Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 31/05/2010, a pag. 17, l'intervista di Alix Van Buren a Khaled Meshal dal titolo " Riconoscere lo Stato di Israele? Apriamo i negoziati e se ne parlerà ".
Khaled Meshal, capo di Hamas in esilio (volontario, cosa che nessuno specifica mai, non è ben chiaro per quali motivi) a Damasco, dichiara sui negoziati con Israele : "Se parliamo di condizioni, è necessario distinguere fra "precondizioni", che sono un ostacolo al dialogo, e "condizioni", che hanno invece lo scopo di raggiungere un accordo. Sono due cose diverse. All´interno di un negoziato, ogni parte pone sul tavolo le proprie condizioni, che vanno discusse in vista di un´intesa". Quindi, secondo lui, Israele dovrebbe sedere al tavolo dei negoziati senza chiedere nessuna garanzia. Possibilmente cedere su qualunque richiesta assurda avanzata dalla controparte palestinese e raggiungere così un'intesa.
Forse Meshal non se n'è accorto, ma Hamas ha perso la guerra contro Israele. Non è nelle condizioni di avanzare alcunchè. In ogni caso la presenza di Hamas non è prevista ai tavoli dei negoziati, perciò le dichiarazioni di Meshal hanno poco valore per quanto riguarda i negoziati fra Israele e i palestinesi.
Meshal continua : "Hamas accetta uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967, con Gerusalemme capitale, e il ritorno dei profughi nell´ambito della posizione araba e palestinese. Però, questo non significa accettare la formula dei due Stati, né riconoscere Israele". Non solo Hamas insiste sul presunto diritto al ritorno dei palestinesi, un meccanismo che spazzerebbe via Israele, ma dichiara anche che Hamas, in ogni caso, anche una volta ottenuto uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme, si rifiuterebbe di riconoscere Israele. Quando Van Buren gli chiede spiegazioni, dice : nel caso della Palestina, diversamente da altri Paesi arabi che hanno terre occupate da Israele, se Israele tornasse alle frontiere del ‘67, non restituirebbe tutti i territori, ma soltanto il 20-21 per cento della Palestina storica. Conserverebbe il 79 per cento. E la metà dei palestinesi proviene proprio dai territori occupati nel 1948". La Palestina storica non esiste. E' un'invenzione dei propagandisti palestinesi per delegittimare Israele e contestare il suo diritto ad esistere.
Prima della nascita di Israele, la zona faceva parte dell'impero ottomano. Quando questo si è disgregato, alla fine della prima guerra mondiale, l'area è diventata mandato britannico. Nel '48 è nato lo Stato ebraico e sarebbe potuto nascere anche quello palestinese, se gli Stati arabi limitrofi non l'avessero rifiutato, convinti di poter eliminare alla svelta l'odiata 'entità sionista'.
In ogni caso, facciamo notare a Van Buren e a Meshal che anche la Giordania è uno Stato recente. Non sono terre palestinesi pure quelle? E sul fatto che la Giordania rifiuti di concedere la cittadinanza ai palestinesi pur avendo una regina palestinese, Meshal non dice niente?
"Prima si consenta ai palestinesi di vivere in uno Stato indipendente sulle linee del ‘67. E poi si chieda loro se intendono riconoscere o no lo Stato di Israele. Non si può imporlo adesso, mentre la metà dei palestinesi è sotto occupazione e l´altra metà nella diaspora (?!? ndr)". Ecco il punto, prima Israele deve cedere parte dei suoi territori e soddisfare tutte le richieste dei palestinesi, poi, forse, si potrà chiedere loro di riconoscere Israele. Ma non è sicuro che questo avvenga.
Ecco l'analisi di Meshal sul fallimento dei negoziati : "Mancano due condizioni essenziali: non c´è la volontà internazionale d´imporre a Israele il prezzo della pace, e i negoziatori arabi e palestinesi non dispongono di carte da far valere nel negoziato. La carta più forte, a nostro avviso, è la resistenza". Se tutto fallisce è per colpa della comunità internazionale troppo morbida con Israele e del fatto che i leader dell'Anp non giochino l'unica carta di valore, quella della 'resistenza'. Quando Meshal parla di 'resistenza' intende terrorismo contro la popolazione israeliana disarmata. Come mai Van Buren non gli chiede spiegazioni al riguardo? Non sia mai fornire un'immagine troppo negativa dei poveri palestinesi a Gaza e in 'esilio' a Damasco.
Meshal sulla prigionia di Gilad Shalit : " la responsabilità è dell´America". E pensare che tutto il mondo crede che la responsabilità sia di Hamas che l'ha rapito quattro anni fa !
Il titolo dell'intervista, poi, è scorretto. Lascia intendere che Hamas sia pronto a riconoscere Israele una volta aperti i negoziati ma, leggendo l'intervista, è evidente che Hamas non lo farà mai.
Ecco l'intervista:
Khaled Meshal
DAMASCO - «Prima o poi, qualcosa succederà. L´isolamento di Hamas non potrà durare più a lungo. È una finzione priva di logica. Il mio incontro con il presidente russo Medvedev spiana la strada ad altri, che vorrebbero seguirne l´esempio. Del resto, Medvedev ha fatto apertamente quel che molti occidentali fanno dietro le quinte. Lo ha detto lui stesso. Però, se considero il nostro impegno, i segnali in arrivo dal mondo, credo che il futuro sarà nostro».
Khaled Meshal, il leader supremo di Hamas in esilio, è tutto preso a distillare le novità. Nel suo villino-bunker di Damasco gli amici, e sono pochi, sventolano il riconoscimento offerto da Mosca. I nemici, e sono schiere, continuano a tacciarlo di ambiguità: «un terrorista», dicono, «in doppiopetto». E gli oltranzisti, dal canto loro, lo ammoniscono a non «inchinarsi» alla comunità internazionale, dopo che Hamas ha espresso pubblico rammarico per le vittime civili israeliane, colpite dai razzi di Hamas. Lo ha fatto nella risposta al rapporto Goldstone sulla guerra di Gaza.
Si aspettava l´incontro con Medvedev?
«No, non me l´aspettavo. Certo, ci eravamo già visti a Mosca. Però, la sua richiesta al presidente siriano Assad di favorire un incontro ufficiale qui a Damasco, mi ha colto di sorpresa».
Per Hamas che cosa significa questo incontro?
«È un segnale che il mondo comincia a riconoscere ad Hamas un peso nella scena regionale e palestinese, per il legittimo sostegno degli elettori, dei popoli arabi e islamici; per il ruolo politico e militare, soprattutto dopo la guerra di Gaza. E che la pace arabo-israeliana non avverrà senza Hamas. Quanto alla Russia, Mosca vuole una parte più importante nel processo di pace, soprattutto alla luce del fallimento della politica americana in Medio Oriente, e nei negoziati per la pace».
Le sue speranze non saranno eccessive?
«So bene che in politica non si fanno previsioni sulla base di un unico incontro. Ci aspetta un lungo lavoro. Però la Russia, infrangendo le precondizioni al dialogo con Hamas, di fatto le ha indebolite. Aprirà la porta, in futuro, ad altri che vogliono seguire le sue orme. Già i nostri rapporti con la comunità internazionale migliorano in Europa come in Asia, in Africa, in America latina. Ma mi riferisco anche ai molti funzionari occidentali, compresi quelli americani, che intrattengono con noi un dialogo a volte segreto, altre indiretto, altre ancora informale. Come vede, c´è un contrasto fra la teoria e la necessità pratica di dialogare».
Meshal, è ora che anche lei esca finalmente allo scoperto. Il Quartetto - Usa, Russia, Ue, Onu - le pone tre condizioni chiare: riconoscere Israele, aderire agli accordi già presi, rinunciare alla violenza. Lei che intenzioni ha?
«Se parliamo di condizioni, è necessario distinguere fra "precondizioni", che sono un ostacolo al dialogo, e "condizioni", che hanno invece lo scopo di raggiungere un accordo. Sono due cose diverse. All´interno di un negoziato, ogni parte pone sul tavolo le proprie condizioni, che vanno discusse in vista di un´intesa».
Questo vuol dire che, per lei, il riconoscimento di Israele è una carta da giocare in un´eventuale trattativa?
«Proprio così. L´ho detto a tutti, anche al presidente Carter. Ascolti, Hamas accetta uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967, con Gerusalemme capitale, e il ritorno dei profughi nell´ambito della posizione araba e palestinese. Però, questo non significa accettare la formula dei due Stati, né riconoscere Israele».
Perché tanta ambiguità? Qual è la differenza? Accettare i confini del 1967 non comporta un riconoscimento indiretto di Israele?
«La differenza è importante, e gliela spiego: nel caso della Palestina, diversamente da altri Paesi arabi che hanno terre occupate da Israele, se Israele tornasse alle frontiere del ‘67, non restituirebbe tutti i territori, ma soltanto il 20-21 per cento della Palestina storica. Conserverebbe il 79 per cento. E la metà dei palestinesi proviene proprio dai territori occupati nel 1948».
Lei vuole tornare, nientemeno, al 1948?
«No, non dico affatto questo: Hamas accetta i termini dell´attuale negoziato, le risoluzioni dell´Onu. Però è bene procedere un passo alla volta. Prima si consenta ai palestinesi di vivere in uno Stato indipendente sulle linee del ‘67. E poi si chieda loro se intendono riconoscere o no lo Stato di Israele. Non si può imporlo adesso, mentre la metà dei palestinesi è sotto occupazione e l´altra metà nella diaspora. Si cominci col riconoscere i loro diritti».
Il presidente Abbas procede con i negoziati. Lei resta escluso. L´inflessibilità paga?
«Abbas, come Arafat, ha riconosciuto Israele. E in cambio non ha ottenuto niente. Sul tavolo c´è anche il piano arabo del 2002: riconoscimento di Israele e normalizzazione dei rapporti in cambio del ritiro alle frontiere del ‘67. Però Israele non risponde. La ragione è evidente».
Si spieghi.
«Mancano due condizioni essenziali: non c´è la volontà internazionale d´imporre a Israele il prezzo della pace, e i negoziatori arabi e palestinesi non dispongono di carte da far valere nel negoziato. La carta più forte, a nostro avviso, è la resistenza».
Il caporale israeliano Gilad Shalit è ancora vostro prigioniero. Fino a quando?
«Finché Stati Uniti e Israele non sbloccherano le trattative per il suo rilascio. Eravamo prossimi a un accordo. Poi Netanyahu si è rimangiato la proposta fatta al mediatore tedesco. L´America è contraria a un´intesa, perché pensa che rafforzerebbe Hamas e indebolirebbe Abbas. Lo ha detto il padre di Shalit: la responsabilità è dell´America».
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