Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/07/2010, a pag. 17, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " La kefiah cinese fa dimenticare Arafat ".

HEBRON — Le macchine sono immobili sotto la polvere, paralizzate come i negoziati di pace. Il simbolo della causa palestinese sta sulla testa stropicciata di Yasser Arafat, i suoi poster a colori foderano la fabbrica di Yasser Hirbawi. Che al leader morto nel 2004 deve l’ispirazione per queste diciassette filatrici, marca giapponese, comprate a partire dal 1961, «perché volevo che in Cisgiordania smettessero di comprare le kefiah all’estero, in Siria». A quei tempi, Arafat vagheggiava dall’esilio in Kuwait uno Stato per il suo popolo e Hirbawi vendeva l’orgoglio di indossare un prodotto locale, con quel disegno in bianco e nero, ancora ispirato alle reti da pesca e alle spighe di grano, come alle origini in Mesopotamia.
La crisi per Yasser l’uomo d’affari è iniziata proprio quando quello Stato è sembrato più vicino a realizzarsi. Gli accordi di Oslo nel 1993 hanno aperto l’economia dei territori al mondo e alla concorrenza. I foulard degli Hirbawi, 100 per cento cotone, costano il doppio di quelli importati, soprattutto dalla Cina. Da trentamila kefiah all’anno, la produzione è scesa a poco più di 1800, cinque al giorno, filate sull’unica macchina che resta in funzione.
Abdel Aziz ripete gli stessi gesti da quarantatré anni. E’ l’ultimo operaio rimasto («senza di lui avremmo già chiuso»), accarezza il tessuto con rispetto, come un cucciolo in via d’estinzione. «L’Autorità palestinese non ci ha aiutato», spiega Izzat, uno dei figli che hanno scelto di lavorare nella fabbrica. «Anche i nostri leader comprano all’estero e i non indossano più la kefiah. Così ci siamo messi a produrre le sciarpe bianche e nere che distribuiscono alle manifestazioni pubbliche. Abbiamo detto al ministero della Gioventù "usate le nostre", non quelle che arrivano da fuori. Non siamo riusciti a trovare un accordo».
Yasser Arafat non ha mai visitato la manifattura, ogni tanto mandava i suoi emissari a comprare un foulard, che il presidente esibiva appoggiato sulla fronte in modo da riprodurre la forma della Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Quando i fondamentalisti di Hamas hanno deciso di contrastare, alla fine degli anni Ottanta, il potere dei laici di Fatah, hanno adottato il copricapo tradizionale, ma con il rosso e il bianco. Gli stessi colori usati ancora oggi dai marxisti del Fronte popolare, anche se nelle università della Cisgiordania i gruppi non si fronteggiano più con il fervore dei tempi impegnati.
Sugli scaffali impolverati, i cappelli da tifoso con il rosso, verde, bianco e nero delle bandiera palestinese hanno sostituito stendardi più politici. I foulard sgargianti rimaneggiano la tradizione per conquistare il gusto dei turisti. «Da Ramallah, ci hanno criticato perché dicono che le usanze vanno rispettate. Noi che cosa possiamo fare? Stiamo fallendo», continua Izzat. I burocrati dei ministeri hanno fermato anche il progetto di entrare nel Guinness dei primati con una kefiah di 18 metri per 18. «Hanno bloccato tutto, secondo loro offendeva la causa palestinese. Abbiamo venduto al governo il fazzoletto gigante, non ci hanno mai pagato».
Non lontano dal magazzino semibuio, i turchi dovrebbero costruire una zona industriale voluta da Tony Blair, inviato del quartetto per il Medio Oriente e sponsor internazionale per il rilancio dell’economia in Cisgiordania. «Le mie macchine sono in buone condizioni — dice Yasser, 79 anni —, ho solo bisogno di un mercato e possono ripartire». Prima del tracollo, il frastuono degli aghi metallici andava avanti ininterrotto per diciotto ore al giorno. La famiglia ha tentato di convincerlo a cambiare strategia, diventare importatori invece che produttori. Un altro figlio aveva stabilito i contatti in Cina, il padre non ha voluto. «I nostri tessuti sono migliori, tutti naturali, senza poliestere». Fino al 2000, nei territori esistevano 120 fabbriche tessili, adesso resta solo questa a Hebron e il patriarca non vuole cedere.
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