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David Braha
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La battaglia mediatica per Gilad Shalit 21/06/2010

"La battaglia mediatica per Gilad Shalit"
di David Braha

Nell'immagine in alto, il volantino della manifestazione per Gilad Shalit che si terrà giovedì sera a Roma.


David Braha

In questi giorni due persone, un uomo ed una donna, stanno marciando dalla piccola cittadina di Mizpe Hila, nel nord di Israele, verso Gerusalemme. Nel corso della loro marcia stanno facendo tappa in diverse città del paese al fine di ricordare alla gente l’importanza della battaglia che stanno combattendo, di raccogliere la solidarietà popolare e trovare così la forza di andare avanti. L’uomo e la donna sono Noam e Aviva Shalit, i genitori di Gilad Shalit, il soldato dell’esercito israeliano rapito da Hamas il 25 Giugno del 2006. A quasi quattro anni dal suo sequestro, però, ancora non si intravede all’orizzonte la possibilità di riportare a casa il giovane: ma come dimostra questa marcia, i genitori non intendono arrendersi.

 Di Gilad Shalit non si sa nulla ormai da mesi: le ultime ‘novità’ riguardo la sua condizione risalgono infatti a metà dello scorso Settembre quando in cambio della liberazione di venti donne imprigionate nelle carceri israeliane il governo Netanyahu ricevette un video che mostrava il soldato vivo e apparentemente in buona salute. Nel corso dei tre anni di prigionia precedenti al filmato, arrivarono solo pochissime informazioni: tre lettere scritte dallo stesso Gilad alla famiglia, una registrazione audio. Da dopo il video invece, non si è saputo più nulla. È vivo? È morto? Sta bene? Nessuno lo sa. In quasi quattro anni di prigionia infatti, a Gilad è stato negato qualunque contatto con il mondo esterno, con i familiari, e con le organizzazioni umanitarie, inclusa la Croce Rossa Internazionale. Il tutto in aperta violazione delle leggi internazionali sui diritti dell’uomo delle quali Hamas si fa ‘paladino’, quando invece si parla della popolazione di Gaza; il tutto nella quasi totale indifferenza da parte della comunità internazionale.

 “Due Governi [Olmert prima, e Netanyahu dopo] hanno sacrificato mio figlio, e con lui il loro obbligo etico di non lasciare indietro, sul campo, i propri soldati” afferma Noam Shalit, puntando il dito contro l’inutilità delle trattative che fino ad ora non sono servite a portare a casa Gilad. Non solo, ma la pressione internazionale su Israele al fine di ridurre o annullare l’embargo a Gaza, lo preoccupano fortemente, in quanto “queste restrizioni [l’embargo] sono l’ultima carta che possiamo giocarci contro Hamas”. In altre parole se l’embargo dovesse essere sollevato, la speranza di riabbracciare il figlio diventerebbe minima a causa della mancanza, da parte di Israele, di una possibile ‘merce di scambio’. È tramite un gesto simbolico come questa marcia quindi, che gli Shalit, e tutti i sostenitori della loro causa, chiedono a Netanyahu di non dimenticarsi di Gilad.

 Ma è sempre tramite un gesto simbolico come questa marcia, che appare sempre più chiara una verità che riguarda non più solo il caso Shalit, ma il conflitto mediorientale in generale. Questa verità è che le grandi battaglie di oggi ormai non si combattono più sul campo, o almeno non solo su quello. Il terreno di scontro principale, quello quotidiano, vicino a tutti, in Israele e non, sono ormai le pagine dei quotidiani, i blog, i siti internet, l’opinione pubblica popolare messa in moto dagli ingranaggi dei media, che ormai sono in grado da soli di fare la differenza: la recente battaglia mediatica – persa da Israele – sulla questione della Flottiglia, ne è forse la dimostrazione più lampante. Ma Noam e Aviva Shalit sembrano aver imparato la lezione: ed è per questo che stanno premendo proprio sui media per smuovere l’opinione pubblica, per far diventare il loro Gilad il figlio di una nazione intera, la vittima innocente di un conflitto più grande di lui. Ed è così che sperano di convincere la leadership politica a fare gesti rischiosi ma significativi, al fine di riportare a casa il ragazzo.

 “Sia Olmert che Netanyahu avrebbero potuto fare di più” afferma Noam Shalit. E probabilmente ha ragione. Ma non necessariamente perché nessuno dei due ha liberato le centinaia di terroristi richiesti da Hamas in cambio di Gilad. Entrambi avrebbero potuto fare di più per portare il caso del soldato rapito sotto i riflettori del palco internazionale, per attirare l’attenzione dei media di tutto il mondo sulla questione, e rendere la liberazione di Gilad non una clausola marginale, ma una conditio sine qua non sulla quale basare qualunque possibile trattativa di Israele con i suoi avversari. Di nuovo, quindi, lo Stato Ebraico inciampa sul mancato sfruttamento, o sull’errata gestione, dell’impatto dei mezzi di comunicazione in un mondo globalizzato. E la cosa preoccupante è che più sbaglia, più continua imperterrito per la propria strada. È per questo che, evidentemente, è arrivato il momento di imparare con umiltà la lezione di cui Noam e Aviva Shalit hanno già fatto tesoro.


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