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Ugo Volli
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Che cos'è un negoziato e perché i palestinesi non vogliono proprio farne uno 21/07/2010

Che cos'è un negoziato e perché i palestinesi non vogliono proprio farne uno


Arafat

"Negotiation is the process of discussion with a view to mutual settlement, usually by the means of a conference." "The process of achieving agreement through discussion." "a discussion intended to produce an agreement." Se cercate una definizione di trattativa nella grande miniera di Internet, mettendo per esempio sul vostro motore di ricerca "define: negotiation", i risultati sono questi: il processo di discussione in vista di un accordo reciproco, di solito per mezzo di una conferenza, il processo di raggiungere un accordo per mezzo di discussioni, una discussione volta a produrre un accordo. Peccato che queste definizioni non si attaglino affatto a quel che accade coi palestinesi. Avete letto forse che i palestinesi hanno di nuovo respinto la richiesta israeliana e americana di riprendere la trattativa diretta. Dico "forse", perché i giornali italiani non dicono quasi mai chiaramente che sono i palestinesi a non voler trattare, e quelli di sinistra rovesciano addirittura la frittata, dando la colpa al solito a Israele.

La tecnica palestinese per rifiutare le trattative è stata molto semplice ai tempi di Arafat: il vecchio terrorista diceva semplicemente "no, noo, NO!" e se ne andava, come fece con Clinton in quella svolta della storia del Medio Oriente che fu il fallimento degli incontri di Camp David undici anni fa. Ora Abu Mazen è diventato più accorto e fa così: pone come condizioni per l'inizio della trattativa quelli che potrebbero essere eventualmente i suoi risultati (un accordo sui confini) e anche un bel po' di più: il blocco delle costruzioni, l'accettazione di qualunque costruzione abusiva palestinese nel territorio controllato da Israele, abbia i permessi edilizi o meno, di recente ci ha aggiunto la presenza di una forza internazionale "a difesa della sicurezza dello Stato palestinese" e la pretesa che l'accordo sia messo per iscritto prima dell'inizio delle trattative, cioè che ci sia un accordo prima dell'accordo (http://it.peacereporter.net/articolo/22485/Palestina,+Abbas%3A+%27S%EC+a+trattative+dirette+con+Israele+se+accetta+nostre+proposte%27). Che è come volersi allacciare le scarpe prima di indossarle, o, per dirla con Hegel che certe volte era anche spiritoso, la buona idea di quel saggio scolastico che voleva aver già imparato a nuotare prima di mettere per la prima volta un piede in acqua. E, naturalmente, più la possibilità di un accordo cresce, più aumentano le pretese.

Il risultato di questo atteggiamento è quello che una volta Abba Eban riassunse nella "caratteristica abilità palestinese di non perdere mai un'occasione di perdere un'occasione". Dopo Camp David e Taba e la trattativa con l'"anatra zoppa" Olmert, che sperava di riscattare i suoi guai giudiziari con un grande successo politico, ora i palestinesi stanno buttando via anche l'occasione fornita dal presidente più filoarabo della storia americana, disposto ad appoggiarli su qualsiasi piattaforma che non sia l'esplicita distruzione di Israele, perché l'America non glielo lascerebbe fare. Il problema è perché lo fanno, perché continuano a evitare ogni occasione di compromesso e di possibile progresso pacifico.

Difficile indagare nella psicologia dei popoli, ma un indizio lo potete trovare in questo sondaggio del Palestinian Center for Public Opinion (PCPO), una fonte dunque non sospetta di particolare simpatia nei confronti di Israele. Ci sono molti altri dati interessanti (il 73% crede che Obama appoggi "fortemente" Israele, il 19 che lo appoggi "un po'" e solo il 2,9 che non lo appoggi; il 37 % crede che le trattative fra Israele e Palestina potranno aver successo, mentre il 52% crede di no; più o meno la stessa proporzione che crede che Israele non abbia alcun interesse a fare la pace e che è più pessimista che in passato). Il dato più interessante lo trovate però alle domande numero 14 e 15. Credete, chiede l'intervistatore, che i Palestinesi debbano rinunciare al diritto al ritorno, che gli israeliani non accetteranno mai, in cambio di una Palestina indipendente e della pace? Cioè, in sostanza: volete davvero la pace, o attendete una resa israeliana (perché questo sarebbe evidentemente il "diritto al ritorno" di 7 o 10 milioni di palestinesi - magicamente moltiplicatesi per 10 dalla loro "nabka", in cui se ne andarono in 600 mila). La risposta è chiarissima. L'81,7 dei palestinesi in Giudea e Samaria (non a Gaza e non nei campi profughi fuori dai territori, badate bene, dunque non buona parte dei diretti interessati) ha risposto di no e solo il 14 % di sì. Nella domanda numero 15 si aggiungono delle riparazioni finanziarie, ma il risultato non cambia: 81,8 di no, 13,1 di sì.

I governanti palestinesi non fanno la pace perché il loro popolo non la vuole, almeno non a condizioni che non siano la pura distruzione dei loro nemici. Sono disposti ad avere uno stato israeliano accanto al loro a patto che sia un secondo stato palestinese (anzi un terzo, dato che la Giordania è all'80% palestinese o un quarto se contiamo Gaza). E si illudono che la comunità internazionale glielo possa servire su un piatto d'argento. O, come si è espresso un loro esponente qualche tempo fa "io non ho nulla in contrario all'esistenza di uno stato degli ebrei. Ma non qui, sulla nostra terra. Vadano a farselo in Polonia o in Russia" Magari dalle parti di Auschwitz. Ecco perché, salvo che un'altra vera sconfitta palestinese, non vi sarà mai una trattiva vera, non diciamo una pace, coi palestinesi

Ugo Volli


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