promettono bene le dichiarazioni pessimiste del presidente del partito repubblicano Michael Steele, liquidate come "gaffe", e il crescente scetticismo dell'ala sinistra dei democratici. Esperti militari come Michael O'Hanlon sul Wall Street Journal e la copertina scioccante di Time che mostra una ragazzina con la faccia mutilata dai talebani invitano alla pazienza, ad avere fiducia, a non fuggire da Kabul perché le conseguenze sarebbero terribili. I grandi editorialisti e gli analisti di politica estera hanno cominciato a innestare la marcia indietro, interpretando il sentimento del paese dopo le rivelazioni non rivelatorie di Wikileaks. Sulla New York Review of Books, la bibbia dell'intellighenzia liberal americana, Gary Wills ha scritto che Obama si è imbarcato nella più stupida delle situazioni e sarà per sempre ricordato come il presidente del disastro in Afghanistan. Il presidente del Council on Foreign relations, Richard Haas, ha scritto su Newsweek che è arrivato il momento di riconoscere che in Afghanistan le cose stanno andando male e di ritirarsi. Sul Financial Times, l'ex consigliere di Bush Robert Blackwill ha suggerito di dividere l'Afghanistan, lasciando il sud ai talebani. Frank Rich e Thomas Friedman, le principali firme liberal del New York Times, domenica hanno spiegato che ha poco senso rimanere in Afghanistan, quando tutti sanno che gli attacchi dell'11 settembre sono stati pianificati e finanziati da Arabia Saudita e Pakistan. L'argomento è lo stesso usato ai tempi di Bush sull'Iraq e suona come una versione geopolitica del benaltrismo del dibattito italiano. Ci vuole ben altro. Si diceva che Bush aveva sbagliato ad invadere l'Iraq, perché al Qaeda era in Afghanistan. Ora che Obama chiude con un relativo successo la partita irachena per concentrarsi sull'Afghanistan, gli si dice che i terroristi non sono lì, ma in Pakistan, Arabia Saudita e Yemen. Il vicepresidente Joe Biden sostiene la tesi di limitare le operazioni militari alle attività antiterrorismo, senza preoccuparsi di sconfiggere i talebani o di costruire una democrazia jeffersoniana a Kabul. Una tesi condivisa da Jack Devine, ex capo delle operazioni della Cia che in un articolo sul Wall Street Journal ha invitato la Casa Bianca ad affidare le operazioni afghane ai servizi segreti e a ritirare le truppe. La tensione all'interno del mondo obamiano è evidente. Uno dei temi è la data del rientro delle truppe da Kabul. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, si aspetta che a luglio del 2011 cominci il disimpegno. Il capo del Pentagono, Robert Gates, ha spiegato che rientrerà solo un limitatissimo numero di soldati, sempre che le condizioni sul campo lo permettano. Ciò che conta è la posizione del comandante in capo, in attesa della revisione strategica di dicembre: «Ora abbiamo una strategia che può funzionare - ha detto Obama - abbiamo uno dei migliori generali sul campo. Andremo avanti col processo di addestramento degli afghani in modo che possano essere in grado di garantirsi la sicurezza. A metà del prossimo anno cominceremo ad assottigliare le nostre truppe e a dare maggiore responsabilità agli afghani. Se non pensassi che completare la missione in Afghanistan fosse importante per la nostra sicurezza nazionale, ritirerei i soldati oggi stesso».
LIBERO - Carlo Panella : " Suicide 2300 donne afghane. Una ragione in più per rimanere"
Carlo Panella
Qualche giorno fa Il Time ha pubblicato una copertina choc: una bellissima ragazza afgana con un terribile buco al posto del naso e delle orecchie. Glieli avevano mozzati i Talebani, per punirla della sua presunta “immoralità”. Un modo provocatorio, ma giusto, per ricordare e ricordarci le ragioni della presenza militare in Afghanistan. Non certo per “portarvi la democrazia” e men che meno “la civiltà”, ma semplicemente per sconfiggere, debellare una forza politica - l’alleanza tra Talebani ed al Qaida - che è terrorista e compie attentati -Twin Towers incluse - esattamente per le stesse motivazioni, per la stessa incultura barbara per cui mozza il naso alle donne. Ieri, Faizullah Kakar, consigliere di Hamid Karzai ha reso nota una notizia che moltiplica l’orrore di quel naso mozzato: «Ogni anno 2.300 donne si suicidano in Afghanistan per ragioni legate alla violenza quotidiana e familiare, come risorsa estrema di fronte a violenze subite». La percentuale più consistente riguarda coloro che si tolgono la vita appiccandosi fuoco. Nel complesso almeno il 28% delle donne afghane è affetto da depressione ed i casi di suicidio sono quasi tutti in questo ambito. Fra le ragioni che spingono le donne afghane ad uccidersi, soprattutto nell'ovest e nel nord del Paese, vi sono insicurezza, stupri, comportamento violento dei mariti, e matrimoni forzati. Questi dati, impressionanti, vanno tenuti presenti perché sono indispensabili per capire le difficoltà che incontra la guerra al terrorismo in Afghanistan e perché è indispensabile condurla. I Talebani infatti, riscuotono un certo consenso popolare tra l’etnia Pasthun - la più numerosa del Paese - innanzitutto perché difendono intransigentemente il pashtunwhali, il “codice familiare d’onore” di quelle tribù, un codice feroce con le donne. Ma chi ha quella visione della vita, chi considera la donna poco più di un armento da possedere e marchiare, quando entra in contatto con una ideologia che sviluppa quella violenza interna alla famiglia e la proietta nella società e poi nel mondo, la fa propria. Questo è successo ai Talebani quando hanno incontrato gli ideologi arabi del Jihad portati tra di loro da Osama bin Laden e da al Qaida. Dunque, il nemico che l’Oc - cidente combatte in Afghanistan è proprio l’innesto diabolico tra quella concezione violenta del possesso della donna e la prospettiva di una società mondiale retta allo stesso modo grazie alle vittorie del Jihad terrorista. Un nemico nuovo, perché la sua ideologia unisce codici d’onore tribali, un Islam dogmatico e fondamentalista e quindi la pratica del terrorismo Jihadista. Un nemico pericoloso perché questa miscela ideologica fa proseliti, perché tutti gli attentatori mancati di questo anno (sull’aereo Chicago- Amsterdam, a Times Square, alla Caserma Santa Barbara di Milano), sono stati opera di musulmani vissuti in Occidente - spesso tra gli agi - andati volontariamente a indottrinarsi nelle valli controllate dai Talebani mozza-nasi, per poi tentare di seminare morte in Occidente. E così è stato per tutti i nuclei terroristi che hanno portato a segno gli attentati precedenti, quelli di Madrid e di Londra inclusi. Se questo è l’impasto da cui nasce il terrorismo islamico - e lo è - è più agevole comprendere come sia difficile sconfiggerlo. Ma resta il fatto che è indispensabile farlo, non solo per aiutare le donne afghane a liberarsi, ma anche per fermare la mano di una massa di fanatici che mozza i nazi alle donne per le stesse ragioni per cui organizza attentati nelle nostre città.
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