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Il Foglio Rassegna Stampa
17.07.2010 La Turchia è sempre più vicina ad Hamas grazie alla guida filo islamica di Erdogan
Anche l'Egitto si sta allontanando dall'Occidente. Commento del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 17 luglio 2010
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Ankara fa piedino a Hamas e il Cairo si prepara al Gran Salto»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/07/2010, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Ankara fa piedino a Hamas e il Cairo si prepara al Gran Salto".


Recep Erdogan, Hosni Mubarak

Roma. Ieri il settimanale Economist e il New York Times sono arrivati da vie diverse alla stessa conclusione. I governi del medio oriente un tempo amici dell’occidente sono davanti a un grande cambiamento: le ragioni sono differenti, ma il risultato è lo stesso: a breve termine, sarà difficile contare sugli stessi alleati storici. Può essere colpa del fattore tempo, come in Egitto, dove il potere trentannale di Hosni Mubarak è agli sgoccioli, e non si fa che parlare della transizione. Può essere un cambio politico, come in Turchia, dove il Partito islamista al potere ha deciso che non vale la pena di stare a elemosinare troppo l’ingresso in Europa (che un tempo si permetteva persino di criticare l’economia turca, che ora dopo il crac della Grecia non appare così malmessa) ed è meglio aspirare alla primazia su tutti gli altri paesi dell’area mediorientale, in un rigurgito poco soppresso di grandeur neo ottomana. Può essere per motivi religiosi-sociali, come in Arabia Saudita, dove il muro tra sudditi arrabbiati e Palazzo – dove migliaia di principi non sanno come spendere i loro petrodollari – non regge più e minaccia di crollare (è spiegato qui sotto). Ieri i due corrispondenti del New York Times dalla Turchia hanno scritto che l’associazione caritatevole che lo scorso maggio ha organizzato la violazione del blocco navale israeliano al largo delle coste di Gaza ha contatti profondi con l’élite della politica turca, ovvero con il partito islamico al potere. Dopo il disastro compiuto dai commando di marina israeliani, che abbordando la nave sono stati sopraffatti e hanno reagito sparando – uccidendo nove assalitori – il gruppo turco era stato accusato di essere collegato all’estremismo islamico, sia con Hamas – un contatto certo – sia con al Qaida. Non era saltato fuori però il coinvolgimento così profondo con gli uomini politici guidati dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Secondo una fonte vicina al governo, che ha preferito rimanere anonima, almeno dieci parlamentari del partito di Erdogan, l’Akp, hanno considerato l’idea di partecipare alla spedizione della Mavi Marmara verso Gaza, ma all’ultimo momento sono sbarcati perché il ministro degli Esteri temeva che la loro presenza portasse a un’escalation incontrollabile della tensione. Quando i leader del gruppo turco sono rientrati in patria, temevano che l’accoglienza sarebbe stata fredda e ostile, perché il caso diplomatico scatenato da loro avrebbe messo a repentaglio le relazioni tra Ankara e Gerusalemme – come è successo. Invece, con loro sorpresa, l’accoglienza fu caldissima: “Quando si è aperto il portellone dell’aereo abbiamo visto Bulent Aric, il vice primo ministro, in lacrime”. Dice Ercan Citlioglu, esperto di terrorismo all’Università Bahcesir di Istanbul: “Il governo avrebbe potuto bloccare la nave, se avesse voluto, ma la missione verso Gaza serviva a entrambi, all’Ihh e al governo per trasformarli in eroi, a casa e nel mondo arabo”. Ma non tutti sono soddisfatti con la manovra. “Come può un paese grande come la Turchia, con interessi in quattro continenti e con un economia fondata su esportazioni e importazioni che richiede gran cautela in tutto il mondo, farsi trascinare sull’orlo di una guerra da un’organizzazione non governativa?”, chiede in un editoriale su Hurriyet il commentatore Semih Idiz. “La risposta? Quel gruppo è un’organizzazione non governativa-governativa”. Nel comitato centrale che prende tutte le decisioni siedono ventuno persone che sono o sono state in contatti strettissimi con l’Akp – o ne sono membri. Anche l’altro grande paese del medio oriente da tempo nel club degli amici dell’occidente sta attraversando una fase di incertezza politica. Ieri il presidente ottantaduenne Hosni Mubarak è apparso a una parata dell’aviazione, per dissipare le voci sulla propria salute, che però insistono: ha un cancro, deve andare in Europa a farsi curare e la lotta per la successione potrebbe aprirsi da un momento all’altro. Ieri il portavoce del dipartimento di stato americano, Philip Crowley, alla richiesta di un commento da parte dell’Amministrazione Obama sulla salute di Mubarak ha detto che non spetta a loro, spetta al governo egiziano. Ma mercoledì scorso il presidente egiziano ha saltato per la seconda volta di seguito un incontro con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che una settimana fa aveva fatto intendere di voler chiedere aiuto a lui per mediare il prossimo round di negoziati con l’Autorità palestinese. La copertina dell’Economist è eloquente: Mubarak è considerato affidabile, ma il suo potere di faraone sta ineluttabilmente svanendo sotto la sabbia del tempo. Dopo di lui, la leadership sull’Egitto potrebbe cadere in mani molto più imprevedibili e molto meno disponibili a mediare con Israele prima e con l’occidente poi.

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