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Giorgia Greco
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Benedetto Carucci Viterbi - Rabbi Aqiva 19/07/2010

Rabbi Aqiva                                Benedetto Carucci Viterbi
A cura di Gabriella Caramore
Morcelliana                                 Euro 8

C’è ferro e ferro. C’è il metallo delle armi, temprato per uccidere, e c’è un ferro più raro ma non meno pericoloso, quello del ragionamento, che si usa per ferire l’avversario nei punti deboli, ridurlo al silenzio o costringerlo, sconfitto, a darci ragione. Se n’era già accorto Giovanni Pico della Mirandola, che nella sua Orazione sulla dignità dell’uomo scriveva: “Sarei propenso a credere che quando gli ebrei dicono che il ferro è simbolo dei sapienti, vogliano mostrarci che i nobilissimi combattimenti sono assolutamente necessari per il conseguimento della sapienza”.
Non è del resto un caso che il Conte attribuisse al giudaismo una speciale competenza negli scontri di parole. Si può ben dire, infatti, che nella lunga storia della diaspora l’eroismo si sia mostrato soprattutto nello studio. Dopo la distruzione del Tempio e la definitiva perdita dell’indipendenza politica, la cultura rabbinica fu costretta a reinventarsi un nuovo fulcro di identità, non più fatto di virtù bellicose ma di un esercizio tagliente delle facoltà intellettuali. Chi sa di più, chi più s’è inoltrato nel labirinto della Torah, chi conosce ogni sottigliezza esegetica e ricorda a memoria centinaia di norme, ecco il vero vincitore. Uno strano progetto utopico, in cui maestri dall’apparenza mite, magari squattrinati e mingherlini, valgono molto di più dei forzuti e dei ricchi. Un progetto malato d’irrealtà, che ha tuttavia sostenuto il giudaismo nell’esilio, almeno sino alla rivolta sionista di fine Ottocento.
Se il ferro dei sapienti ha un eroe eponimo, questi è certamente rabbi Aqiva, un maestro vissuto tra il 50 e il 135 circa dell’era volgare. Generale senza esercito ma grintoso e coriaceo quant’altri mai. Su Aqiva fioccano le leggende, e le più importanti sono ora raccontate e commentate da rav Benedetto Carucci Viterbi, affiancato da Gabriella Caramore.
Di soldati non ne aveva, ma in compenso Aqiva poteva contare su uno sterminato stuolo di studenti, 12.000 dopo un primo ciclo di lezioni, e addirittura 24.000 alla fine dei suoi corsi. Altro che istruzione di massa, nel giudaismo tardo antico i numeri del mito accendevano la fantasia, e probabilmente anche l’invidia dei colleghi rabbini, che dovevano accontentarsi di un ben più magro bottino di seguaci.
Al di là delle iperboli, quanto ci rimane di Aqiva nei testi giuridici mostra un intellettuale acuto e un grande stratega del pensiero, capace di unire sottigliezza dialettica e profondo sentimento religioso. Per Aqiva, la Torah non era un semplice libro da studiarsi con gli strumenti della grammatica e della retorica, ma una misteriosa sfida lanciata da Dio, agli uomini perché capissero, assieme al testo, se stessi.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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