Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/06/2010, a pag. 19, l'articolo di Marie-Pierre Submil dal titolo " Al Jazeera, donne in rivolta: 'Ormai è la tv dei taleban' ".
Come mai la FNSI non protesta?
Come mai Lilli Gruber non ha dedicato una puntata di 8 e mezzo alla notizia ?
Come mai nemmeno una parola di solidarietà ? .
Come mai le giornaliste del TG3 non hanno siglato nessun documento e le femministe non hanno mandato manco un sms... ?
Come mai la notizia delle dipendenti donne di al Jazeera costrette a vestirti in una certa maniera (niente pantaloni, niente camicie troppo scollate, ...) e, di fatto, costrette alle dimissioni, non suscita nessun sentimento di solidarietà in Occidente?
Già, come mai ?
Ecco l'articolo:
al Jazeera e una delle sue conduttrici ideali
La data della svolta è il primo novembre 2009. Al Jazeera festeggia il suo 13° anno di attività e lancia un nuovo look stilistico. Presentatori e presentatrici non saranno più soltanto a mezzo busto, ma si alzeranno in piedi e cammineranno davanti alla telecamera. Quel giorno, commenta sarcastica una giornalista, la direzione ha fatto un’amara scoperta: quando una donna si alza in piedi, ha le gambe.
In 13 anni, la tv satellitare qatariota ha preso molti colpi, ma ne ha sempre fatto la sua forza. Ha dovuto gestire gli attacchi di Washington, esasperata dal vedere Osama bin Laden e i taleban sui suoi schermi. Combattere contro i regimi del Maghreb, furiosi dalle parole gli integralisti trasmesse sui loro territori. Ma quel 1° novembre scoppia un’altra crisi. Interna, nel cuore stesso della famiglia, che si concluderà con le dimissioni di cinque presentatrici, una su tre.
Cinque ottime professioniste, belle e intelligenti, volti conosciuti in tutto il mondo arabo. Venute dal Libano, dalla Siria e dalla Tunisia, fiere di lavorare a Doha, capitale del Qatar, per la più importante tv in lingua araba, quella che contribuiva a cambiare la società, dal Marocco ai Paesi del Golfo, con il suo slogan: «Un’opinione e il suo contrario».
Qualche giorno dopo il lancio del nuovo look, i giornalisti ricevono un codice d’abbigliamento. La direzione fa sapere che era «preferibile» non portare pantaloni aderenti. Le gonne devono scendere almeno cinque centimetri sotto il ginocchio. Le camicette non lasciar vedere più di cinque centimetri di pelle «a partire dalla base collo». Nessuna istruzione, però, sull’abbigliamento maschile.
Il direttore aggiunto della redazione, Ayman Jaballah, fa l’arbiter elegantiae già da qualche mese. Convoca di continuo alcune presentatrici. Rimprovera a una di aver mostrato gli alluci, a un’altra di indossare una «camicia da notte». Con il codice d’abbigliamento la persecuzione si inasprisce. Nove presentatrici scrivono una lettera di protesta alla direzione, senza renderla pubblica per non nuocere all’immagine della rete.
Le ribelli sono sciite, sunnite, druse, cristiane. Persino Khadidja Benguenna, un’icona nel mondo arabo, mette la sua firma. Per scelta personale, questa algerina porta da alcuni anni un leggero foulard annodato attorno alla testa. Il suo allineamento alle insubordinate dovrebbe allertare la direzione. Invece passano sei mesi. Esasperate, cinque nuove ribelli bussano alla porte, mentre il loro inquisitore, Ayman Jaballah, è stato spostato ad Al Jazeera Live, una delle reti del gruppo.
L’unico che può dare una risposta è l’emiro del Qatar, fondatore e mecenate della tv. Ma lo sceicco Hamad Ben Khalifa Al Thani non è un uomo da mettere tutte le uova nello stesso paniere. Sa che la disputa non è tanto sulla lunghezza degli orli. Ha creato Al Jazeera (l’Isola, in arabo) un anno dopo aver rovesciato suo padre, nel quadro di un grande disegno strategico per il Qatar.
L’emirato è il Paese con il più alto reddito pro capite al mondo (dati dell’Fmi), una nazione con un milione e mezzo di abitanti, l’85% stranieri, che cerca di esistere dispiegando la sua influenza in tutte le direzioni. È l’unico della regione a ricevere ministri israeliani ed esponenti di Hamas, l’unico a trattare con gli occidentali e gli islamisti. La sede di Al Jazeera, in fondo, si trova a pochi chilometri dal quartier generale del Centcom, la base con 100 mila uomini che supervisiona le operazioni delle forze armate Usa in Iraq e Afghanistan.
Con il suo design ultramoderno, l’entrata della sede potrebbe figurare su un mensile di architettura. La redazione in lingua araba ha 50 milioni di telespettatori. Di fronte, quella in lingua inglese, ne raggiunge 200 milioni. In pochi anni Al Jazeera è diventata un impero. Ha 64 uffici, da Caracas, in Venezuela, ad Harare, in Zimbabwe, una scuola di giornalismo, un centro studi.
Nessuna delle giornaliste che si sono dimesse ha parlato alla stampa. Troppo rischioso per loro, e per i loro mariti: uno straniero non può lasciare definitivamente il Paese se non ha il permesso del suo datore di lavoro. I sindacati non esistono. Di nascosto, però, alcune delle ribelli parlano, e sono chiare: il codice di abbigliamento è il casus belli, ma dietro ci sono altre ragioni, più importanti.
Alla redazione in arabo «si ha l’impressione di lavorare per la tv del taleban». Le trasmissioni condotte da donne sono scomparse. Non c’è una donna nei ruoli dirigenziali, tranne il capo delle truccatrici. La linea editoriale è sempre più cupa, «si comincia con Gaza e si finisce con Mogadiscio, sullo schermo non ci sono che morti e sangue». Una delle ribelli riassume così: «Hanno dirottato l’aereo».
Il pilota ora si chiama Wadah Khanfar. Cresciuto a Gaza, affiliato ai Fratelli musulmani, è stato assunto quando si trovava in Sudafrica e nominato direttore generale quando era a Baghdad, nel 2003. Una delle presentatrici si ricorda a memoria il giorno del dirottamento: «Il 29 marzo 2006, il giorno dopo la vittoria di Olmert in Israele, abbiamo consacrato dieci minuti alle elezioni, poi abbiamo dato la parola a Ismail Haniyeh, allora primo ministro palestinese dopo la vittoria di Hamas: ha parlato per un’ora intera».
Le dimissioni collettive delle presentatrici hanno un merito: l’allarme è stato suonato. In passato c’erano già state dimissioni. Sette capiservizio hanno già lasciato, comprese vedette come Hafez Al Mirazi, che dirigeva l’ufficio di corrispondenza di Washington, stufo «di difendere Al Jazeera in America». Nel mondo arabo, la tv qatariota resta la preferita. Ma si affacciano temibili concorrenti, che potrebbero costringere l’emiro a scelte meno ideologiche. Il principe saudita Al Walid Ben Talal, tanto per dire, si prepara a lanciare una sua tv, in collaborazione con un certo Rupert Murdoch.
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