Egitto: Mubarak sta morendo. Chi sarà il suo successore? Il rischio è che il filo iraniano el Baradei riesca a vincere le elezioni. Cronaca di Maurizio Molinari, commento di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 20 luglio 2010 Pagina: 11 Autore: Maurizio Molinari - Francesca Paci Titolo: «Mubarak è grave, sta per morire - Israele rischia di perdere un quasi alleato»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/07/2010, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Mubarak è grave, sta per morire ", l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Israele rischia di perdere un quasi alleato ", preceduto dal nostro commento. Ecco i due articoli:
Maurizio Molinari - " Mubarak è grave, sta per morire"
Hosni Mubarak
Hosni Mubarak è in fin di vita e in Egitto è pieno svolgimento una lotta per la successione che costituisce un serio grattacapo mediorientale per l’amministrazione Obama. La malattia sarebbe un tumore al pancreas e, secondo quanto riportato dal Washington Times citando fonti di intelligence americane, dopo l’intervento chirurgico avvenuto in Germania in marzo l’82enne presidente egiziano è entrato nello stato terminale, con le prospettive di sopravvivenza «che non vanno oltre 12-18 mesi » secondo Steven Cook, l’arabista del Council on Foreign Relations appena tornato dal Cairo. «Sappiamo che sta morendo ma non possiamo dire con sicurezza quando avverrà - afferma un funzionario dell’intellingence Usa al Washington Times - come il caso di Fidel Castro dimostra». Jonathan Schanzer, ex analista dell’intelligence al ministero del Tesoro in forza alla Fondazione per la difesa delle democrazie di Washington conferma: «Dal ritorno di Mubarak dall’Europa sappiamo che i suoi giorni sono contati e l’amministrazione Obama sta esaminando gli scenari della successione ». Cook aggiunge ulteriori dettagli: «Un intero piano dell’ospedale nel quartiere di Mahdi è pronto ad accogliere Mubarak in qualsiasi momento, nel frattempo gli iniettano una sostanza che gli consente di essere in condizioni sufficienti per apparire in pubblico». Il presidente della commissione Esteri del Senato John Kerry durante una recente visita a Roma ha definito il futuro dell’Egitto «la maggiore preoccupazione degli Stati Uniti riguardo al Medio Oriente » in ragione del fatto che si tratta del più stretto alleato nel mondo arabo, perno della pace con Israele nonché destinatario di 1,5 miliardi di aiuti annui. La Casa Bianca ha creato un «gruppo di lavoro» ad hoc per tenere aggiornato Obama su ogni sviluppo. Il timore di Washington si deve al fatto che la successione diMubarak è disseminata di incognite: il Raiss non ha mai voluto un vice ma a partire dal 2000 ha manovrato per far emergere nel suo Partito nazional democratico (Pnd) il figlio Gamal, classe 1963, in vista delle presidenziali del settembre 2011 che potranno avere, per la seconda volta dal 2005, più candidati. Il piano di Mubarak, che salì al potere nel 1981 dopo l’assassinio di Anwar Sadat, è di arrivare al voto con una sfida fra Gamal e il candidato meno popolare fra i rivali per far vincere il figlio attraverso un processo apparentemente democratico. «Ma su questa strada vi sono due grandi ostacoli» osserva Schanzer. Il primo è Mohammed El Baradei, l’ex presidente dell’Agenzia atomica dell’Onu vincitore del Nobel per la pace nel 2005, che sta conducendo una campagna modellata su quella di Obama nel 2008 con siti Internet, attività per i giovani e i messaggi di «Hope» (Speranza) e «Change » (Cambiamento). Le stime informali a Washington assegnano a El Baradei una base i «centinaia di migliaia di sostenitori » che lo trasforma in un candidato capace di creare difficoltà a Gamal. Ma non è tutto perché, concordano Cook e Schanzer, «se si votasse oggi a prendere più voti sarebbe il partito islamico dei Fratelli Musulmani» anche se sulla carta non ha candidati. Ciò significa che il Pnd dovrà tentare di neutralizzare la candidatura dei Fratelli Musulmani per aprire la strada a Gamal, andando incontro a tensioni dalle conseguenze imprevedibili. Sullo sfondo c’è anche un terzo candidato, il capo dell’intelligence Omar Suleiman che gode del sostegno dei militari e si è guadagnato la stima delle capitale arabe e occidentali per l’impegno nel favorire la riconciliazione a Gaza fra Hamas e Al Fatah: ma politicamente è debole se il Pnd sosterrà Gamal. In attesa che al Cairo si superi la fase di stallo il Dipartimento di Stato, con il portavoce P. J. Crowley, getta acqua sul fuoco: «Nessuno pensa al dopo-Mubarak, è ancora il presidente dell’Egitto ed ha un ruolo vitale».
Francesca Paci - " Israele rischia di perdere un quasi alleato"
Un pezzo interessante, peccato per lo scivolone sulla capitale israeliana. Ricordiamo a Francesca Paci che la capitale non è Tel Aviv, ma Gerusalemme. Ecco l'articolo:
Se gli israeliani nutrivano ancora qualche remoto dubbio sull’identità del loro più affidabile alleato arabo, l’intervista televisiva concessa qualche mese fa dal presidente egiziano a Oded Granot, star di Channel One, ha spazzato via ogni punto interrogativo. Interpellato sulla minaccia iraniana, un Hosni Mubarak palesemente nervoso ha scavalcato a destra l’interlocutore rispondendo grossomodo così: «Non parlo dell’Iran con un israeliano dal momento che Israele, una volta risolto il problema nucleare, si accorderà con Teheran come è già successo in passato. Io non lo farò mai perché l’Iran vuole cambiare l’Egitto dal di dentro». L’episodio viene ripetutamente citato negli ambienti militari israeliani come prova della guerra a bassa intensità in corso per l’egemonia mediorientale. «Oggi, per la prima volta nella storia, l’agenda della regione è dettata da due Paesi non arabi, l’Iran e la Turchia » spiega un fonte interna all’establishment di Tel Aviv. Il problema è che la vecchia guardia non garantisce più un argine sicuro al dilagare del verbo komehinista: «Il riposizionamento delle forze in campo è facilitato dalla percezione che l’influenza americana nella regione sia in declino e che l’era della tradizionale leadership araba moderata volga al tramonto ». Crollano le azioni della monarchia saudita e giordana ma soprattutto quelle del signore del Cairo. Ai piani alti dell’esercito israeliano dove i generali ragionano di Gaza guardando a Teheran, il nome di Mubarak è pane quotidiano. Era con lui che colloquiava l’allora ministro degli Esteri Tzipi Livni nei giorni precedenti all’operazione Piombo Fuso, nel dicembre 2008. Ora che l’obiettivo di un ipotetico raid è assai più pericoloso del regno di Hamas - per Israele quanto per la leadership egiziana minacciata dalla crescente influenza iraniana al di là del confine con Gaza - la malattia del presidente e la sua eventuale successione sono variabili studiate quanto l’effetto della pressione internazionale su Teheran. «C’è ancora tempo, ma non siamo sicuri che le sanzioni funzionino - ammette una fonte israeliana pluridecorata -. Anche perché, sebbene dopo le elezioni Ahmadinejad abbia perso legittimità, l’opposizione non è ancora in grado di dare lo scossone finale. L’orologio del programma nucleare corre più veloce di quello del cambio di regime e dobbiamo ritardarlo». Fino al punto di attaccare, costi quel che costi? «Il governo di Teheran è radicale ma non irrazionale, può darsi che si pieghi. Poiché però non possiamo permettere che questo specifico regime abbia la bomba, tutte le opzioni sono al vaglio». Chissà che non sia venuto a confrontarsi con i suoi omologhi anche su questo il Capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi, da oggi in viaggio tra Italia e Francia per discutere di sicurezza e cambiamenti in Medioriente. I militari israeliani hanno la mente fissa al potenziale day after e il grilletto pronto: «Cosa succederebbe il giorno dopo che l’Iran avesse la bomba? E’ molto europeo pensare che ci sia un’alternativa, non c’è». Nel Cairo di Mubarak era assai più semplice farsi ascoltare.
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