Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 27/06/2010, a pag. 15, l'intervista di Ed Sanders a Shimon Peres dal titolo " Peres: con gli Usa non ci siamo capiti ", a pag. 24, l'intervista di Alain Elkann a Renzo Gattegna dal titolo " Israele non è un Paese indebolito ". Ecco i due pezzi:
Ed Sanders - " Peres: con gli Usa non ci siamo capiti "
Shimon Peres
Mentre Israele si prepara ad allentare il blocco terrestre di Gaza - anche se il suo soldato Gilad Shalit resta prigioniero e Hamas è sempre al potere - molti israeliani si chiedono se l’embargo economico degli ultimi tre anni abbia ottenuto qualcosa di tangibile. Lo ha ottenuto?
«Con quel blocco Israele voleva dire ai palestinesi che i razzi di Hamas contro di lei avrebbero fatto male a loro. Ma con due riserve: che non diventasse una punizione collettiva e non creasse una situazione disumana. Così abbiamo misurato ogni cosa. C’è acqua, c’è cibo, ci sono medicinali sufficienti? Ho letto resoconti sulla situazione a Gaza molto negativi. Eppure la gente era vestita correttamente, i mercati pieni di merci. C’era una contraddizione. Non è un caso che non ci sia stata una crisi umanitaria. Ci sentivamo responsabili. E’ Hamas che ha distrutto tutto. Questo lo si dimentica».
Ma le restrizioni israeliane sui beni civili e i rifornimenti sono servite a raggiungere gli obiettivi politici?
«Non posso rispondere e non so neppure se sia importante. Avevamo sperato in qualcosa di più. Dopo il ritiro unilaterale da Gaza del 2005, avevamo sperato che una volta fuori dalla Striscia, ne saremmo stati fuori davvero. Non siamo riusciti a capire perché ci bombardassero. Siamo stati davvero sorpresi da quella reazione. Io continuo a non capire. Se chi governa Gaza smilitarizzasse Gaza e il terrorismo, non ci sarebbero problemi. Il destino è nelle loro mani».
Qualcuno teme che Israele stia entrando in una nuova stagione di isolamento internazionale. I suoi comportamenti le stanno facendo perdere amici?
«Il fatto che degli estranei facciano pressione su di noi non significa che abbiano ragione. E’ in atto un tentativo di delegittimare Israele. E’ facile. Il blocco arabo ha una maggioranza strutturale alle Nazioni Unite. Non abbiamo mai avuto la minima chance. Io mi chiedo: se stanno delegittimando Israele, chi stanno legittimando? Legittimano anche Hezbollah, Hamas e Al Qaeda. Non è il loro obiettivo, ma se delegittimi la lotta al terrore, la conseguenza è che il terrore viene legittimato».
Non è una semplificazione eccessiva? Criticare le politiche e le pratiche di Israele equivale davvero a delegittimare Israele?
«La critica è una cosa, ma se qualcuno dice: “Tornatevene in Polonia. Tornatevene in Germania”, questa non è una critica. Nemmeno se dice che Israele non ha il diritto di esistere».
Quelli sono come gli scoppi d’ira improvvisi. Non sono ciò che s’intende davvero quando si parla dell’isolamento di Israele.
«Ma che cosa si vuole da noi? Abbiamo accettato la soluzione dei due Stati. Abbiamo accettato di allentare la situazione in Cisgiordania. Stiamo allentando la situazione a Gaza. Eppure ci sono ancora atti di terrorismo. I Paesi che devono combattere il terrorismo capiscono ciò che facciamo, quelli che si limitano a leggerne, no. Abbiamo una storia che non ha nessun altro. In 62 anni di vita siamo stati attaccati sette volte, e sempre per distruggerci».
Gli Stati Uniti vi sono sempre stati amici, ma ora il presidente Obama sembra ridefinire i termini di questa amicizia. Vi ha chiesto di bloccare la costruzione di nuovi insediamenti e ha firmato una risoluzione invitandovi a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare, nonostante le vostre obiezioni. E’ un nuovo genere di amicizia?
«L’amicizia fra Israele e America resta. Obama è stato abbastanza corretto da dire che su alcuni punti aveva capito male. E noi dovremmo fare la stessa cosa, su alcuni punti abbiamo capito male. Ma per essere amici non occorre essere d’accordo sempre e su tutto. La tensione è nata sul problema se costruire o no a Gerusalemme Est. Il primo ministro ha detto che costruiremo là dove lo abbiamo fatto per 44 anni, cioè dalla guerra del ’67, e non costruiremo dove da 44 anni non lo facciamo. Ci sono 21 sobborghi palestinesi dove non abbiamo mai costruito».
Washington si è opposto a quel progetto. Vale la pena di inimicarsi il più potente amico per costruire un parco a Gerusalemme Est?
«Il sindaco di Gerusalemme ha detto che quello è un problema suo e ritiene di essere nel giusto. C’era un’intesa che di queste aree si discuterà nell’ambito degli accordi di pace. E noi ci stiamo comportando di conseguenza: costruiamo dove abbiamo già costruito».
Alcuni palestinesi hanno definito Gaza un enorme campo di concentramento.
«Ma come? Abbiamo lasciato Gaza senza lasciare guardie. Ha mai sentito di un campo di concentramento da cui partano migliaia di razzi?».
Alain Elkann - " Israele non è un Paese indebolito "
Renzo Gattegna
Gattegna, Lei ha accompagnato Fini in Israele, come mai questo viaggio?
«Sono stato invitato dal presidente stesso personalmente con una telefonata. Ho accettato volentieri perché con Fini ho avuto occasioni di incontro positive per i rapporti tra le comunità ebraiche italiane e le istituzioni dello stato italiano. Viviamo un momento di rapporti positivi, non che prima non lo fossero, ma adesso si sviluppa una gamma di occasioni nelle quali le comunità vengono coinvolte anche ai più alti livelli istituzionali, Presidenza della Repubblica, Presidenza della Camera, del Senato, Palazzo Chigi, i Ministeri dei Beni Culturali e dell’Università e il Ministero degli Interni con i quali collaboriamo da anni alla Giornata Europea della Cultura Ebraica, la prima domenica di settembre e per organizzare il Giorno della Memoria, il 27 gennaio».
Quale sarà quest’anno la città capofila per la Giornata Europea della Cultura?
«Livorno».
Quali sono le altre ragioni positive?
«Un altro aspetto positivo è il rapporto tra Italia e Israele. L’Italia oggi, in Europa, è il Paese che si impegna maggiormente per capire la situazione mediorientale e tentare di risolvere i problemi che Israele ha, sia con alcuni stati confinanti, sia con la popolazione palestinese. Un contributo importante in questo senso è venuto, e viene tuttora, dai rapporti sviluppati dai rappresentanti delle massime cariche del nostro paese a partire dal Presidente della Repubblica».
Quali sviluppi, dopo la questione delle navi?
«Israele aveva già da tempo dichiarato l’intenzione di controllare le merci che varcano il confine per arrivare a Gaza, soprattutto dopo che in vari modi, via mare o via terra, l’Iran ha cercato di rifornire di armi la striscia di Gaza. Israele aveva dichiarato che se le navi fossero approdate al porto di Asdot avrebbero poi potuto proseguire via terra con dei camion e far arrivare a Gaza le merci che erano state trasportate. Ma l’intenzione apertamente dichiarata da questa flottiglia era quella di forzare il blocco navale. Delle sei navi, cinque sono state pacificamente controllate senza alcun incidente. Sulla sesta nave gli israeliani sono stati aggrediti da diverse decine di sedicenti pacifisti che hanno tentato un linciaggio dei soldati mano a mano che arrivavano sul ponte della nave. Di questo si sono trovate le prove fotografiche e televisive. Il mondo ha puntato il dito, e quasi unanimamente, condannato Israele e questo succede con frequenza».
Secondo Lei Israele sbaglia? Comunica male? C’è un pregiudizio?
«Se Israele abbia commesso errori non posso pronunciarmi, perché non sono un esperto di strategie militari, ritengo invece che sul piano della comunicazione da parte israeliana sia stato commesso l’errore di far trascorrere circa due intere giornate, troppo tempo, prima che venissero fornite le spiegazioni delle prove di come i fatti si erano realmente svolti. Ritengo che in alcune persone, in alcuni gruppi, il pregiudizio contro Israele ci sia, ma che con un ferreo lavoro di informazione si potrebbe contrastare efficacemente».
Israele oggi le sembra un paese indebolito? In pericolo?
«Non credo che sia un paese indebolito, al contrario, sul piano industriale, scientifico e culturale è in continuo rafforzamento. Il pericolo grave che deve fronteggiare è l’esplicita minaccia iraniana di utilizzare armi di distruzione di massa chimiche, batteriologiche o nucleari. Dai contatti che ho avuto in questo recente viaggio in Israele ho constatato che la speranza degli israeliani è che il pericolo possa essere neutralizzato attraverso pressioni di carattere economico e diplomatico».
La situazione oggi, a parte gli incidenti delle navi, com’è in Israele?
«La questione della sicurezza interna di Israele in questo momento attraversa un periodo di relativa calma. I punti di tensione rimangono gli stessi nei quali sono esplosi i conflitti armati negli ultimi anni, e cioè la frontiera libanese a ridosso della quale una fascia di territorio è controllata da Hezbollah, e all’estremo sud, al confine con la striscia di Gaza, controllata da Hamas. Anche in questo caso si tratta di movimenti armati strettamene collegati, finanziati ed armati da Siria e Iran».
Le Comunità ebraiche italiane come hanno reagito alla questione delle navi?
«Da una parte le comunità hanno sofferto per la mancanza di informazione su ciò che stava accadendo, ma hanno sofferto anche per il tentativo di isolamento politico che a Roma, e in altre città, si è concretizzato in cortei e manifestazioni fortemente ostili verso Israele e nel tentativo, avvenuto a Roma, di entrare nel quartiere ebraico con intenzioni quantomeno provocatorie».
Questo è pericoloso per l’antisemitismo?
«L’antisemitismo è una forma di pregiudizio e ritengo che l’unico mezzo efficace per combatterlo sia la diffusione della verità».
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