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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Eshkol Nevo - La simmetria dei desideri 19/07/2010

La simmetria dei desideri                       Eshkol Nevo
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Neri Pozza                                                   Euro 18

Noi siamo diversi. Usiamo un linguaggio più aperto, ironico. Trattiamo altri temi, il sesso ad esempio. Anche il ritmo…Il nostro è veloce: siamo cresciuti con un’altra musica. Insomma, noi, l’ultima leva degli scrittori israeliani ha poco a che fare con gli Oz, Yehoshua, Grossman, Shalev…Anche se li amo e ce li ho nel sangue – Oz è stato il mio professore a Beersheva – noi, le molte voci della mia generazione e anche di quella successiva, siamo un’altra storia. Basta pensare alle ambientazioni: lì Gerusalemme, i kibbutz, i moshav, Haifa…mentre qui è Tel Aviv la regina, il centro dei sogni e del divenire”.
Eshkol Nevo, esordisce così al telefono mentre in Italia, come in altri quattro paesi, esce il suo secondo romanzo – dopo l’ottimo Nostalgia – intitolato La simmetria dei desideri: l’appassionato e disinibito racconto di una amicizia maschile, quattro ragazzi di “provincia” (Haifa!), che decidono di buttarsi nella vita, nell’amore, nel lavoro, nei progetti, nelle notti, trasferendosi a Tel Aviv a cavallo del Duemila, mentre infuriano gli attacchi terroristici più micidiali – in un desiderio evidente di fuga e normalità -, sulla scena arrivano solo gli echi lontani delle tensioni, intifade, guerre passate, presenti, future: quello che i quattro amici – Yuval (voce narrante di un giovane uomo molto sensibile, tendente alla depressione e inutilmente innamorato di Yaara), Ofir dalle tendenze mistiche, Amichai, il più solido e già padre di due bambini, e il loro leader Churchill – si comunicano non è mai la politica né la cronaca di strada che pure si impone con eloquenti bagliori di violenza. Sono il futuro, le donne, il bisogno e la paura di crescere, la caparbia solidarietà quello che passa tra i quattro amici, alla faccia del Medio Oriente reale: e infatti quattro desideri per il proprio avvenire scritti su dei foglietti durante i Mondiali di calcio sono il filo rosso del romanzo.
I protagonisti hanno poco meno di trent’anni, eppure il loro legame non ha a che fare con l’esperienza nell’esercito. Un tratto che lei sottolinea più volte, perché?
La loro amicizia è nata a scuola, per scelta, per i gusti comuni e non per motivi di sopravvivenza. Per me e i miei coetanei l’esperienza nell’esercito non è stata la guerra di Indipendenza, quella del ’67 o del Kippur, ma la prima Intifada: non è un periodo di cui vai fiero, non ne hai nostalgia, non vai a cercare i commilitoni. In fondo allora facemmo più i poliziotti che i militari.
Il libro evita il tema della guerra: è un inno alla normalità. Il vecchio sogno di Israele, essere un paese normale, dove si muore più in ospedale che per un kamikaze. E’ così?
La realtà è molto presente però. In modo subliminale c’è un’ombra continua di violenza. E la domanda di fondo è: in questo paese puoi avere desideri e aspettare che si realizzino? Alla fine del libro leggi la risposta. Vorremmo terribilmente essere un posto come un altro, creiamo famiglie, tiriamo su i figli, lavoriamo, facciamo il tifo ai Mondiali, ma tutto si svolge su una sottile lastra di ghiaccio. E anche se i temi affrontati sono più universali, è questo quello che racconto.
E’ un libro sui desideri. E’ così importante darsi degli appuntamenti con se stessi?
Il mio romanzo parla di come un uomo non possa vivere senza sogni: anche se Grossman ha detto che in Israele il futuro è un argomento tabù, io ne ho voluto fare un tema principe. Ma mi chiedo anche come non rimanerne schiavi, mi interrogo sulle vie di un cambiamento profondo.
Le donne nel suo romanzo sono marginali.
E’ vero, ma sono loro a condurre il gioco. Così, siccome in Israele vogliono fare un serial televisivo tratto dal libro, ho già chiesto che si dia più spazio alle figure femminili.
I suoi protagonisti si chiedono se andare via da Israele.
Shakhar Cohen, il quinto amico, parte perché è gay e preferisce star lontano dalla famiglia o perché ha troppi debiti. Io non me ne andrei mai. Israele è la mia lingua, la mia casa.
Non è anche la sua storia, la sua identità?
E’ innanzitutto la mia lingua. E’ il paese degli ebrei e io sono legato alla storia, alla tradizione ebraica. Ma se mi chiede perché voglio rimanere, la risposta è perché è il luogo dove sono nato e i miei amici, il mio paesaggio sono qui.
Senza paura delle guerre, di Ahmadinejad?
Non mi pare di aver paura. L’Iran, se ci vuole attaccare lo farà, io posso solo sperare. Mi preoccupo di più del problema palestinese, perché è una questione morale. Conosco bene gli ostacoli, Hamas, le campagne di odio contro di noi, e so che non abbiamo un partner ideale per il compromesso, non sono tra quelli sicuri che sia sempre Israele da biasimare. Ma l’accordo è necessario. Per il futuro.

Susanna Nirenstein
R2 Cult – La Repubblica


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