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La Stampa Rassegna Stampa
20.06.2010 Ultra ortodossi: in Israele, a New York, in Europa
articoli di Aldo Baquis, Maurizio Molinari, Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 20 giugno 2010
Pagina: 10
Autore: Aldo Baquis, Maurizio Molinari, Francesca Paci
Titolo: «Pronti a mettere lo Stato sionista a ferro e fuoco- Al parco di Brooklyn la pace corre sull'iPod-L'yiddish al servizio di Sua Maestà»

"Prima la Torah, poi lo Stato", è uno slogan che sarebbero pronti a sottoscrivere più o meno il 10% degli israeliani, una percentuale molto bassa, ma non per questo meno preoccupante. La STAMPA di oggi, 20/06/2010, dedica le pagine 10-11 a questo problema, con tre articoli.
Il primo, da Israele di Aldo Baquis, il secondo da New York, di Maurizio Molinari, il terzo da Roma, di Francesca Paci.
Un conflitto come altri che caratterizzano le società democratiche.
In quelle autoritarie o dittatoriali può accadere soltanto la rivoluzione, preceduta e seguita da massacri. Israele risolverà anche questa grana, ma ci arriverà soltanto quando alla guida del governo ci sarà una coalizione di partiti laici, quando quelli religiosi ne rimarranno fuori. Cadranno così i ricatti, essenzialmente di natura economica, che hanno permesso sino ad oggi privilegi alle istituzioni confessionali, inaccettabili in uno Stato moderno.
Ecco gli articoli:

Aldo Baquis: " Pronti a mettere lo Stato sionista a ferro e fuoco "

«Ho nostalgia di mio padre, ma non sono triste. Lui è chiuso là per santificare il Nome del Signore». Di fronte ai cancelli della prigione di Maassiahu, 20 chilometri da Tel Aviv, nel pomeriggio di venerdì, mingherlino ed occhialuto, il bambino ortodosso si accingeva ad intonare assieme ai compagni gli inni sabbatici nella speranza che i padri in cella riuscissero a sentirli.
Qualcuno aveva portato un organo con gli amplificatori, e c’era anche uno shofar, il corno rituale. Su un cartello, in idioma yiddish, era scritto: «Gute Shabbes, Abba». Papà, passa un sabato sereno. E c’erano anche i grandi pani del sabato, destinati ai reclusi. Ma il Servizio carcerario aveva ordini ferrei: niente cibo dall’esterno ai detenuti, né tantomeno giornali.
In questi giorni di scontro frontale fra il mondo rabbinico e le istituzioni laiche di Israele, i fogli ortodossi hanno assunto un tono quasi bolscevico. Il settimanale Mishpaha titola: «Guerra culturale». E il tabloid rabbinico Hadashot-24 lo insegue: «Guerra civile». Non proprio i testi che i guardiani desiderano siano divulgati fra i 35 ebrei ortodossi che da giovedì scontano due settimane di reclusione per essersi ribellati ai Giudici di Gerusalemme. Fra i timorati la loro abnegazione desta già una ammirazione sconfinata: «Sono i nuovi Maccabei, i nuovi Asmonei», ossia ebrei tutti di un pezzo «di fronte ad un regime infame» (ossia lo stato laico di Israele): degni dunque di entrare nella mitologia. Dalla loro cella comune - si afferma davanti ai cancelli di Maassiahu - si innalza ora «il ruggito di Emmanuel».
Pochi sono gli israeliani che, in assenza di una carta geografica precisa, saprebbero indicare con mano sicura la strada per Emmanuel, piccola colonia ortodossa in Cisgiordania guidata da rabbini che con il sionismo hanno poco o niente a che spartire. La scuola da cui è iniziata la rivolta rientra nella corte rabbinica di Salonim, che affonda le sue radici nell’Europa settecentesca. L'ortodossia, viene spiegato ad Emmanuel, è come l’erba inglese: necessita secoli per sedimentarsi, per crescere al meglio. Allora gli ebrei ashkenaziti (europei) che sono ortodossi da secoli, hanno un raggiunto livello spirituale superiore a quello dei sefarditi (originari di Paesi arabi) che nel migliore dei casi sono approdati alla ortodossia alla fine degli Anni Ottanta. Per questa ragione la direzione tiene classi separate per allieve ashkenazite e sefardite. E se la Corte Suprema dice che questo «razzismo» deve essere abolito, gli insegnanti di Emmanuel, della corte di Salonim, non possono che rifiutarsi ed andare in carcere. A testa alta, e con lo «streimel» in testa.
C’era una volta un Gentile in Russia che voleva umiliare un ebreo e gli disse di mettersi in testa la coda di una volpe. L’ebreo - racconta un timorato - «prese diverse code di volpi e si fece un bel colbacco circolare che da allora è il nostro copricapo nelle feste. Così pure la Corte Suprema voleva umiliarci, e invece ci siamo riversati in 100 mila per strada».
Dalla Corte Suprema, scrive il foglio rabbinico Kav ha-Itonut, non si accettano peraltro lezioni di lotta alla discriminazione. La maggioranza dei suoi giudici sono di estrazione ashkenazita, i sefarditi sono rari. Dunque non è quello il pulpito migliore. Il giornale incalza: «I sefarditi hanno molto patito dallo Stato laico di Israele, quando sono immigrati. Ben Gurion cercò di estirpare le loro radici religiose. Proprio grazie ai nostri istituti sono tornati sulla strada della fede».
A pochi passi dai cancelli della prigione «Ruggito di Emmanuel», Pinchas Saltzman, uno degli organizzatori della protesta, spiega che la guerra con lo stato laico di Israele è ormai aperta. «Domenica la Corte Suprema deve decidere se insistere per arrestare anche 22 mogli degli ortodossi reclusi qua. Fra loro ci sono donne incinte, madri di famiglie numerose... Se daranno loro la caccia, faremo scendere in strada migliaia di bambini, le proteste si estenderanno da Anversa a Strasburgo, da Basilea a Londra. Daremo fuoco a tutto».
Nel frattempo le 22 madri ricercate si sono date alla macchia, protette in un vasto «cantone» rabbinico che si estende da Bene' Brak (Tel Aviv) a Beit Shemesh e a Gerusalemme, dalla colonia di Kiryat Sefer a quella di Betar Illit (Cisgiordania). Secondo le radio una delle «ricercate» avrebbe partorito venerdì il suo ultimo figlio, il dodicesimo. Ma era solo una burla del «Dipartimento per la Disinformazione della Stampa Laica» firmato dalla Corte rabbinica di Salonim.

Maurizio Molinari: " Al parco di Brooklyn la pace corre sull'iPod "

Sopravvissuti alle persecuzioni naziste, fuggiti ai pogrom zaristi e sovietici, con l’iPod in tasca, la borsa della spesa lungo la Tredicesima Avenue di Boro Park e la mente costantemente impegnata a riflettere sulla «Daf Yomi», la diversa pagina di Talmud che si studia ogni giorno dell’anno: sono i chassidim di New York, concentrati a Brooklyn ma presenti anche negli altri quattro «borough» della Grande Mela dando vita a una comunità composita e numerosa al punto da gareggiare con quella residente in Israele.
I chassidim di New York sono anzitutto dei sopravvissuti. L’arrivo dei primi gruppi risale al 1881 quando dopo la morte dello zar Alessandro I i cosacchi imperiali mettono a ferro e fuoco gli shtetl narrati da Sholem Aleichem ma è la Seconda Guerra Mondiale a innescare la moltiplicazione di massa. Dall’Ungheria sotto il tallone nazista dove Adolf Eichmann coordina lo sterminio di oltre 500 mila ebrei nel 1944 riesce miracolosamente a fuggire Yoel Teitelbaum, il Grande Rebbe dei Satmar, che sbarca a Williamsburg, trova casa a Bedford Avenue e salva la setta ortodossa dalla scomparsa. Oggi i Satmar che vivono a ridosso dell’East River sono oltre 130 mila e Yossi Garelik, che invece è un chassid di Lubavitch originario della Russia, ama ripetere: «Se Hitler fosse vivo vorrei portarlo a fare un giro in auto da queste parti». Anche i Lubavitch sono dei sopravvissuti, ma dalle persecuzioni in Unione Sovietica. Josef Stalin li riteneva una fastidiosa presenza, li obbligava a chiudere le sinagoghe e a violare lo Shabbat. A migliaia furono uccisi, arrestati o deportati in Siberia.
Da qui la scelta di fuggire, da soli o a gruppi come riuscì a un intero treno di chassidim Lubavitch nel 1946 arrivando in Polonia con documenti che li descrivevano come «profughi sulla via del ritorno». Nessuno di loro parlava polacco, fecero l’intero viaggio senza aprire bocca e se riuscirono a mettersi in salvo fu per l’abilità del chassid Leibel Motchkin nel corrompere i doganieri e falsificare le carte di identità. La polizia segreta sovietica lo braccò per anni, riuscendo a catturarlo nel Caucaso e deportandolo in Siberia da dove, liberato dopo oltre 20 anni, arrivò a Crown Heights, Brooklyn, trovando ad accoglierlo il Grande Rebbe Menachem Mendel Schneerson che gli disse di contare d’ora in avanti la sua età scalando gli anni della prigionia.
Il ricordo dello scampato pericolo è costante, immanente, in una comunità ortodossa di oltre mezzo milione di anime che è diversa in tutto: ogni setta di chassidim ha abiti, usanze, dialetti, cibi e rabbini diversi per non parlare delle interpretazioni religiose o le posizioni politiche, anche sull’esistenza di Israele. Le differenze sono non solo fra sefarditi (originari dei Paesi arabi e del Mediterraneo) e ashkenaziti (originari dell’Europa dell’Est e della Germania) ma all’interno dei gruppi e sottogruppi che li compongono. Gli stessi contrasti che in Israele fanno scaturire interminabili liti politico-religiose su leggi e identità dello Stato ebraico si dissolvono sulla Tredicesima Avenue di Boro Park dove i chassidim convivono in negozi che vendono parrucche per donne osservanti, supermercati con cibi rigorosamente «glatt kosher» e librerie con i volumi firmati da saggi contemporanei come Moshe Feinstein e Adin Steinsaltz. Ciò che tiene assieme il mosaico ortodosso della Grande Mela è l’integrazione nella «Goldene Medine», la terra d’oro come alla fine dell’Ottocento gli askenaziti arrivati da Russia e Polonia definivano l’America.
Un’integrazione descritta da una miriade di fatti quotidiani: dagli show de «Le Cirque du Soleil» organizzati apposta per la festa ebraica di Purim ai film come «Ushpizin» programmati nei cinema di Manhattan, dalle linee di autobus con gli orari immaginati per non sovrapporsi con quelli delle preghiere del mattino e della sera fino all’application «Siddur» creata da un’azienda chassid di Monsey e offerta dalla Apple per consentire a ogni osservante di poter pregare sull’iPod.
Francesca Paci: " L'yiddish al servizio di Sua Maestà "

All’ingresso della Yesodey Hatorah Jewish School di Amhurst Park, periferia Est della City londinese, una foto autografata della Regina Elisabetta II accoglie ogni mattina i 500 figli con i boccoli detti «peot» e le 700 figlie in severo abito scuro d’uno degli ultimi «shtetl» d’Europa. Qui, a ridosso di quell’enclave anglo-musulmana punteggiata di minareti nota come Londonistan, vivono circa 20 mila ebrei ortodossi, un terzo della comunità haredi, disseminata tra Anversa e Parigi, che si veste, mangia, parla alla maniera degli antenati polacchi di tre secoli fa.
«Il rapporto tra i gruppi chassidici europei e il paese in cui risiedono non ha nulla della conflittualità esplosa nei giorni scorsi a Gerusalemme» nota lo storico Ariel Toaff, professore emerito all’Università Bar Ilan di Tel Aviv e autore del saggio «Il prestigiatore di Dio». Vale a dire contraddizione zero tra lo studio dei precetti rabbinici e Sua Maestà britannica: «Tutti negano il primato dello Stato sulla religione e obbediscono esclusivamente alla Torah ma chi non abita in Israele si adegua alla legge del governo guidato da non ebrei accontentandosi di osservare usanze e riti nel quartiere». Il codice interno è rigido: abbigliamento modesto, separazione tra i sessi, alimentazione regolata dalla «kashrut» senza carne di maiale, cavallo o coniglio, famiglie giovani e prolifiche con le donne al lavoro e gli uomini curvi sui libri come nei romanzi di Isaac Bashevis Singer. Quello esterno si piega, più o meno volentieri, alla Costituzione inglese, francese, belga.
Chiunque si sia addentrato almeno una volta nei vicoli del quartiere ebraico di Anversa, dove, come nel Medioevo, otto famiglie su dieci guadagnano tagliando diamanti e le altre si occupano di transazioni immobiliari, commercio d’antichità judaica o cambiavalute, attività che sottraggono poco tempo allo studio della Torah e possono essere facilmente svolte in casa da mogli e figlie, conosce l’atmosfera da fortino impermeabile alla modernità.
«Il primo scontro tra gli ortodossi e il resto della comunità risale alla fine del 1600, quando nella Polonia meridionale un gruppo di oltranzisti contesta gli strumenti da macellazione», spiega lo studioso David Bidussa, che per la casa editrice La Giuntina ha curato il volume di Yosef Yerushalmi «Assimilazione e antisemitismo razziale». Il resto è un processo d’allontanamento che culmina nella frattura di duecento anni dopo: da un lato gli ebrei integrati al mondo post rivoluzione industriale, dall’altro gli ortodossi e gli ultra, custodi dell’immobilismo biblico. Le migrazioni di fine ‘800 verso le prosperose capitali europee e gli Stati Uniti li vedono già separati in casa, fratelli talvolta coltelli fino al battesimo dello Stato d’Israele, coronamento del sogno sionista per i primi e per i secondi colpevole anticipazione dell’ancora attesa venuta del Messia al punto che oggi le sinagoghe più oltranziste dello Yemen incoraggiano la fuga verso New York anziché verso Gerusalemme.
«Gli haredim rifiutano comunque l’integrazione con la società in cui vivono, gentile o ebraica non ortodossa» nota Anna Foa, docente di Storia moderna e autrice del libro «Ebrei in Europa». Se in Israele la diatriba su chi abbia il diritto di governare e secondo quale principio investe la sfera politica, a Londra come a Parigi si compone nell’esibizione quasi folklorica di un’alterità: «Grazie alla totale assenza di conflittualità generazionale le comunità ortodosse europee tendono a chiudersi in autoghetti in cui, compatibilmente con le leggi nazionali, possano tutelare le proprie tradizioni, dalle scuole religiose private tipo yeshiva all’uso della lingua yiddish». Se la routine quotidiana impone loro di ricorrere all’inglese o al francese, inimmaginabile sentirli parlare ebraico: «L’ebraico è sacro. Ben Yehuda, il padre dell’ebraico moderno, fu accusato d’averlo profanamente laicizzato e suo figlio, che se ne serviva per comunicare con il cane, venne brutalmente aggredito».
«Diversamente da quelli americani, militanti in modo postmoderno e in parte simile all’islam politico, gli ebrei ortodossi europei resistono arroccati in un mondo premoderno» chiosa Bidussa. Il pendolo dell’identità oscilla tra passato e futuro come i rabbini in preghiera con il tallit sulle spalle.

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