Tiqqun. Riparare il mondo Emil L. Fackenheim
a cura di Massimo Giuliani
traduzione di Martino Doni
Medusa Euro 24,50
Di solito lo si traduce con “restaurazione” o “riparazione”, ma la gamma dei suoi significati è molto più ampia e fluttuante. Può valere “ornamento”, “gioiello” di una sposa, o le sue vesti conturbanti, oppure il velo della prostituta. Nel linguaggio dell’agricoltura significa la preparazione del terreno affinché diventi fertile. Nella prosa del vecchio Ecclesiaste, sazio di esperienze e delusioni, è l’azione del raddrizzare ciò che è storto, operazione impossibile per lo meno nei limiti della fragilità umana.
Il concetto di tiqqun è uno dei più profondi ed enigmatici della tradizione giudaica. Per un popolo come quello ebraico, che delle proprie sconfitte ha fatto un elemento essenziale d’identità, la restaurazione o riparazione della storia è mestiere antico. Schiavitù, fuga, distruzione, caduta, deportazione: basta sfogliare le pagine della bibbia ebraica per imbattersi in una cronaca negativa, costellata di rovesci. Nell’ebraismo di età biblica, la vittoria appare più l’eccezione che la regola. Molto spesso Israele deve fare i conti con la propria impotenza militare e politica, di piccolo popolo stretto tra vicini di forze schiaccianti, come l’Egitto e Mesopotamia. E i conti non potrebbero mai tornare, se non fosse che dietro la storia scorre il rapporto indissolubile e arcano tra Dio e il suo popolo. E lì, nello spazio privatissimo, a un tempo minimo e dilatato, che unisce gli sconfitti alla propria fede, è possibile restaurare il divenire, e porvi rimedio. Dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C., quando l’unica forma di sopravvivenza possibile è nella diaspora, restaurare il mondo significa per Israele consacrarsi all’osservanza dei precetti, perché da questa dipendono perdono divino e reintegrazione della prosperità. Così, nella qabbalah, il tiqqun è a un tempo azione dall’alto, intervento luminoso a favore degli umiliati, ma anche operazione dal basso, atto di devozione che dà sollievo al cosmo attraverso la preghiera.
Che fare, però, e che pensare dopo Auschwitz? E’ possibile sperare nel tiqqun di fronte all’annientamento? Emil L. Fackenheim, nato a Halle, in Germania, nel 1916 e morto nel 2003, se lo è chiesto in un libro (Tiqqun. Riparare il mondo) divenuto ormai un classico del pensiero ebraico del post Olocausto, ora proposto in italiano da Medusa. La Shoah, riflette Fackenheim, non fu solo l’ennesima sconfitta, da situarsi nel dare e avere della storia, ma rappresentò la realizzazione di un anti-mondo in cui agli ebrei in quanto tali venne addossata la colpa radicale dell’esistere. Se la diaspora era riuscita a riappacificarsi con Dio trascendendo la storia, dopo l’Olocausto è necessario che il popolo ebraico rientri nel qui e ora, mettendo in pratica un nuovo precetto, che si aggiunge ai 613 della tradizione: “Negare a Hitler una vittoria postuma”. Fackenheim era convinto che la continuazione stessa della vita ebraica e l’affermazione politica dello stato d’Israele fossero le tracce di un tiqqun prossimo venturo. A quasi trent’anni dalla stesura del libro, ci si può chiedere se la riparazione dell’anti-mondo sperata da Fackenheim sia, anche solo in parte, compiuta e se si sia almeno tentato di raddrizzare ciò che è storto.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore