Angel Wagenstein, I cinque libri di Isacco Blumenfeld 07/06/2010
I cinque libri di Isacco Blumenfeld Angel Wagenstein Traduzione di Sibille Kirchbach Baldini Castaldi Dalai Euro19
Dopo Shanghai, “città di splendore e miseria”, ultimo approdo per una moltitudine disperata di uomini e donne in fuga dall’Europa nazista, è il villaggio galiziano di Kolodez presso Drohobycz a fare da sfondo al bellissimo libro di Angel Wagenstein “I cinque libri di Isacco Blumenfeld”. Come Moni Ovadia, che cura la prefazione, anche l’autore è nato a Plovdiv in Bulgaria; entrambi sefarditi sono rimasti affascinati dalla cultura ashkenazita, “ovvero di quegli ebrei di ascendenza germanica che parlano lo yiddish”. Wagenstein ha trascorso l’infanzia in Francia dove la famiglia era emigrata per ragioni politiche. Tornato in Bulgaria in seguito ad un atto di amnistia, si è unito ad un gruppo antifascista e per i suoi atti di sabotaggio è stato arrestato e condannato a morte nel 1944; l’arrivo dell’Armata Rossa lo ha salvato dall’esecuzione. Sceneggiatore e regista prima di dedicarsi alla scrittura, ha ricevuto nel 2008 in Francia il premio Jean Monnet per il romanzo Shanghai addio. Con in mano un telegramma bordato di nero, proveniente da Vienna, lo scrittore bulgaro è ora libero di raccontare le “giravolte e le capriole” del destino di Isacco Blumenfeld (sarto di Kolodez, figlio di Jacob – detto Jasha – anch’egli sarto), una storia avventurosa che si situa in un arco di tempo compreso fra due guerre mondiali. “Niente tacerò e niente aggiungerò a questa nuova Torah o, detto nella vostra lingua, a questo Pentateuco, ai Cinque Libri di Isacco Jacob Blumenfeld”. Cinque come le vite che ha vissuto e delle quali, ormai vecchio, Jacob si accinge a raccontare, con i raggi del sole sullo sfondo, da un terrazzo di Vienna - il suo “magico ed eterno sogno” - sorseggiando una tazza di caffè con panna. Da suddito dell’impero austro-ungarico Blumenfeld è diventato cittadino della repubblica polacca, poi cittadino sovietico, e ancora individuo di razza ebraica residente nei territori orientali del Reich per essere infine cittadino della repubblica federale austriaca. Una miriade di avventure e peripezie il cui racconto, “intessuto dal filo dorato degli yiddishe witze, le leggendarie storielle umoristiche”, prende avvio nello shtetl di Kolodez dove si trova il Mode Parisienne, la sartoria del padre presso la quale Jacob muove i primi passi da sarto buscandosi anche qualche “scapaccione col metro” quando i suoi sogni lo portavano a viaggiare, con la testa fra le nuvole, fino a Vienna. Una galleria di personaggi accompagna il lettore che si trova immerso nella frenetica vita quotidiana di un villaggio ebraico della Galizia del Sud: Ljova Weissman, proprietario di una macchina da proiezione, di tanto in tanto arriva da L’vov e proietta nel bar di David Leibovitz qualche film procurato “chissà come e dove”; pan Wojtek, il commissario che si occupa di mantenere l’ordine; lo zio Chaimle che vendendo un orologio d’oro per procurarsi i soldi porta Jacob a Vienna per fargli ammirare le bellezze di quella città ma soprattutto per farlo diventare uomo prima del suo arruolamento. Ma è soprattutto il rabbino Charibi Shmuel Bendavid e sua sorella Sara a delineare i momenti più significativi della vita del giovane Jacob: il primo lo accompagnerà con i suoi consigli preziosi, scaturiti da una mente libera e da una coscienza “atea”, fino al campo di lavoro di Flossenbürg, la seconda, della quale era perdutamente innamorato fin da ragazzo, diventerà sua moglie allietandolo con la nascita di tre figli, Jasha, Shura e Susanna le cui vite si perderanno nel flutti della Storia. Dopo l’arruolamento nel maggio del 1918 la prima esperienza bellica del nostro eroe, durante la quale ha il dubbio piacere di conoscere il sergente “Zuccherino” (così ribattezzato per la sua abitudine di dare pizzicotti sulle guance delle reclute), si chiude ancor prima di cominciare e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico traghetta Jacob nella nuova identità di cittadino polacco, “un nuovo trofeo alla mia personalissima collezione di nazionalità….” La tranquilla e monotona vita da cittadino della Repubblica polacca “un continuo su e giù per le colline scialbe della quotidianità” si interrompe bruscamente quando il postino Awramczyk, l’anziano veterano della guerra russo-turca, gli consegna una cartolina gialla per la quale il 17 settembre 1939 Jacob deve presentarsi in pieno equipaggiamento militare a difendere la sua nuova patria. Ancora una volta Blumenfeld non ha l’onore di “portare a casa la vittoria o quantomeno di sacrificare la vita per la patria” perché proprio quella mattina la Polonia è liberata dal giogo dei panowie e dei latifondisti ed entra a far parte della patria dei contadini e operai, la grande Unione Sovietica (“….mi ritrovai a essere da un momento all’altro un patriottico cittadino del miasteczko sovietico di Kolodez, un tempo appartenuto al voivodato di L’vov e ancora prima al distretto austro-ungarico di Leopoli, ma ora diventato un avamposto della rivoluzione del proletariato”). Se il passaggio dall’Austria-Ungheria alla Polonia avviene senza particolari turbamenti, con la nuova realtà politica i cambiamenti nella vita di Isacco e della sua famiglia sono “rivoluzionari”. Ad esempio le nuove autorità decidono di togliere l’insegna di Mode Parisienne alla sartoria di Blumenfeld perché considerata “decadente” e non in sintonia con i gusti dei moderni contadini e operai; inoltre il vecchio bar di David Leibovitz viene trasformato in Casa della Cultura mentre “il proprietario è promosso ad assessore con tanto di stipendio mensile a carico dello stato sovietico”; pan Wojtek, arrestato in quanto ex sindaco, viene riciclato come capo dell’ufficio anagrafe. Ne consegue che “…in un batter d’occhio ognuno si trovò un posticino nella nuova vita”. E nonostante i cambiamenti la vita ebraica continua il suo corso scandito ogni shabbat dai momenti di preghiera e di ritrovo di quella piccola comunità dove i racconti delle storielle ebraiche si mescolano alle informazioni sui fatti della vita e della “rivoluzionaria” e non sempre piacevole realtà politica. E in questi momenti una delle figure più affascinanti, ritratte con perizia e hokhmah da Wagenstein è il rabbino Shmuel Bendavid che nonostante le inquietudini che incrinano la solidità della sua fede, accetta di recitare in sinagoga la preghiera con i cittadini di Kolodez (“…i suoi idoli erano l’Onestà e la Vita al servizio del prossimo, e questi richiedevano un cuore limpido la cui purezza veniva profondamente offuscata e offesa dalla venerazione degli idoli sbagliati…”). Poco dopo aver mandato Sara alle terme di Rovno per curarsi i reni in compagnia dei suoi figli, il 22 giugno 1941 alle sei di mattina Isacco è in partenza, naturalmente insieme al rabbino Bendavid per L’vov, dopo aver ricevuto entrambi l’ennesima cartolina gialla. Le pagine che seguono sono un crescendo di avventure rocambolesche e di colpi di scena la cui descrizione lasciamo al piacere e al gusto del lettore. Basti dire che dopo aver attraversato gli orrori del campo di lavoro di Flossenbürg, nella Baviera orientale, ed esserne miracolosamente sopravvissuto Isacco ritrova per una imprevedibile capriola del destino il buon rabbino Bendavid “in un punto del tutto arbitrario dello sterminato continente asiatico, alla fine del mondo, in Kazakistan”! Uomini e donne generosi, anime dolenti e colpite da un fato ingrato come Mark Lebedev, regista famoso di commedie musicali, o come “Doc Joe” il maggiore tedesco di nome Johann Schmidt che proprio alla fine della guerra si aggrega all’esercito americano, accompagnano come piccoli cunei in un percorso dissestato il cammino di Isacco Blumenfeld. Felice sintesi di storie, di sentimenti ed emozioni spirituali, l’ultimo romanzo di Wagenstein cattura il lettore non solo per la ricchezza della trama che non concede tregua alla lettura, ma anche per quella capacità tipicamente ebraica di infarcire ogni narrazione di yiddishe witze, i motti di spirito, che pur non risparmiando nessuno sono rivelatori di una profonda saggezza. Perché l’umorismo nel mondo ebraico non è solo un modo per divertirsi e ridere di sé, è soprattutto una filosofia di vita che ha consentito agli ebrei “di attraversare i momenti più tragici della loro esistenza senza che la loro identità ne venisse demolita”. Un’attitudine preziosa grazie alla quale Isacco e milioni di ebrei in tutte le epoche storiche hanno potuto accedere con spirito libero alle trasformazioni ed evoluzioni delle società in cui si sono trovati a vivere. E’ davvero un bel romanzo l’ultima opera dello scrittore bulgaro: un libro che riesce a imprigionare il lettore con una scrittura che salta, danza e commuove come in un canto magico. E come Moni Ovaia non mi farò nessuno scrupolo “nel consigliare caldamente a tutti coloro che posso raggiungere di non perdere l’occasione di leggerlo”.