" L'esplosiva questione dei rifugiati "
di Zvi Mazel
(traduzione a cura di Laura Camis de Fonseca)
Le analisi di Zvi Mazel sono pubblicate in Italia in esclusiva da Informazione Corretta
Walid Jumblatt, leader druso libanese, Saad Hariri, UNRWA
Una nuova proposta di concedere una serie di diritti ai rifugiati
palestinesi in Libano incrina l'unanime consenso arabo sulla certezza del
ritorno in Palestina.
E' la nuova bomba politica lanciata dal leader druso libanese Walid
Jumblatt, che un anno fa defezionò, abbandonò lo schieramento filo
occidentale e passò nel campo filo-siriano. La proposta mira ad esacerbare
le tensioni ed i conflitti interni alla società libanese.
Il 19 giugno scorso Jumblatt lasciò stupefatto il mondo politico
presentando in parlamento quattro proposte di legge che, se adottate,
darebbero ai rifugiati palestinesi in Libano una serie di diritti, ma non
il diritto di cittadinanza: il diritto a possedere una residenza al di
fuori dei campi profughi, il diritto a cercar lavoro in qualunque settore e
a godere dei benefici sociali legati al lavoro, come l'assistenza
sanitaria e la pensione.
Si tratta di una mossa, pienamente riuscita, che mira ad aumentare
l'ostilità fra Cristiani e Mussulmani. Tutti i partiti cristiani, incluso
quello di Michel Aun, il generale cristiano schieratosi con l'opposizione
guidata da Hizbollah, si sono detti contrari e hanno inviato le proposte
all'esame di varie sub commissioni parlamentari.
I partiti islamici, incluso Hizbullah, non si sono pronunciati ed hanno
detto di essere aperti alla discussione.
Al cuore del problema c'è la comune paura che concedere diritti ai
rifugiati palestinesi porti non soltanto al loro sistemarsi in Libano, con
conseguente rottura del fragile equilibrio fra le diverse comunità
libanesi, ma anche a infrangere il principio comune a tutti gli stati
Arabi che i rifugiati non debbano venir integrati nei paesi che li ospitano,
ma debbano tornare in Palestina.
Secondo l'UNWRA nei 12 campi profughi sparsi per il Libano vivono 425 000
rifugiati palestinesi che fuggirono nel 1948, e i loro discendenti. Si
tratta probabilmente di una cifra superiore a quella reale, perché
molti nel frattempo sono andati in altri paesi arabi, o in occidente a
cercar lavoro.
In base all'accordo del Cairo del 1969 fra il governo libanese e il PLO e a
vari accordi successivi fra i governi libanesi e il PLO all'epoca di Yasser
Arafat, i rifugiati debbono vivere nei campi, all'interno dei quali hanno
diritto all' autonomia amministrativa, a detenere armi e ad 'addestrarsi
per la lotta di liberazione'. Le forze di sicurezza libanesi non possono
entrare nei campi, ma stazionano all'esterno.
L'UNWRA venne creata nel 1949 per provvedere agli abitanti dei campi, ai
servizi educativi e sanitari, oltre che al loro sostentamento. I
finanziamenti però sono andati diminuendo nel tempo. Le tende sono state
rimpiazzate da edifici in muratura, ma i rifugiati non possono andare a
cercare nè lavoro né casa fuori dei campi.
Così i campi sono diventati slums i cui abitanti sono manipolati a fini
diversi da diverse organizzazioni palestinesi. Fatah controlla la
maggioranza dei campi, ma ci sono anche il Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina e altri gruppi. Recentemente vi si sono
insediate anche organizzazioni jihadiste informalmente legate ad al Qaeda.
Le dispute si fanno spesso violente e portano conflitti a fuoco. Le
organizzazioni jihadiste pianificano nei campi gli attacchi missilistici
contro Israele.
Le autorità libanesi non possono entrare nei campi, possono soltanto stare a
guardare. Eppure nel 2007 alcuni estremisti nel campo di al-Barad
vicino a Tripoli (di Libano) pianificarono, su incitamento siriano,
attacchi terroristici nel nord del Libano per destabilizzare il paese.
La Siria voleva far pressione sul governo libanese perché bloccasse
l'attività della Corte di Giustizia Internazionale, istituita dal
Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per investigare l'assassinio del primo
ministro libanese Rafik Hariri, di cui è sospettata proprio Beirut.
Seguirono tre mesi di lotte sanguinose fra gli estremisti e l'esercito
libanese, che lasciò sul terreno 400 morti, di cui 168 soldati. Il campo
fu totalmente distrutto e decine di migliaia di profughi rimasero senza
tetto.
Le fazioni palestinesi filo siriane, come il PFLP di Ahmed Jibril, hanno
anche eretto fortificazioni fuori dei campi, soprattutto nella parte
orientale della valle della Bekaa, lungo la frontiera siriana. I Siriani
usano queste fortificazioni, dove le forze armate libanesi non osano
entrare, per accumulare armi e addestrare le milizie di Jibril, che
portano le armi pubblicamente, ad azioni sovversive in Libano.
La situazione complessiva è cupa, ma nessuno in Libano né nel mondo arabo
dice apertamente che è il prodotto della scelta politica araba di impedire
l' integrazione dei rifugiati negli stati arabi confinanti, per non
rischiare di disinnescare il conflitto nato dal rifiuto arabo della
spartizione della Palestina, che avrebbe dato anche ai Palestinesi uno
stato. Fu il concorde tentativo degli Arabi di distruggere il neonato
stato di Israele a creare la dolente piaga dei profughi palestinesi.
A più di 60 anni di distanza, il Libano è la prima vittima di questa
situazione impossibile, che minaccia la sua stessa esistenza. Sistemare i
profughi nei campi doveva essere una soluzione temporanea. Tutti i
successivi governi libanesi rifiutarono di integrare i profughi,
insistendo che prima o poi sarebbero ritornati in Palestina. Questo fu
scritto anche nella costituzione e inserito nell'accordo di Taif che pose
termine alla guerra civile libanese nel 1989. L'accordo stabiliva anche
che tutte le milizie fuori dei campi, incluse quelle di Hizbullah e di
Jibril, sarebbero state disarmate, ma questo non avvenne. Nessun governo
libanese fu mai in grado di imporre il rispetto di quella parte
dell'accordo.
Povertà, terrorismo e mancanza di speranze hanno trasformato i campi in
piaghe aperte nel corpo del paese, ed anche polveriere pronte ad
esplodere, gettando il Libano nel caos e frazionandosi in una miriade di
schegge guerrigliere. Tutti capiscono che questa situazione non può
proseguire e che occorre fare 'qualche cosa'.
Il Libano aderisce ancora alla cosiddetta iniziativa saudita e araba che
ribadisce che i rifugiati non debbono venir assorbiti all'interno dei paesi
ospitanti - parole prive di senso.
Ora Jumblatt ha lanciato questa provocazione, sapendo bene che il suo
paese non può risolvere da solo il problema e che il solo fatto di parlarne
apre voragini fra le comunità libanesi e indebolisce il governo. La
Commissione per gli affari legali cui le proposte sono state inoltrate
dapprima ha deciso di rimandarne la discussione, poi l'ha fissata per il
15 luglio. I rifugiati sono in agitazione e hanno fatto una grande
dimostrazione a Beirut chiedendo i diritti civili per 'poter condurre una
vita decorosa'.
Il presidente di Hamas Khaled Mashaal ha detto agli studenti palestinesi a
Damasco che i rifugiati debbono avere i pieni diritti civili, e che ciò non
significa che i rifugiati si stabiliranno in Libano, perchè i Palestinesi
non rinunceranno mai al diritto al ritorno.
Anche il presidente dell'UNWRA Filippo Grandi, che era a Beirut a fine
giugno, ha chiesto al governo libanese di concedere i diritti civili ai
rifugiati, sostenendo che la creazione di una società palestinese stabile è
nell'interesse del Libano. Grandi era in visita in Libano per raccogliere
fondi per ricostruire il campo di al-Barad, distrutto nei combattimenti.
In una conferenza stampa ha dichiarato di aver raccolto soltanto 4 milioni
di dollari sui 50 necessari. In altre parole, l'ONU è pronto a ricostruire
il campo e a perpetuare lo status di rifugiati per i Palestinesi,
nonostante tutti i problemi.
I partiti cristiani sono ben saldi nell'opposizione. Aoun ha recentemente
dichiarato in un congresso di partito che non acconsentirà mai a
provvedimenti che permettano ai Palestinesi di acquistare proprietà in
Libano. Vale la pena di notare che nessuna organizzazione umanitaria ha
pensato di rilasciare commenti sulle condizioni dei rifugiati palestinesi
in Libano. Gli stati Arabi sanno bene che la situazione è frutto della
loro politica, e preferiscono non interferire.
A fine giugno si è anche tenuta una riunione a Beirut della commissione per
il dialogo libano-palestinese. Il presidente dell'Autorità Palestinese
Mahmoud Abbas ci ha mandato una delegazione guidata da Azzam al-Ahmed, del
comitato centrale di Fatah, cui si è aggiunto il rappresentante del PLO in
Libano. La delegazione si è incontrata con il presidente libanese Michel
Suleiman e con il primo ministro Saad Hariri, ma anche con i rappresentanti
dei partiti cristiani Amin Gemayel e Aoun. Il messaggio per tutti è stato
lo stesso: i Palestinesi rimarranno ospiti in Libano, secondo le leggi del
paese, e non rinunceranno il diritto al ritorno, ma chiedono i diritti
civili per poter vivere decorosamente. Tutti aspettavano di sentire la
risposta del Primo Ministro, che però deluse le aspettative. ll suo
discorso non disse nulla di nuovo. Hariri ripetè che, benché il governo
libanese sia responsabile dei Palestinesi residenti in Libano, la
comunità internazionale deve fare la sua parte e garantire il diritto al
ritorno in Palestina. Aggiunse che il parlamento ed il governo libanesi
faranno la loro parte, ma il resto del mondo deve fare altrettanto.
Il primo ministro libanese non ha la soluzione miracolosa ed è in grande
difficoltà.
Concedere ai Palestinesi il diritto di acquistar casa nel paese e di
lavorare in qualunque settore sarebbe un brutto colpo per i giovani
Libanesi in cerca di lavoro e di casa. Sarebbe anche un primo passo per
l'integrazione definitiva dei Palestinesi in Libano. I partiti cristiani
sono contrari, quelli islamici non sono favorevoli. Sanno bene che
questo aumenterebbe l'antagonismo dei Cristiani e potrebbe portare a una
nuova guerra civile. Fare a pezzi il Libano è proprio quello che la Siria
vuole, perché lascerebbe il paese debole e senza difesa.
Nessuno sa che fare con la bomba lanciata da Jumblatt, né come
disinnescarla. Per ora i Libanesi reagiranno secondo il solito: non faranno
nulla, sperando che i campi profughi non gli esplodano in faccia.
(Zvi Mazel, già Ambasciatore israeliano in Romania, Svezia ed Egitto, è
membro del Jerusalem Centre for Pubblic Affairs and State)