Come in uno specchio o in un laboratorio: Gaza e il Nagorno Karabakh
Gaza
Cari amici, avete presente il lavoro di laboratorio nella scienza sperimentale? Si prende un fenomeno grande e complesso, lo si riduce ai minimi termini, eliminando tutti i dati accessori e si cerca di descrivere il comportamento di questa versione ridotta, sperando così di capire meglio quel che succede nell'originale. Non spesso, ma qualche volta capita qualcosa del genere anche nelle faccende politiche. Il lettore che per esempio ieri si fosse preso la briga di leggere il grosso articolo firmato da Vittorio Emanuele Parsi sulla "Stampa" (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201007articoli/56811girata.asp) avrebbe potuto usare quel che vi viene raccontato per studiare una sorta di versione da laboratorio della propaganda islamista su Gaza: poveri profughi, occupanti cattivi, guerra infinita. L'analogia è da laboratorio perché non si tratta di Gaza e dei palestinesi, ma di un altro conflitto, che ha suscitato una attenzione assai inferiore, quello fra Armenia e Azerbaigian a proposito del Nagorno Karabakh: un'enclave popolata da armeni che alla caduta dell'Urss era rimasto in mano all'Azerbaigian e che ha poi rivendicato e ottenuto con l'aiuto dell'Armenia la propria indipendenza dopo una guerra sanguinosa. Nell'articolo di Parsi non si racconta il territorio conteso, non si parla con gli armeni, non si ricostruisce la storia. Si sente una sola campana, quella di profughi debitamente sofferenti e addolorati. Parsi li ha fatti parlare, immaginiamo per mezzo di un interprete ben addestrato, ha trascritto con efficacia le loro lamentele, da quel bravo giornalista che è.
Peccato che queste lamentele non siano affatto contestualizzate. Che per esempio né i profughi né qualcun altro parli del fatto che la regione è sempre stata popolata in grandissima maggioranza da armeni cristiani; che essa ogni volta che ha potuto (alla fine della Prima guerra Mondiale, alla caduta dell'Urss) abbia dichiarato la propria volontà di unirsi all'Armenia o almeno di conquistare l'indipendenza; che sia stata data all'Azerbaigian da Stalin per compiacere la Turchia; e soprattutto che nel racconto non si parli dei sanguinosissimi pogrom contro gli armeni della regione organizzati dal governo azero – la vera causa della rivolta; che infine si ignori che vi sono stati profughi da entrambe le parti, perché molti armeni vivevano in territorio azero e sono dovuti fuggire in Armenia: se sono stati trattati meglio dei loro "colleghi" azeri è merito dell'Armenia e colpa del ben più ricco vicino; non viceversa.
Nell'articolo non ha neppure rilievo un dato evidente, che si ricava solo da una didascalia e da una battuta di un intervistato: la guerra è iniziata vent'anni fa e finita quindici anni fa: un tempo più che sufficiente per assorbire i profughi e anche per assestare lo stato quo. Dunque perché parlarne adesso? Questa è la domanda centrale. Perché i tristi destini dei profughi di una guerra conclusa nel '94 attirano l'attenzione di un giornalista della Stampa proprio adesso, nel 2010? Che c'è di nuovo? La risposta ha forse a che fare con il fatto che gli azeri sono etnicamente turchi e da sempre sotto la protezione del Grande Fratello di Ankara. La Turchia, nel tentativo di ottenere credibilità internazionale, ha cercato negli ultimi anni di cancellare la macchia del genocidio che ha compiuto contro gli armeni e del furto delle loro terre. Anche qui sono passati 95 anni, ma la ferita è sempre aperta dal rifiuto turco di riconoscere il genocidio. Falliti i ricatti e le pressioni per tacitare il mondo, persa la battaglia nel parlamento americano, in quello svedese e nell'opinione pubblica mondiale, la Turchia ha inscenato nei mesi scorsi una trattativa di pace con l'Armenia, mediata dagli Stati Uniti. L'accordo raggiunto in questa occasione, che nelle intenzioni turche doveva chiudere la faccenda, non è stato però mai ratificato, proprio per la pretesa azera che prima l'Armenia "restituisse" la regione autonoma prima di ottenere la riapertura delle frontiere con la Turchia.
Essendo impossibile la pace, Ankara ha deciso di esercitare anche qui il suo atteggiamento muscolare, recentemente riscoperto. Sulla scorta delle esperienze di Gaza ora evidentemente la Turchia sta preparando l'opinione pubblica a un suo intervento, diplomatico o più concreto, nel conflitto fra Armenia e Arzeibagian. Per questo, e per occultare un po' il genocidio, è necessario che gli armeni diventino i cattivi della storia. Per cancellare i genocidi, insegnano i palestinesi, non c'è niente di meglio che accusare le vittime di essere i nuovi colpevoli. Come è accaduto per Gaza, è probabile che anche in questo caso sia in atto una campagna di relazioni pubbliche condotta scientificamente e con abbondanza di fondi.
Non posso ovviamente sapere come Parsi abbia avuto l'idea e i contatti per scrivere il suo articolo, ma sarebbe interessante conoscerlo. Un giornalista ha sempre delle fonti e queste non sono sempre disinteressate. Le agenzie di relazioni pubbliche servono spesso per facilitare le inchieste giornalistiche – e a spingerle nella direzione opportuna. Non intendo certamente discutere il lavoro di Parsi e la sua professionalità: sono spesso d'accordo con le sue analisi e ho stima della sua intelligenza. Fatto sta che c'è un'impressionante simmetria fra le menzogne che si raccontano sulla popolazione di Gaza "ridotta alla fame" e bisognosa del soccorso di flottiglie turche o libiche e la storia che gli hanno raccontato i poveri rifugiati azeri che sognano di tornare a morire "nella terra dei loro avi" (che poi dei loro padri molto probabilmente non era affatto, perché stavano da un'altra parte). Magari prima o poi qualcuno organizzerà dei soccorsi anche nel Caucaso: perché l'Armenia, come Israele, ha il difetto di essere un piccolo paese incuneato fra minacciosi vicini islamici, forniti di petrolio e assai più grandi di lei. Ed ecco, come in un laboratorio, possiamo cercare di leggere in filigrana nelle storie dei poveri profughi azeri la volontà imperialistica turca e la propaganda islamista su Gaza.
Ugo Volli